Dialogo immaginario a cura di Enrico Maria Troisi e Gioconda Fappiano
Maria, Il suo destino, glorificato, illustrato, scolpito, cantato. Maria raccontata quale madre di sana e servizievole costituzione, muta, docile, dolente, contemplativa della grandezza del Padre e del Figlio. Maria donna solo funzionale all’affermazione del Dio fattosi uomo neotestamentario, ma poi scartata dalla Chiesa Petrina perché pericoloso concorrente. Maria santuario perfetto ed immutabile, rimedio ad Eva. Maria, la monaca che ha divorato la madre e la donna. Maria che non muore, non invecchia, ma non riesce comunque a sottrarsi alla punizione riservata alle donne a causa di Eva, eppure è Immacolata, libera dal peccato originale: partorirà senza dolore come l’ostrica fa con la perla, secondo la teologia di Sant’ Efrem da Siro, ma dovrà lo stesso patire dietro al figlio accompagnandolo, in silenzio, dalla mangiatoia al Calvario. E nonostante ciò, il suo dolore otterrà consolazione solo in quanto eco e rimando a quello del Cristo.
A noi piace sognare Maria per ciò che probabilmente era e che la scarsezza di testimonianze non escluderebbe che fosse: una ragazza anticonformista e ribelle, coraggiosa, sovversiva, capace di mettere in discussione la legge di Israele e la parola dei sacerdoti (ex pastori poligami), annunciando al promesso sposo una gravidanza subìta ed accettata senza riserve in nome e per conto di un mandato grandioso. Il che, nel caso non fosse stata ascoltata e creduta, avrebbe potuto voler dire solo una cosa: ripudio e sassate. Così vera, umana, lontana dai dogmi sembra che Maria esisterebbe comunque, ed è rintracciabile in ciascuna donna. E se la ribellione ed il coraggio di Maria, ragazza israelita disobbediente, che sfida il suo tempo, fossero parte del disegno divino più dell’avvento in sé del Messia? Se Maria fosse depositaria di valori universali di amore, libertà, giustizia, bellezza e sapienza (e salvezza senza alcun bisogno di redenzione), e se la sua forza dirompente, modello inossidabile della generatività femminile, costituisse sempre un rischio incalcolabile per il potere e le sue gerarchie? Se la vita ed il dolore di Maria aiutassero a comprendere e accettare l’apparente insignificanza del vivere, inquadrando la vita di ciascuno quale mezzo per realizzare il vero disegno divino che è in fondo “liberaci dal male”? Perché allora Maria non dovrebbe essere più vicina alle donne comuni e più intimamente sentita? Perché la vera Maria non dovrebbe essere per le donne cristiane e non, un modello reale in cui riconoscersi e a cui ispirarsi? E quale ruolo possono avere allora il dubbio, la solitudine, la paura che si fanno strada nel cuore di Maria, alla vista del figlio straziato dall’ingiustizia dell’uomo e forse dalla follia delle scelte di entrambi, madre e figlio?? La questione dell’identità, del ruolo e in generale della fenomenologia di Maria, prende forma improvvisamente ed inaspettatamente durante la visita di Italo Conforti al Cristo Velato, a Napoli.
Cappella San Severo, Napoli, 29 marzo 2024
Faccio parte dell’ultimo gruppo di turisti del pomeriggio, in visita al Museo Cappella San Severo. Sono le 18 c’è ancora un po’ di sole che filtra attraverso l’imponente ingresso che affaccia su via de Sanctis. L’accesso alla cappella è pomposo, barocco…C’è un’aura di nobiltà che fa a pugni con la decadenza della zona di San Domenico Maggiore. All’interno del museo tutto è gelido. Sa di morte. Di tombe. Il bianco del marmo delle statue, delle pareti, del pavimento, le sale non sono riscaldate da candele, non c’è il profumo dell’incenso e nemmeno la voce di un sacerdote, quella che ti aspetti magari proveniente da un posto ancora consacrato dove si può celebrare messa. Qui non si prega, ma l’atmosfera è quella del luogo di preghiera. La gente, anzi la piccola folla, si guarda intorno, muta, composta, curiosa. Entro in fila nella cappella, alzo gli occhi e in alto sull’altare una raggiera di angeli fa da cornice ad una Pietà tipica, di maniera, piuttosto sbiadita, insignificante, la Vergine che sostiene sulle ginocchia il figlio morto. Sta lì quella Vergine in memoria del salvataggio da chissà cosa di un membro della famiglia di Sangro …Ricordo di aver letto che fu intorno a questa immagine che è nata tutta la cappella...
Divento d’un tratto impaziente. In fondo non sopporto questo posto. Che più che una cappella è un tempio esoterico, riempita come è di statue allegoriche: il Pudore, la Fortezza, la Temperanza, la Gloria, l'Educazione, l'Amor filiale… Allegorie senza contenuto, lapidi tombali auto-celebrative di altolocati. A parte il Disinganno, però. Il Disinganno non si tocca. Quella statua è l’emblema dell’uomo che cerca con uno sforzo supremo di districarsi dalla fitta rete di illusioni che l'avviluppa l’esistenza. Al culmine di tutte le sublimità, di tutte le passioni, di tutti gli amori c’è Il Disinganno.
Ed arrivo al Cristo… Al Cristo Velato
Davanti al Cristo è successo qualcosa. Mi dicono che sono rimasto impalato, in uno stato di sospensione, eppure io sentivo il cuore uscirmi dal petto, velocissimo, la testa era vuota, ondate di calore mi attraversavano il corpo dalla testa ai piedi. Ho avuto la certezza che stavo per morire e che non potevo farci niente. Andava così: sessant’anni o cinque minuti erano la stessa cosa. L’Io che se ne andava curvava lo spazio-tempo fino a farlo collassare. E’ la relatività dell’egoismo, io non posso farci niente. Neanche il tempo però di dire “che figura che ci faccio, mannaggia..…!”. Dunque tutto era diventato come dire…: istantaneo, distante, irreale! Comunque sono ritornato in me a “Gli Incurabili”…Ero confuso su chi fossi e cosa ci facessi là, terrorizzato e smarrito sì, ma impietrito, bloccato. Credo si tratti di terrore. Ricordo che subito dopo aver provato questa forma di terrore mi sono calmato, ed ho provato uno strano senso di leggerezza e serenità, quindi ho abbassato lo sguardo sul corpo di Cristo segnato dalle trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani.
…Sembra carne sotto un lenzuolo di marmo che è un sudario scolpito, che ti vien voglia di sfilare per guardare in faccia al cadavere; una cosa finissima ed incredibilmente naturale che vela lo spasmo e la sofferenza di quel corpo senza minimamente nasconderli…Poi d’un tratto, tutti quelli che giravano intorno alla statua si sono fermati mantenendo pose naturali fisse, come in un flash mob. Fra questi, una signora che potrà aver avuto cinquant’anni anni, minuta, in jeans, t-shirt bianca, capelli biondo cenere raccolti in uno chignon, uno zaino, un pullover traforato color ocra, snikers, orecchini…; ma meno trafelata, meno accaldata, sicuramente più composta di una qualsiasi turista. Insomma questa signora era l’unica a muoversi; aveva scavalcato la protezione ed ora era in piedi, accanto al Cristo, e gli accarezzava il volto velato. Sono andato verso di lei per ammonirla di non toccare, ma poi anche io ho scavalcato la protezione per avvicinarmi alla statua. Non so perché l’ho fatto, ma l’ho fatto. Così ho preso ad accarezzare il Cristo insieme alla donna. A quel punto lei deve essersi accorta di me….
E’ seria, malinconica credo. Non so, mi è sembrato avesse gli occhi lucidi
Donna – (senza staccare gli occhi dalla statua) È grande quanto un uomo, è vigoroso, nel pieno dell’età, è disteso con le ginocchia appena sollevate. Le mani abbandonate, la testa reclinata di lato. Le palpebre sembrano tremare, vero? I capelli…I capelli sembrano scomposti e zuppi di sudore, certamente è il sudore dell’agonia. Quest’uomo era vivo un attimo fa…Lo vede? E il sudario? E’ coperto da un velo. Un velo di marmo che non nasconde niente…niente dello strazio e dello spasimo ma li addolcisce un po’, non è vero? C’era vita lì, in quel corpo una vita che Lui voleva trattenere. Questo corpo si ribella alla morte, quest’uomo non vuole morire! È il Cristo lì, sotto quel velo, e “Dio solo sa” quanto ha sofferto prima di morire durante quelle orribili sei ore. Non è ancora irrigidito dalla morte anzi è ancora caldo, vitale. Sente ancora il dolore patito.
Italo - Ma allora Lei pensa che lì c’è un uomo, non un Dio.
Donna - Cristo, Dio fattosi uomo? Mah! Soffrì realmente come un uomo e il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. E se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle se hanno schiacciato anche colui che restituiva la vita ai morti?
Italo – Lei mi sta dicendo che osservando questa statua c’è da perdere ogni fede? E Maria…Maria dov’era?”
Donna – E gli altri? Gli altri, dov’erano? Chi seguiva Cristo s’era dileguato alla vigilia del supplizio. Erano scappati via tutti, atterriti, inermi o vigliacchi…e in seguito sarebbero stati tormentati da un solo interrogativo: se il Maestro avesse potuto vedere come l’avrebbero ridotto sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì? E Maria? Già…Maria… Maria non sapeva, non immaginava neanche Lei, forse. Maria credeva di essere libera dal peccato originale, eppure l’ha pagata come tutte le altre donne, patendo dietro al figlio per tutta la vita, anche dopo li suo assassinio…. Ma sa che Le dico? Maria avrà capito che non c’è peccato che possa essere punito con tale dolore, e quindi non le è bastato credere che il Figlio fosse un Redentore per meritare una morte così atroce ed ingiusta. Il peccato di Maria era solo quello di aver voluto quel figlio contro ogni regola e contro ogni legge perché innamorata della Bibbia.
Italo – Come don Chisciotte lo era dei romanzi di avventura!?
Donna - Isaia invita all’avventura. E se avesse parlato a Maria, semplicemente dicendoLe “vieni a Dio, ma il rischio è tremendo. Sfida i leoni, cavalca il drago, è la Legge”. E se ad ogni parola del Profeta ci fosse un invito alla ribellione?? «Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio, e lo chiameranno Emmanuel». Le figlie d’Israele vivono a testa bassa, mentre Lei no! Non vuole essere data in sposa a chiunque, e non vuole che chiunque possa desiderarla. Forse nessuno l’aveva chiesta in sposa perché Lei era sfacciatamente ribelle, disobbediente, ed era quel tipo di donna che la Chiesa avrebbe voluto sempre rinchiudere, umiliare, bruciare e tenere nell’ignoranza per paura della sua forza creatrice! Forse il Disegno di Maria era così grande che poteva coincidere solo con quello immenso di Dio! Lei cosa sa di Maria?
Italo –Io?? Niente. Ora me ne rendo conto.
Donna- E per quanto se ne sa, potrebbe essere del tutto vero che Maria non abbia concepito un Dio, ma abbia convinto tutti sulla eccezionalità della sua gravidanza.
Italo - Ma quello che dice è sacrilego!
Donna – Sa cosa è sacrilego? E’ sacrilego che la testimonianza di Maria spingerebbe qualunque donna alla rivolta, al sogno, all’impossibile, ad osare, testimoniare, resistere”.
A questo punto la Donna si è rivolta a me. Era improvvisamente su di tono, euforica.
Donna – E le dirò di più. Maria… si sarà sentita una Regina, come nei giochi di quando si è bambini e i tuoi genitori sono poveri, tristi e crudeli con te, e sognano di liberarsi di te. Eh sì, nulla era impossibile a Dio, compreso scegliere Lei per dare alla luce un…Dio! Il bimbo che le sarebbe nato, annunciato in un sogno, sarebbe stato Santo, e tutta la storia e l’onore dei cieli sarebbe precipitata nel ventre di Maria e nessuno, neanche Giuseppe l’avrebbe più sfiorata, e nessun vecchio dal volto severo, di pietra, l’avrebbe mai cacciata dal Tempio, e nessuno l’avrebbe mai venduta per 30 pecore a chi la chiedeva in sposa.
Italo – Ma allora, qui sotto questo velo, giace il risultato di un delirio?
Donna – Spero di no…Lo spero, perché sennò Maria avrebbe di che soffrire per sempre. Sarebbe questo il regalo che avrebbe fatto Maria a suo Figlio, una morte orrenda, ingiusta, in nome di un delirio di grandezza?
Italo – Quindi quest’uomo straordinario sarebbe nato da uno smodato desiderio di riscatto e da un delirio di onnipotenza, ed amato ed accudito come un bimbo qualsiasi, e per cosa sarebbe morto?
Donna – Ecco. Anche Maria sarà arrivata a chiedersi: perché muore, perché deve morire, perché non ha vinto i suoi nemici, perché è voluto salire lui stesso sulla croce? Dov’era il regno annunciato? Dov’è la primizia? Maria ha cercato di seguirlo senza mai riuscire a raggiungerlo perché lui ormai guardava troppo lontano, troppo lontano anche per lei che aveva dato inizio a tutto questo.
Ero spaventato, le parole della donna mi avevano aperto gli occhi. Per me la Madonna era una donna giovane, di sobria e modesta bellezza, pura, fertile, passiva, fedele e comunque madre fino alle assurde conseguenze, conseguenze orribili e disperate, come diceva la strana donna accanto al Cristo Velato. Oppure era un’anziana, dolente ed austera signora vincolata agli obblighi della fede, devota, in contemplazione, muta, caritatevole, assunta in cielo da viva, mai morta o morente, capace solo di soffrire di dolore riflesso, quello del Figlio. Una bella statuina in una nicchia, con un cuore trafitto! Invece la donna mi diceva che Maria era forse sola, col suo immenso dolore, disvelato attraverso quel Cristo nel suo sudario di morte e di marmo, che pagava con un dolore indicibile il suo atto di ribellione. E che forse, quell’uomo sotto al velo, non voleva morire proprio per tornare da Lei, per consolarla, per dirle che lui non avrebbe più sbagliato, che non l’avrebbe mai più abbandonata.
A un certo punto quella strana “turista” si blocca e mi chiama per nome.
Donna- “Italo”, Italo Conforti… “Prova a pronunciare ora il mio nome…
Italo- Mamma? Maria!? Perché sei morta, perché non sei al tuo posto, in cielo? Perché sei vestita così?
Sono le ultime cose che ricordo. Poi il buio, un dolore alla bocca e un liquido caldo che mi bagnava le cosce. Mi sono svegliato all’Ospedale degli Incurabili.
La mia esperienza è stata davvero impressionante. Ho vissuto una crisi epilettica ed ho avuto un’allucinazione, ho drammatizzato i sentimenti che provo per mia madre, che mi ha lasciato. Ce l’avevo con Lei per avermi lasciato. Ma da questa esperienza ho capito tante cose. Una madre è un’eroina, e non smette di amare il figlio, di aspettarlo, di ricordarlo, di raccontarlo, e parla al figlio anche da morta. E che poi c’è un Figlio speciale, unico, irripetibile, custode e testimone del Bene, che continua ad esistere perché una Lei speciale, Maria, lo ha voluto con tutta se stessa e dato alla luce.
Bibliografia
di Enrico Maria Troisi e Gioconda Fappiano
Ricreare Il mito è un gioco narrativo proprio della letteratura. La letteratura attualizza, riscrive, ri-contestualizza il mito di Medea sfruttando l’enorme potenziale metamorfico della sua vicenda. Euripide, per esempio, sceglie per Medea il prototipo di madre assassina pienamente cosciente e lucida, Seneca sottolinea la potenza esoterica della maga della Colchide, Ovidio si sofferma sul passaggio da donna amante a donna furente, ed infine gli autori dell‘Ottocento e del Novecento valorizzano la sua condizione di straniera. A seconda delle esigenze, la storia di Medea e degli Argonauti si presta dunque ad essere ri-narrata in diverse varianti.
Il breve testo che proponiamo si ispira alla versione di Christa Wolf. che col romanzo “Medea: Voci” (Stimmen) pubblicato negli anni 90, imprime alla storia una violenta torsione. Wolf si chiedeva: “Possibile che una guaritrice e esperta di magia, che doveva essere emersa da antichissimi sostrati mitici, da epoche in cui i figli erano il bene supremo di una tribù e in cui le madri venivano tenute in gran stima proprio per la loro capacità di generare e proteggere la stirpe” sopprimesse i suoi stessi figli perchè non più moglie e quindi, secondo tradizione, non più “vera”, riconoscibile madre? Possibile che Medea, madre “culturale” a tutto tondo trovi “naturale” liberarsi dei suoi stessi figli allo scopo di soddisfare il suo bisogno di vendetta? Quindi con il supporto di studiose dell’area antica, la Wolf trova sostegno alle sue intuizioni e approfondisce le “fonti antecedenti Euripide” per dare corpo ad una Medea positiva. La Medea di Wolf non è una madre assassina ma una vittima sacrificale perfetta su cui convogliare la violenza di una società confusa ed in bilico. La nostra versione regala a Medea una ulteriore possibilità con la complicità di Euripide e del coup de théâtre da lui escogitato: la purificazione attraverso l’arte e la catarsi dell’anima attraverso il racconto, e pur ribadendo la conquista da parte della donna della piena autonomia dalla tradizione, che la vuole marginale e succube, e dal capriccio degli Dei, che ne segnano il destino, le offre la possibilità di un ulteriore riscatto morale, quello dall’astio, dalla rabbia e dall’unica via d’uscita, la maledizione, che la Wolf le assegna. Medea era libera dagli uomini e dagli dèi ma non dalla rabbia e dal dolore. E se il bene equivale alla libertà, ed il male ad assenza di libertà, il sacrificio della Principessa della Colchide in nome della giustizia, dell’amore verso i figli e dell’autonomia (umana e spiccatamente “di genere”) sarebbe risultato dunque inutile senza un riscatto morale.
Sullo sfondo resta comunque il significato profondo della tragedia, che e’ la consapevolezza del confine su cui si fronteggiano il destino, e l‘impulso della ragione a rivendicare la propria autonomia.
Teatro Antico di Taormina, al tramonto. Va in scena Medea, di Euripide. È il punto più alto della tragedia (quinto episodio): Medea si interroga sulla scelta di uccidere i figli. Dell’intero oikos resta la camera da letto, illuminata debolmente. I colori sono terrei, rugginosi. Nello spazio extrascenico si intravede un lavabo; a destra, più avanti, un talamo modesto, sfatto; da un lato si apre un salone dove insistono il Coro, il precettore Aio e la nutrice. Tre ragazzini si rincorrono in silenzio alle spalle della donna, che è lì che si dimena, al centro della scena. Indossa un abito scuro lacero, nessuna traccia della principessa barbara della Colchide, piuttosto una strega. Inizialmente si muove a scatti, come una bestia braccata, curva, circospetta, china quasi a quattro zampe.
Medea -Donne di Corinto, sono uscita dal palazzo perché non abbiate nulla da rimproverarmi; colui che era tutto per me si è rivelato un uomo infame, il mio sposo. Fra tutti quanti hanno anima e ragione noi donne siamo le creature più infelici, piene di paura, vili di fronte alla vista del ferro, ma quando veniamo offese nel nostro letto, non c'è altra mente che sia più sanguinaria. La mia situazione è disperata. Ma non è finita qui, credetemi. Molte vie di morte mi si aprono, ma non so ancora quale seguirò amiche mie. Forse …ucciderò i miei figli e nessuno me lo impedirà, dopo avere annientato la casa di Giasone me ne andrò da questa terra. Medea…dimentica i tuoi figli almeno in questo breve giorno: poi li potrai piangere. Anche se li ucciderai, infatti, li hai molto amati: ma io sono una donna disgraziata. Oh creature mie, voi avete una città e una casa ove, dopo avermi lasciato, abiterete in eterno mentre io andrò da sola in un'altra terra prima di aver di voi goduto, avervi visti felici, aver celebrato le vostre nozze innalzando le fiaccole . Ora che ho visto lo sguardo dei miei figli la mia mano non vacillerà. So bene quanto male sto per fare ma la passione domina sopra il mio volere. Ed ora chiamatemi pure leonessa se....(pausa)
Appena ha preso la decisione di uccidere i suoi tre figli, la donna si placa, si raddrizza, avanza, zoppicante come la sua moralità, l’espressione ora impassibile ora stravolta. Ma poi si interrompe, un sorriso sbieco, una espressione perplessa, una posa eretta, congelata. Una eclisse: sembra non ricordare il testo. Resta a lungo così, in silenzio. Il Coro e gli attori che interpretano Aio e la nutrice, si guardano perplessi. I ragazzi si fermano, si tengono per mano in silenzio; si alza lentamente un brusio dal pubblico. Medea raggiunge il proscenio e lo percorre avanti e dietro più volte, lenta, circospetta, lo sguardo rivolto al pubblico delle prime file. È in cerca di qualcuno. Certo! Medea è ora un personaggio in cerca del suo autore, Euripide, finchè non lo scorge. Euripide è lì, a suo agio, seduto in quarta fila, defilato perché non ama apparire e preferisce assistere alle sue opere come se fossero frutto dell’ingegno d’altri. Egli, come un dio, ama separarsi dalla sua creatura e lasciarla libera di agire. Medea lo sa e ne ha quasi timore, ma l’inattesa fortuna di poter sfuggire ai rigori del copione si trasforma nell’ impulso potente, non meditato, di pronunciare a voce alta il suo nome. Euripide non sembra sorpreso, anzi sorride.
Medea - Euripide, Signore. Guardami! Mi conosci? Mi riconosci? Sono Medea, non Elettra o Elena. Medea. Voglio dirti una cosa: non li ammazzo. Non ammazzo Tessalo, Alcimene, e Tisandro. No. Sei sorpreso? Non l’ho fatto prima, e non lo farò adesso. Scordatelo! Scordatevelo tutti voi. E ora sono qui a raccontarvi una storia diversa, piccola e infelice, dimenticata da tutti ma non da te, Euripide.
Euripide sembra annuire con un piccolo cenno del capo; la gente si sporge dalla fila per volgere lo sguardo ora a lui ora alla donna ferma sul proscenio.
Medea - Euripide, che hai fatto? Tu che condannavi le montature dei sofisti, che con la loro arte negavano all’uomo i suoi veri valori per assoggettare chiunque fosse più debole di intelletto, tu che odiavi la falsa severità di Atene la cui giustizia era solo uno strumento di cieca sopraffazione. Tu che non credevi nei capricci degli dei. Ma soprattutto tu che ti opponevi alla “pochezza” di noi donne, assoggettate e disprezzate. Tu, proprio tu, armi la mia mano contro i miei figli perché così si compia la mia vendetta di donna, cui il tradimento di un empio ha negato per sempre l’incontro con Eros e Dioniso? No, signore, no. Chi t’ha pagato per cambiare la mia storia?
Euripide non sorride più
Medea - Sei un uomo, Euripide, vero? Cosa dicono gli uomini, Euripide? Che non hanno colpe, vero? Che sono gli dei che li scaraventano nelle loro disgraziate imprese? Sai che c’è? Che il fragore del macello e del sangue, ed il lamento dei vinti per mano degli uomini, non provocheranno mai loro abbastanza dolore,
abbastanza disperazione! Ovunque sulla Terra.
Euripide a quel punto la interrompe - Medea, vai al punto!
Medea - Signore, gli uomini hanno addestrato noi a disperarci. Qualcuna dovrà pur portare il lutto…Euripide, Signore! Siamo sacrificabili perché portatrici di un nuovo mondo, lontano dalle vostre smanie di potere e dal vizio della guerra, vero? Ed anche a me è toccata questa stessa sorte. Eccomi, la pago per tutti!
Euripide - Cosa vuol dire “la pago per tutti”?
Medea - Aspetta, che te lo spiego ( si accovaccia a gambe incrociate). Ma vieni qui da me, accanto a me. Signore…
Euripide, fingendo imbarazzo, non può far altro che raggiungere Medea sul proscenio. Ora è in piedi che la osserva e l’ascolta guardandola dall’alto in basso fintamente severo.
Medea ( Rivolgendosi agli spettatori) - Vi racconto una storia, o vuoi raccontarla tu, Euripide? I miei figli, miei e di Giasone, furono uccisi per mano dei Corinzi. Tu lo sai bene, perché in cambio di 15 talenti ti proposero di redimere dalla loro colpa quella gentaglia, pubblicamente, accusando me della loro morte.
Euripide - (fingendosi sorpreso) Non capisco cosa vuoi dire…
Medea - Sai come funzionano le cose a Corinto…Ah no, aspetta, aspetta. Come si disse? Li avevo inconsapevolmente soppressi io i miei figli, vero? Ma questo non bastava, era ancora poco per escludere le responsabilità di Creonte il re, o del popolo di Corinto per questo atto orribile. No! I talenti servivano a farti scrivere che dovevo essere io, Medea, a farlo, e non per qualche strana pazzia. No! Ero pienamente consapevole di tale gesto, ero capace di intendere e di volere, perfettamente lucida, e divorata dalla gelosia e dal sesso coniugale negato. Volevo vendicarmi di Giasone per il suo matrimonio con Glauce, la figlia di Creonte.
Euripide (bonario) - Non te lo ricordi? Su di te giravano tanti racconti. Avevi già assassinato tuo fratello Apsirto, ai tempi in cui Giasone ti aveva portato via dalla Colchide. Dopo aver ucciso Creonte, sei poi scappata da Corinto lasciando i tuoi ragazzi nel santuario dove li credevi al sicuro, ma i Corinzi li hanno raggiunti ed uccisi. Anzi no, c’è un’altra versione dei fatti: hai ucciso involontariamente i fanciulli seppellendoli nel tempio di Era, durante la fuga, per donare loro l’immortalità. Cosa preferisci, la follia o la stupidità? Non t'è andata meglio con la mia storia? Farti reagire al tradimento di Giasone è un atto atroce, ma fiero al tempo stesso, che rivendica il tuo diritto assoluto ad esser donna, libera di creare e di distruggere per conto di te stessa invece che del capriccio degli dei.
Medea - No Euripide, SIGNORE! Io non ho alcuna colpa e dimostrerò a tutti la mia innocenza. Non sono né stupida, né pazza e nemmeno un’assassina. Non ho ucciso alcuno, ne Apsirto, né Creonte né Glauce, o Ifinoe, o addirittura Creonte, né tantomeno Tessalo e Alcimene, né Tisandro. N-E-S-S-S-U-N-O! La racconto a loro (rivolta al pubblico) la vera storia, quella verità che, pagandoti, ti hanno convinto a seppellire.
Ho lasciato la Colchide dopo aver scoperto che il potere di mio padre Aete, si fondava su un delitto. Aete, infatti, avrebbe potuto salvarsi dall’antico rito di morte e rinascita soltanto cedendo per un giorno il trono ad un giovine che si sarebbe
sacrificato al suo posto. Mio padre cedette così il regno al suo stesso figlio, mio
fratello Apsirto, per un solo giorno al termine del quale, però, venne ucciso e fatto
a pezzi di fronte al silenzio del nostro stesso padre, il re!, che sbarazzatosi così del
suo unico rivale, si sarebbe assicurato il regno per tanti altri anni a venire.
Non ho ucciso io mio fratello, chiaro? E se ho raccolto dal mare le sue membra
disperse l’ho fatto soltanto per rinfacciare a mio padre il suo delitto, e fare in modo
che lui impietrisse dall‘orrore e dal rimorso.
Le mani di mio padre erano imbrattate di sangue ed il suo potere si alimentava di un delitto.
Persi la fede negli dèi e l’amore verso mio padre, e decisi di fuggire accanto a Giasone, il greco giunto in Colchide per rubare il vello d’oro ma non ero innamorata di lui, anzi. Ero consapevole di non avere altra scelta, sapevo di aver scelto il male minore…Orrore e sangue nella Colchide! Sì, dovevo andar via di lì in qualsiasi modo piuttosto che accettare quella orribile violenza e sottostare a questo e ad altri soprusi..
Non ho alcuna colpa della fine di mio fratello; ciò che mi era rimasto attaccato addosso era invece la sfiducia negli dèi e nelle tradizioni incarnate da quel mostro di mio padre: gli uni non esistono le altre sono pericolose. Entrambe non sono altro che un’invenzione, la più cinica e banale che si possa concepire, per sgravarsi da ogni colpa e sottrarsi ad ogni responsabilità
Il male minore…? No. Mi ero illusa. Fuggire dalla Colchide con Giasone non era affatto il male minore. A Corinto ho visto di peggio! Ifinoe, primogenita di Creonte e di Merope, era stata sacrificata per ordine del padre che, temendo di perdere il regno se la principessa fosse andata in sposa ad uno straniero, l’aveva fatta segretamente uccidere e seppellire nei sotterranei del palazzo. Non ti rivelerò come l’ho scoperto, ma la morte di Ifinoe, sorella di Glauce la quale sarebbe andata in sposa a Giasone al posto mio, segnò per sempre la mia rovina.
Non dovevo parlare, non dovevo fiatare, mentre su di me venivano convogliati tutti i sospetti.
Per evitare infatti che “il segreto di Corinto” venisse divulgato, e per convogliare
invece su di me i sospetti e l‘odio dei Corinzi, un tale Acamante, primo astronomo di Creonte, mi diffamò con l‘accusa dell‘assassinio di mio fratello e non ci mise molto ad attribuirmi la soppressione di Ifinoe e l’arrivo dell’ondata di peste che s’era abbattuta su Corinto….
Anche il popolo mi odiò, all’istante.
Gli esseri umani vogliono convincersi che la loro sfortuna, i loro errori, i fallimenti di una intera comunità vengano da un unico responsabile, di cui ci si può facilmente sbarazzare, ed ecco che proprio io, Medea, una donna, venivo scelta come vittima da eliminare.
Fui accompagnata fuori dalla città passando attraverso la porta maestra, fra due ali di folla che mi urlava contro e mi sputava addosso.
Sono scampata alla morte, ma mi è toccata una sorte peggiore: l‘esilio e l‘allontanamento da quei figli che verranno poi uccisi dai Corinzi nel tempio di Era.
Io sono un Capro Espiatorio, Euripide. Signore, io sono stata sacrificata e data in pasto alla storia in nome della salvezza dello Stato, io sono stata condannata ad un ricordo orribile ogni volta che si pronuncia il mio nome. Medea! Il male più grande del mare.
Euripide si siede allora accanto a lei, le accarezza il capo e le prende la mano. Il pubblico, sorpreso dal colpo di scena, si avvede dell’intesa fra i due.
Euripide – (indicando a Medea il teatro con un’ampia apertura della braccia.) Gli
uomini a teatro guardano e ascoltano tutto ciò che è terrore e splendore, tutto ciò
che è vero, per glorificare la vita e non mentire più a se stessi. Scendono nei loro
abissi interiori governati da forze oscure e dovrebbero riemergere da questo viaggio con l’anima liberata compiendo un grande rito di purificazione collettiva, anelando al bene. Eppure questo non accade e si ripetono sempre gli stessi errori. Medea, per quale ragione abbiamo sempre bisogno di vittime, io non so dirti. Forse tu, proprio tu saprai darmi una risposta. Perché?
Medea – Tu, Euripide, chiedi risposte a Medea. Vuoi che ti ripeta ciò che sai?
Ebbene…ti rispondo con una domanda: perché vengono sacrificati singoli individui come pure interi popoli, oppure razze?
Euripide - (rivolto al pubblico) Medea sì, è vero, sei un capro espiatorio, la vittima
casuale di un linciaggio necessario, sulla quale si scarica la violenza collettiva
accumulata in seno alla comunità. La violenza che nasce a partire dai conflitti
all’interno di una società corrotta e in bilico. E’ contagiosa, generalizzata, la
violenza, e tutti la imitano ad un certo punto. La comunità di Corinto, condannata
alla guerra, alle differenze di classe, alla povertà ed infine alla peste a causa della
corruzione del Re, per proteggersi dalla sua stessa violenza, aveva sete del sacrificio di una vittima a lei esterna, una straniera, in modo da unire i cuori e stabilire l‘ordine.
Medea - E perché è toccato a me “unire i cuori e ristabilire l’ordine”?
Euripide - Sono tre le ragioni, a tutti chiare ormai, che hanno fatto sì che venissi
designata tu. La prima era appunto la crisi profonda di Corinto e della sua
comunità; la seconda erano le accuse confezionate da Alcamante nei tuoi
confronti, cioè che eri già incline all’assassinio per aver soppresso tuo fratello, per
le quali non era necessario trovare prove di colpevolezza in quanto bastava la sola
convinzione unanime ad incastrarti; la terza ed ultima condizione, infine, era il
fatto che tu appartenessi ad una categoria di persone facilmente esposte alla
persecuzione.
Medea - Cioè?
Euripide - In quanto donna e barbara, straniera, eri debole e vulnerabile; su di te era impresso lo stigma, benché falso, della morte di Apsirto; eri una maga capace di tutto per vendicarti di Giasone, e la tua persecuzione, per la città di Corinto, in cui corruzione e menzogna predominavano, non aveva alcuna importanza. Era il minimo che potessi subire. Eri perfetta
Medea - Dimentichi una cosa: avevo fiducia nel senso di umanità dei Corinzi e della loro apparente smisurata fede nella ragione. Mi sono messa nelle loro mani. A che pro tanto ottimismo?
Euripide – Si, anche questo, ingenua Medea. O forse soprattutto questo…Sai allora dov’è la tragedia?
Medea - Si…Lo so. E so cosa vuoi dire…
(Euripide si alza e tende la mano a Medea, che si tira su restandogli accanto accanto a lui. Lui continua a tenerla per mano e parla rivolto al pubblico) –
Fra il bene e l’utile, hai scelto il bene mia nobile Medea, ma ciò ti ha portato al
dolore ed all’oblio. Eppure avevi scelto di essere libera, libera dalla fede
assoluta negli uomini e negli dèi, libera dall’asservimento, dall’irrazionalità e
dall’obbedienza.Ma finora non ti eri liberata dalla schiavitù dell‘odio e del
rancore, ed eri stata condannata al silenzio più amaro e alla maledizione, figli
della tua estrema solitudine.
Da oggi sei libera…D’ora in poi non avrai più paure, né attese, né odio né
rancore, Medea. Essere liberi significa scegliere il bene più grande per sé e
per gli altri. Il male è di per sé il frutto avvelenato di una mancanza,
soprattutto della carenza d’ amore.
D’ora in poi non avrai più paure, né attese, né odio né rancore, Medea. Essere liberi significa scegliere il bene più grande per sé e per gli altri. Il male è di per sé è il frutto avvelenato di una mancanza, soprattutto della carenza d’ amore.
Oggi hai avuta restituita la voce, la tua voce. Adesso puoi gridarlo: NUNC MEDEA SUM! ADESSO SONO MEDEA! Questa sono io!
Una società i cui valori sono saldi, e forti sono le radici di umanità e di
cultura, non c‘è bisogno di vittime, né il sacrificio ha più ragione di esistere. Il
fuoco sapiente della conoscenza non ha paura della verità e della libertà, sua
compagna. Ma per ciascuno di voi, di noi, ci sarà sempre da combattere.
Il confine tra la violenza irrazionale che chiamiamo destino e l‘impulso della
ragione alla conquista della propria autonomia si contenderanno sempre il
campo, come è stato raccontato nella tua storia, Medea.
Medea- Questa è la nostra tragedia, Euripide, Signore….E’ questa “la
Tragedia”…..
Euripide e Medea lasciano il proscenio, scendono fra gli spettatori, e si
allontanano. Dopo un lungo ed imbarazzante silenzio, esplode un caldo, commosso e lunghissimo applauso.
Fonti
Da tempo desideravo visitare il duomo di Napoli. Approfitto del fatto che per le strade si festeggia la vittoria dello scudetto tanto agognato, e mi ritrovo faccia a faccia con San Gennaro nella chiesa deserta. Vado dritta al punto, sperando che il Santo, infastidito, non mi mandi via. La prima domanda che gli rivolgo è una bella provocazione.
«San Gennà, non ti crucciare, tu lo sai ti voglio bene. Ma 'na finta e Maradona squaglia o' sanghe dint 'e vene». Questa battuta, la dice lunga sul fatto che il sangue a Napoli non lo sapete sciogliere solo voi. Maradona è oramai un santo, a furor di popolo, invocato soprattutto ora con la vittoria del terzo scudetto.
Cominciamo a precisare subito una cosa. A me Maradona sta simpatico assai e se lo invocano per lo scudetto del Napoli mi sta benissimo. Io sono affollato di richieste di ogni specie e un aiutante, anche se laico, mi serve Poi, nel suo caso, il sangue che si scioglie non è il suo. Attenzione, è quello dei tifosi! Tengo a dire che io sono stato il primo a jettà o sanghe, a buttare il sangue a Napoli. Fui decollato a Pozzuoli nel 305 durante la persecuzione di Diocleziano e il mio sangue, raccolto in un’ampolla, si sciolse il 16 agosto del 1389. Poi mi imitarono san Giovanni Battista, santa Patrizia,- compatrona di Napoli - fino a Lorenzo, Pantaleone e Stefano il Protomartire. Tutte ottime imitazioni, per carità. Ma io sono stato il modello principale, quello che ha iniziato. Napoli, cara signora, è città di sangue. Anzi, la città dei “sangui”.
Sarà per questo, allora, che una delle maledizioni ricorrenti in napoletano è proprio Puòzze jettà o sanghe? Eppure questa non dovrebbe essere espressione di malaugurio, ma addirittura un’espressione santa!
Il sangue è simbolo di morte ma anche di vita. Il mio sangue, quando sta secco e rappreso nel reliquario è il sangue di un morto, non c’è dubbio. Ma quando ribolle e diventa liquido è sangue vivo. Napoli gioca continuamente questa partita tra la vita e la morte. Si passano la palla. A proposito dello scudetto, avete visto quanti striscioni dedicano la vittoria a quelli che non hanno potuto vedere questo giorno? I vivi e i morti a Napoli fanno pure festa insieme. Abbiamo festeggiato lo scudetto anche nell’aldilà.
Però molti hanno provato a dimostrare che la questione del sangue che si scioglie ha una spiegazione scientifica. Uno di questi fu Raimondo Di Sangro, principe di San Severo, che lo dimostrò “in vitro” affermando che il miracolo poteva ripetersi ogni volta che si voleva nel suo laboratorio.
Ma tu lo sai il rischio che corse il caro Raimondo mettendosi in questo modo contro di me, offendendomi nell’onore? Lui si scusò dicendo che voleva solamente dimostrare, non provocare. Se la cavò solo perché era amico del re, Carlo III. Ma poi, dico io, tu sei uomo di scienza? E occupati della scienza tua, lascia stare i miracoli miei, che non sono cosa per te. Cosa volevi fare: la scoperta dell’acqua calda? La fede è un’altra cosa. La fede è prodigio, fiducia, speranza soprattutto. E Napoli ha bisogno disperato di speranza.
In questi giorni qualcuno storce il muso per i festeggiamenti del terzo scudetto. La città ha tanti problemi irrisolti e pare che ai napoletani importi solo dello scudetto. Lei che è il protettore della città come risponde a queste critiche?
Intanto lo scudetto non lo sta festeggiando solo Napoli e i napoletani, ma il mondo intero, segno che questa città è molto amata. Su Napoli poi ci sono troppi luoghi comuni. Ad esempio il fatto che è una città caotica e senza regole, una città ingovernabile, la città della cultura del raggiro e della camorra. Certamente è una città su cui tanti, nel corso della storia, hanno voluto mettere le mani. Ma è anche una città generosa, accogliente, ricca di bellezza, di arte e di cultura, capace all’occorrenza di rialzarsi, come già ha fatto tante volte. Lasciate che i napoletani festeggino in pace il traguardo dello scudetto, che siano orgogliosi della loro città e che si rimbocchino le maniche per continuare a lavorare. Ha detto bene l’attuale Vescovo di Napoli, monsignor Battaglia: “Se lo sport, come spesso si dice, è la metafora della vita, allora questo vuol dire che Napoli, e non solo la sua squadra, può vincere il campionato della storia e le partite della vita”.
Come sarà la processione di dopodomani, quando compirete il miracolo di maggio?
Quest’anno sarà trionfale, festeggeremo un doppio miracolo. Ho già detto alle statue dei diciassette compatroni che sfileranno con me in processione fino alla basilica di Santa Chiara di prepararsi per tempo per fare bella figura. Già mi vedo portato in trionfo per le strade piene di bandiere, festoni e drappi azzurri. Altro che Paradiso!
Qual è il miracolo che lei non ha ancora compiuto per Napoli?
Mi piacerebbe tanto che Napoli fosse riconosciuta da tutto il mondo “Capitale della Pace”. Questo però è un miracolo che da solo San Gennaro non può fare: servono braccia, mani, cuore e musica. Sono certo che i napoletani mi aiuteranno e prima o poi anche questo miracolo si compirà.
A conclusione di questa breve chiacchierata, vuole aggiungere qualcosa?
Forza, Napoli. Sempre! E i numeri? Quelli non me li chiedi?
La prossima volta. Sarà l’occasione buona per rivederci.
]]>Presente e futuro, due coordinate chiave per comprendere lo spirito del tempo di questa epoca, identificata e narrata come l'epoca dell'Antropocene nella quale è ormai divenuto palese il peso che l’uomo ha prodotto sul pianeta a partire da scoperte distruttive come l’energia nucleare.
il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale e il regno animale sono i cinque elementi attorno ai quali ruota più spesso l’interpretazione dell’Antropocene come fase catastrofica. A raccontarli c'è un saggio che non pretende di salvare il mondo, ma cerca altresì di indagare con la letteratura i possibili scenari futuri sperando che siano motore di un vero cambiamento del presente. Il libro in questione è Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (Edizioni nottetempo) di Marco Malvestio, ricercatore che lavora all’università di Padova, dove, in collaborazione con la University of North Carolina at Chapel Hill, gestisce un progetto di ricerca su fantascienza italiana ed ecologia. Nell'intervista che segue ci racconta il link tra realtà e fantascienza proponendo una ridefinizione dell’Antropocene alla luce di quei 5 elementi a cui abbiamo fatto riferimento sopra. L'autore sarà presente alla Biennale della Democrazia di Torino dove parlerà assieme a Livio Santoro e Vittorio Martone dell’ecologia e politica dell’immaginario dell’antropocene in un dialogo sul rapporto tra letteratura e realtà, speranza e futuro.
La fantascienza, come ogni forma letteraria, nasce in determinati contesti culturali e sociali, ed è a partire da quelli che costruisce i suoi immaginari. Anche se è un genere dell’irrealtà, o meglio della realtà possibile, la fantascienza è saldamente radicata nelle circostanze che circondano la sua produzione, e nasce dalle speranze e dalle ansie specifiche di un determinato momento storico.
Asimov diceva che una buona storia di fantascienza non deve essere in grado solo di prevedere l’automobile, ma anche il traffico.
Non penso che la fantascienza anticipi la realtà, penso che elabori delle ansie e dei rischi specifici di determinati momenti storici. Per esempio, la fantascienza ambientale degli anni Sessanta è spesso ossessionata dal problema della sovrappopolazione e della finitezza delle risorse, perché elaborata all’ombra del report del Club di Roma e di bestseller catastrofisti come The Population Bomb.
The Population Bomb di Paul Ehrlich fu pubblicato nel maggio del 1968, in un momento di tremendi conflitti e sconvolgimenti sociali. Il libro scritto sosteneva che il pianeta Terra era alle soglie di una crisi drammatica dovuta ad una crescita esplosiva della popolazione che avrebbe condotto presto tutti gli esseri umani ad una "fame di massa" su "un pianeta morente".
Quel tipo di ansie non si è poi rivelato reale, i computi malthusiani che vi stavano alla base sono stati sostituiti da altri problemi ambientali, come quelli legati al clima, mentre la riflessione sulla scarsità delle risorse è stata sostituita da quella intorno alla loro distribuzione. Penso sia sbagliato dire che la fantascienza anticipa la realtà, sicuramente però interroga la realtà in maniere oblique che riescono a individuare problemi e soluzioni di cui spesso la narrativa tradizionale non si cura.
Le ere in cui ho diviso il libro non sono in successione cronologica, ma sono proposte per ridefinire l’Antropocene. Se quest’ultima parola indica l’era in cui la specie umana è diventata il principale vettore di cambiamento ambientale sul pianeta, è interessante vedere in che modi questo cambiamento ambientale si è manifestato. Ho dunque scritto del nucleare, i cui effetti rimarranno rilevabili geologicamente per milioni di anni; delle pandemie, dal momento che i processi di zoonosi che le causano sono sempre più frequenti grazie all’incessante distruzione di habitat naturali; del cambiamento climatico, naturalmente; e dei modi in cui i cambiamenti ambientali causati dalla specie umana impattano altre forme di vita, come piante e animali. Non si può dire quale sia la peggiore, o meglio, dipende dalla prospettiva in cui ci si pone: sicuramente il cambiamento climatico e il nucleare sono i fenomeni con l’impatto più distruttivo per la nostra specie, ma l’allevamento intensivo, per esempio, ha effetti gravissimi e spaventosi sulla vita individuale di miliardi di animali.
Nella conclusione del libro suggerisco delle letture alternative al catastrofismo di tanta fantascienza contemporanea, e propongo al lettore di esplorare le galassie del Solarpunk (un tipo di fantascienza incentrata su tecnologie rinnovabili e ibridazioni col non-umano) e l’Afrofuturismo.
Il solarpunk è un movimento culturale e artistico che promuove una visione ottimista e progressista del futuro in opposizione al cyberpunk e alla cli-fi, poiché ne rovescia i principi di base, in particolare la visione nichilistica e post apocalittica del futuro. Il solarpunk copre numerosi ambiti quale l’arte, la narrativa fantastica e di fantascienza, l’architettura e l'attivismo e si pone come obiettivo la realizzazione concreta di un futuro tecnologico ed ecosostenibile e la lotta al cambiamento climatico e al capitalismo.
Afrofuturismo, che include sia autori africani che afroamericani e una varietà di forme artistiche che va dalla musica al design, dal cinema alla letteratura, offre idee alternative di futuro rispetto a quelle che siamo tradizionalmente abituati ad associare alla fantascienza. Nell’immaginario Afrofuturista, soprattutto, il continente africano non appare semplicemente come il laboratorio di qualche catastrofe climatica, ma semmai come un luogo in cui si sviluppano innovativi rapporti con la tecnologia che i pregiudizi coloniali tenderebbero a non associare all’Africa.
Non solo editore, ma anche Il libraio in fondo alla città perché di Napoli conosce fino in fondo tutto quello che è stato scritto, Raimondo Di Maio è il proprietario della celebre libreria Dante & Descartes, nel cui nome fa incontrare il padre della letteratura con quello della filosofia moderna. Il suo tempio dei libri perduti e ritrovati è ubicato a via Mezzacannone , nella trafficata zona universitaria. In questo spazio accogliente sono passati intellettuali e fratelli di libri come Danilo Dolci, Goffredo Fofi, Domenico Rea, Erri De Luca che nel suo romanzo, “La natura esposta” , lo ricorda come “don Raimondo”, uno degli ultimi editori e librai napoletani che resistono alla crisi. Da buon scopritore di talenti, nel 2020 ha pubblicato “Averno”, silloge poetica di Louise Glück, poetessa della solitudine fino a quel momento poco conosciuta in Italia, insignita poi del premio Nobel.
Credo sia una risorsa per vivere, una sorta di strano dispositivo fare il libraio, soprattutto oggi. Siamo a cavallo tra un vecchio mondo del libro e della professionalità chiesta e una modalità tutta nuova, che non ha con raffronti con le epoche precedenti. Posso dire però che c’è della vocazione e una grande passione civile nel scegliere e vendere libri ….
Una dimensione molto laica e civile. Credo che il libro sia uno strumento di emancipazione per se stessi e per gli altri, quando corrisponde alla sua vera funzione di strumento del sapere. Quando invece il libro, la sua produzione e circolazione, è ridotto a semplice merce da “consumare”, diventa come uno yogurt, una merce da supermercato, c’è un bisogno di essere comprato e consumato entro la scadenza consigliata. Così si tradisce l’attesa del lettore e dello studioso, insomma di chi ne fa uso.
Credo che dietro tutto questo ci sia un serio problema culturale nostro del Paese. Basta sentire un qualsiasi intervento dei nostri politici per notare che manca una preparazione, usano un lessico di una povertà imbarazzante a fronte di una lingua prestigiosa, quella di Dante, Leopardi e Manzoni. Manca, insieme alla lingua e alla comunicazione in un italiano medio, la professionalità politica. Anche gli aggettivi usati dai politici sono fuori luogo e invece di fare chiarezza confondono le idee di chi li ascolta. Dispiace inoltre sentire da certi ministri, come il ministro Giuseppe Valditara, invocare tra i suoi aggettivi e predicati la questione del merito e umiliare i meno preparati. Questo di fatto escluderebbe dall’istruzione e lascerebbe indietro tanti giovani … I giovani sono il futuro di un Paese. Chi condanna così un’intera generazione, che ha ereditato già tanti problemi perché non siamo riusciti a dar loro una società giusta, chi parla in questo modo, non potrebbe fare il ministro.
Questo è un disastro perché nella lingua c’è la visione del mondo e questo signore, che parla in questo modo, ha una brutta visione del mondo.
Dalla miseria. A Napoli c’è tanta disoccupazione, c’è tanta scrittura, c’è tanto studio da parte dei giovani, e c’è tanto lavoro sia teatrale che letterario. Naturalmente Napoli è rimasto il Sud. Anche se la città è cresciuta nei consumi in maniera paritaria rispetto al Nord, nelle sue capacità imprenditoriali editoriali è rimasta un piccolo centro meridionale che dipende da quanto si decide a Roma o a Milano dove ci sono le grandi case editrici, la distribuzione, le librerie, le catene. È tutto un campo di gioco del nord Italia. Lì si decide cosa far leggere all’intero Paese. Il Sud conta poco e noi proviamo nei limiti del possibile a proporre delle eccellenze.
La prima cosa che mi viene in mente è che servirebbe un assetto produttivo che manca, civile, pulito e che non sia infangato dalla corruzione e dalla camorra. Questa è la prima cosa da cui di partire. Quindi spazio ai giovani che studiano. Noi non possiamo continuare ad allevare e formare giovani per mandarli al Nord. In Germania fecero un muro, naturalmente tragico per la storia di quel paese, che però stava lì perché non si poteva far studiare i giovani per poi mandarli dall’altra parte, nel mondo dell’Occidente. Una tragedia, ripeto. Conosco bene quel muro perché ho lavorato a Berlino in quegli anni Settanta. Non possiamo però pensare di far studiare i nostri figli senza sapere come, o peggio farli studiare solo perché figli di italiani, e ipotizzare nel loro certificato di nascita “l’uso dell’università”. Questo non significa dare loro la possibilità di scegliere cosa studiare, ma mandarli in questa sorta di “garage”, dove entrare e uscire, e se poi si è bravi, al massimo si può andare al Nord a insegnare. Ci sono poi però quelli che hanno alle spalle la “famiglia giusta”, e quindi possono fare ricerca, possono avere accesso a master costosi e di difficile accesso. La logica è quella del vecchio “familismo amorale” che in, una situazione di necessità come quella attuale, è diventato “familismo illegale”. É scandaloso vedere lo scandalo, che non scandalizza, di un politico che assicura un posto ai propri figli all’università perché suoi figli. Questa cosa non so come altro chiamarla.
Ho avuto la fortuna di conoscere tanti autori di spessore. Erri De Luca è un amico fraterno, “un fratello trovato fratelli che si sono trovati tra i libri”. Naturalmente è uno dei più grandi intellettuali del nostro Paese da cui confesso con piacere di avere imparato molto. E i nostri dovrebbero leggerlo e ascoltarlo …
Non faccio le puttanate che la gente pensa si possano comprare con i soldi, comprare cioè una pubblicazione. Dopo aver stampato il libro di Louise Gluck, che poi è stata insignita del premio Nobel, mi sono arrivate molte richieste da persone ricche che con i soldi voleva stampare tanto per pubblicare. Li chiamo i “Pubblicandi”.
Oggi, ieri, domani la parola poetica è l’antinfiammatorio alle lingue in fiamme.
La borghesia napoletana ha quelle responsabilità economiche e civili di cui aveva parlato Benedetto Croce. Non ha nessuna capacità imprenditoriale di investire, ma si tiene strette la rendita parassitaria, vive dei fitti di negozi e case, “succhia l’osso” come dice un grande meridionalista. Quando mette mano, normalmente ricorre al para-stato: abbiamo questo esercito di legulei, figli dei figli, che vanno nelle amministrazioni. Sono loro che possono permettersi di mandare a studiare i figli all’estero, ma questo lo fanno adesso anche i camorristi. In città inoltre c’è una trasformazione in corso e una torsione dell’economia con questo turismo, nazionale e internazionale e anche di prossimità, che ci onora, affolla le nostre strade e viene a vedere la bellezza di Napoli, il miracolo napoletano, il simbolo del Natale... La grande affluenza di turisti a Napoli è data anche da un motivo economico, perché la nostra città è molto meno cara paragonata a città come Roma e Milano. Peccato, però, per la mancanza di una strategia organizzativa efficace che riguardi l’accoglienza, l’ospitalità. A dicembre, per esempio, San Gregorio Armeno, la famosa strada delle botteghe presepiali, è troppo affollata, non si riesce a transitare. Abbiamo la fortuna di avere la magia del Natale, un simbolo che tutti vogliono condividere e ma che non riusciamo a gestire. Eppure basterebbe spostare alcuni stand di artigiani del presepe, ad esempio, a Piazza del Plebiscito per agevolare le visite.
Ce ne sono diversi. A Napoli, e nel Sud in generale, si fa buona letteratura, c’è una tradizione di classici -Domenico Rea, Mario Pomilio, Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese, Michele Prisco - e ci sono tanti autori straordinari come Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Alessio Forgione, Antonella Ossorio, Antonella Cilento, Titti Marrone. Per Natale consiglio un libro di Titti Marrone, Se solo il mio cuore fosse pietra, un eccellente romanzo-saggio, tra quelli in lizza per il nostro premiato “Libro dell’anno”. Tra poco pubblicherò con la mia casa editrice, la Dante & Descartes, un romanzo di una scrittrice esordiente, bravissima, Emma de Franciscis, che ho intercettato tra tanti scriventi che mi inviano dattiloscritti. Il romanzo L’uomo che attraversò tre secoli di Emma de Franciscis racconta una storia familiare scritta con grande partecipata passione civile e sentimentale. Una bella lettura per il Natale.
I libri che pubblico hanno sempre un destino, hanno un messaggio tra le pagine, che fa la differenza in un contesto di editoria da gadget, fatta per i turisti, cosa che trovo offensiva per la nostra tradizione editoriale artigiana ma di grande con straordinarie figure di stampatori, dall’invenzione della stampa fino agli editori dei giorni nostri. Quella che chiamano letteratura divulgativa spesso non rappresenta che macchiettismo editoriale e svuotamento del libro del suo vero statuto di strumento di promozione umana, accrescimento culturale e soprattutto di indipendenza. Altrimenti perché la Letteratura?
Ascolta "Universèrie: uno spettacolo teatrale, un instant drama di Amor Vacui" su Spreaker.
Dopo due anni in cui gli studenti hanno frequentato lezioni dal letto di casa, hanno organizzato aperitivi su Zoom, hanno fatto l'Erasmus senza uscire dalle loro stanze, ora stanno finalmente ripopolando la città, le aule… e i teatri. Non potevano non tornare a raccontare la vita universitaria di uno degli Atenei più prestigiosi d'Italia che proprio quest'anno festeggia il suo ottocentesimo compleanno.
Come si torna a vivere la vita universitaria? Come ci si prepara a vivere quelli che ci dicono essere i migliori anni della nostra vita? Che cosa ci si chiede continuamente? Che dubbi e che entusiasmi ci pervadono come le onde sonore sparate dalle casse dei nostri concerti preferiti? Come si torna a condividere gli spazi? Come si lotta con i noi del futuro?
Come si torna a raccontarsi su un palco?
Universerìe - un nuovo inizio, ci riporta a casa, sul palco, pronti a partire di nuovo.
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drammaturgia condivisa dei partecipanti al laboratorio Writing Room
Shalom Caruso, Anita Ghislandi, Nina Nicoletti, Giorgio Piccolo, Giulio Scremin
in scena i partecipanti del laboratorio On Stage
Odri Barcaru, Giulio Bianchi, Isabella Bortot, Maria Elena Carlassare, Omar Cipriano, Ester Paiano, Elena Pavan, Giorgio Piccolo, Elena Salvia, Federico Valerio
comunicazione del laboratorio New Media
Benedetta Rossi
coordinamento drammaturgico Diego Scantamburlo
supervisione Lorenzo Maragoni
regia Andrea Bellacicco, Eleonora Panizzo
produzione TSV - Teatro Stabile del Veneto
Lo scandalo è stato un elemento chiave della sua esistenza. Come lui stesso disse in un’intervista, avrebbe potuto scrivere un libro bianco sui suoi rapporti con la giustizia italiana, sulle accuse, sulle requisitorie e le arringhe dei pubblici ministeri, le sentenze di cui furono oggetto le sue opere.
Vogliamo ricordare però Pier Paolo Pasolini, a cento anni dalla sua nascita, attraverso una sentenza del Tribunale di Benevento che esattamente 50 anni fa lo assolse in un processo in cui sedeva sul banco degli imputati “I racconti di Canterbury”, film che valse al regista l’Orso d’oro al festival di Berlino. Il film venne proiettato per la prima volta il 2 settembre 1972 nella città sannita, ma con il divieto ai minori di 18 anni, viste le molte scene forti di cui è permeato. Dopo tre giorni arrivarono le prime denunce per oscenità, ma il tribunale beneventano (le denunce scattarono nella città dove si tenne la "prima") non riscontrò i reati contestati.
Ne parliamo a distanza di cinquant’anni con il giudice dottore Alfonso Bosco che, assieme a Bruno Rotili e al presidente ed estensore dottore Daniele Cusani, diede corpo all’ assoluzione de “I Racconti di Canterbury” consacrandolo ad opera d’arte. Inoltre proponiamo il commento di Daniele Butturini, professore associato di Diritto Costituzionale all’Università di Verona, giurista e appassionato di Pier Paolo Pasolini.
La società degli anni Settanta sembrava spaccata tra coloro che non intendevano arretrare d’un passo sul terreno della difesa del pudore e della morale pubblica, come ad esempio la Chiesa, e coloro che all’opposto sembravano cavalcare la “rivoluzione culturale” partita nel 1968. Quanto tutto questo pesò nel processo a I racconti di Canterbury di Pasolini e qual era il clima politico e culturale che si respirava a Benevento?
Alfonso Bosco: La città di Benevento e la sua provincia sono state sempre caratterizzate dalla presenza, nella popolazione, di un profondo e diffuso sentimento religioso, che certamente trova il suo principale fondamento anche nella tradizione storica della città, appartenuta per circa otto secoli al dominio pontificio, che da tempo remoto è stata sede arcivescovile con vasta giurisdizione territoriale e che vanta di aver espresso tre Papi, molti Cardinali ed alti prelati, oltre ad aver ospitato alcuni monasteri ed un Seminario. Non stupisce, pertanto, che tale situazione sia rimasta immutata anche dopo le vicende politiche e sociali del 1968, come dimostra anche l’atteggiamento assunto dagli elettori sanniti in occasione del Referendum del 1973, abrogativo della legge Fortuna-Baslini del 1970, che introduceva il divorzio nella legislazione italiana, allorquando nella provincia di Benevento prevalse il voto favorevole all’abrogazione.
Non ritengo, però, che tale sentimento abbia influito sulle vicende del processo instaurato per la proiezione del film “I racconti di Canterbury”. Va precisato che contro il film furono presentate 9 denunzie in varie città italiane (oltre Benevento, Firenze, Mantova, Frosinone, Viterbo, Venezia , Latina ….), oltre a vari esposti generici e dubbiosi, e nessuna di essi partì da un cittadino della provincia di Benevento. Il processo fu attivato a seguito di una denunzia presentata alla Procura della Repubblica di Benevento da un cittadino napoletano, che peraltro precisava che il suo pudore non era stato offeso dal film.
Daniele Butturini: La domanda richiede innanzitutto di collocare l’opera cinematografica I racconti di Canterbury all’interno non solo della cornice artistica, quanto anche della temperie politico-culturale che caratterizzò la società italiana a cavaliere degli anni Settanta. In un contesto di rapida trasformazione della società da prevalentemente agraria a industriale, manifestazioni artistiche e movimenti politici si trovava collocati in una polarità: da un lato, l’influenza della Chiesa cattolica romana, professata dalla stragrande maggioranza della popolazione, che premeva per la protezione del “buon costume”, bene giuridico interpretato come protezione del pudore sessuale; dall’altro, si dava una mobilitazione culturale e sociale tesa alla liberazione della morale sessuale come portato antropologico e sociale della rivolta del 1968. Proprio tale temperie è essenziale per la comprensione dell’opera di Pasolini. L’opera cinematografica esalta l’elemento vitale di una sessualità che è liberatoria proprio perché repressa da un potere politico-clericale. Proprio l’elemento repressivo è ritenuto da Pasolini fattore di emancipazione autentica di una sessualità vissuta con felicità e genuinità: la sessualità ha, per così dire, “carica liberatoria e sincera” nella misura in cu operi come momento rivoluzionario, come condotta che mette a nudo l’ipocrisia e la violenza di un potere repressivo. Nel film, pertanto, emerge l’inclinazione dell’essere umano a manifestare con tutti i suoi mezzi la materialità della propria natura ed essenza, indipendentemente da obblighi superiori, siano politici o spirituali. Questa è la vera e autentica liberazione per Pasolini.
Nel contempo, tale opera è anche momento di critica ei confronti di alcuni effettivi involutivi della rivolta del 68. Al fine di comprendere tali aspetti è necessario rinviare all’intervento, pubblicato postumo, che Pasolini avrebbe dovuto esporre in una conferenza organizzata dal partito radicale nel novembre del 1975.
Per l’autore, gli effetti involutivi della rivolta del 1968 avrebbero potuto decretare la vittoria di una logica consumistica, la quale rende «immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione «creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili». Pasolini mette in guardia la società da una sessualità che invece può venire manipolata da un potere che converte la carnalità in impresa. L’opera “Salò”, uscita postuma, rappresenta proprio la manifestazione della sessualità come bruttezza in quanto obbligazione imposta da un potere mercificante.
“I racconti di Canterbury” riflettono su di una rivoluzione sessuale che è alterità assoluta tanto nei confronti di un potere e di una classe dominante reazionari, quanto di un edonismo che faccia trionfare il conformismo «attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili».
Per quanto concerne il clima giuridico, in quegli anni Pasolini fu costretto a difendere la propria opera artistica in molteplici processi tesi a valutarne i contenuti religiosi tramite la lente del diritto. Si pensi, su tutti al decreto di sequestro del film “La ricotta”, adottato nel 1972 per vilipendio della religione dello Stato, in cui Pasolini fu accusato di avere dileggiato la figura di Cristo e i valori religiosi nella rappresentazione di una Passione attraverso i seguenti espedienti estetici: la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore quali un twist. La vicenda giudiziaria de “La ricotta” è emblematica della concezione giurisprudenziale del tempo. Da un lato, infatti, la magistratura non ritenne il film per sé vilipendioso della religione cattolica. Anzi: i giudici ritennero che la morte in croce di un sottoproletario, Stracci, avesse un significato religioso e che l’accostamento delle sofferenze del protagonista alla morte di Cristo non costituisse vilipendio. Né la trama in sé del film, né le scelte estetiche del regista né il messaggio sociale dell’opera furono in discussione. Tuttavia, la sentenza pose l’accento sull’articolazione e sul registro della trama dai quali risulterebbe una visione di scherno e dileggio verso i simboli e le manifestazioni essenziali della religione cattolica. Citiamo uno dei passaggi essenziali della motivazione della sentenza: «allo spettatore non sfugge davvero la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci che mangia, i suoi famigliari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame e del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (il «Dies irae»): mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata, come purtroppo accadrà invece ogni qual volta il regista tratterà le parti veramente sacre del film, ogni qual volta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cristiana». I giudici nei punti successivi della motivazione stigmatizzano giuridicamente la proposta del film accusata di essere contraria al patrimonio valoriale della religione dello Stato. L’autore dolosamente, secondo i giudici, mette in scena una alternativa antitetica alla tradizione della religione: «Pasolini, proprio per servire, illustrare ed evidenziare la religiosità del racconto di Stracci e quindi la propria concezione della religiosità, ha voluto immotivatamente aggredire una entità, artatamente presentata come del tutto antitetica al proprio sentimento di religiosità e cioè la fede cattolica». Emerge da ciò una concezione giurisdizionale tesa a valutare un’opera estetica facendo riferimento al registro comico utilizzato nel quale la religione viene derisa. La sentenza sul caso “La ricotta” ricorre ad un vaglio interno sul registro narrativo dell’opera.
Possiamo, pertanto, dire che invece la sentenza del Tribunale di Benevento ha rappresentato indubitabilmente una svolta nel giudizio giuridico sulle opere estetiche.
“I racconti di Canterbury “fanno parte della cosiddetta “Trilogia della vita” – insieme al Decameron (1971) e Il fiore delle Mille e una notte (174) -, trilogia pervasa dalla necessità della rappresentazione dei corpi e soprattutto dal simbolismo sessuale. Per questo motivo il film passò per la cruna degli articoli 528 (quello relativo al comune senso del pudore) e 529 (il film in questione era un’opera d’arte?). Quanto pesò nella sentenza il rapporto tra la bellezza dell’opera d’arte e la sua bontà?
Alfonso Bosco: Come è precisato espressamente nella motivazione della sentenza, il giudizio demandato al giudice dagli artt.528 e 529 C.P. non riguarda né la bellezza dell’opera d’arte, né la sua bontà, né che l’opera sia un capolavoro. Il giudizio, secondo un concetto elaborato dalla giurisprudenza in materia, proprio con riferimento agli spettacoli cinematografici, deve invece riguardare innanzi tutto un elemento estrinseco, quale la validità artistica dell’opera, valutabile con riguardo “al soggetto, alla sceneggiatura, alla direzione artistica, alla recitazione, alla musica, alla fotografia, all’acutezza dei particolari, alla presentazione degli ambienti”; ma deve riguardare anche un elemento intrinseco, quale il contenuto concettuale del film, “il contenuto di intuizione universale”, “la fiamma ideale che suscita per l’elevatezza dell’aspirazione mistica, cui conduce”. Solo la presenza, opportunamente verificata, di tali elementi concomitanti denota la sussistenza dell’opera d’arte, che vale ad escludere l’illiceità penale di scene ed oggetti, che altrimenti sarebbero “osceni e scurrili” (e quindi meritevoli di sanzione penale).
Daniele Butturini: La risposta al quesito richiede una premessa in punto di diritto costituzionale. Se, infatti, l’art. 21 Cost. prevede limiti per quelle manifestazioni del pensiero che si scontrano con il buon costume, l’art. 33 non menziona alcun limite espresso quando proclama la piena libertà di arte e scienza. Nell’art. 33 Cost. non vi è alcun riferimento esplicito a tale limite. Ciò implica, da un punto di vista rigidamente formale, che l’espressione artistica sia esentata dal rispetto del buon costume. L’art. 528 del codice penale sanziona le opere cinematografiche che abbiano carattere di oscenità. Come noto, il bene giuridico protetto consiste nella moralità pubblica intesa come coscienza etica di un popolo in riferimento alla sfera sessuale, ovvero il modo collettivo di intendere ciò che è bene da ciò che è male nell’ambito sessuale e nel buon costume inteso come il modo di vivere di una comunità in adesione alle regole sociali in tema di morale, decenza e abitudini attinenti alle manifestazioni sessuali. La disposizione però va letta in relazione all’art. 529, comma 2 del codice penale, il quale stabilisce, chiarendo il punto in discussione, che «non si considera oscena l'opera d’arte o di scienza salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto».
La sentenza del Tribunale di Benevento, pertanto, si inserisce nel suddetto quadro normativo e si concentra su un giudizio estrinseco in ordine alla natura artistica dell’opera, senza entrare nel merito e nella forma della trama scelta dall’autore.
L’opera d’arte non è nel contenuto limitabile dal buon costume. In questo senso possiamo dire che la sentenza del Tribunale di Benevento pone una interpretazione giuridica del rapporto tra arte e oscenità assai importante per valutare la sfera di estensione della libertà all’espressione artistica. Gli argomenti del Tribunale di Benevento sono simili a quelli che la magistratura ha utilizzato rispetto ad un’altra cinematografica di Pasolini, il film “Teorema” del 1968, accusato di oscenità in quanto raffigurante scene con chiari riferimenti ad atti sessuali (anche di tipo omosessuale), e caratterizzato nei contenuti da una critica radicale della società borghese del tempo. Il Tribunale sul caso Teorema ritenne il film opera d’arte. Il limite dell’ordine pubblico non venne ritenuto valido in quanto se si ritenesse per ordine pubblico, la protezione dell’insieme dei valori e l’ordinamento di una comunità statale, questo non potrebbe applicarsi all’arte, la quale spesso intende contestare l’ordine vigente.
Escluso il limite del buon costume e anche quello dell’ordine pubblico, sembrerebbe che l’arte possa godere della massima libertà. Esistono peraltro delle misure legittime che possono essere prese in previsione della tutela dei minori. I minorenni vanno considerati una categoria speciale di cittadini, caratterizzati da una maggiore sensibilità e immaturità nel recepire quelle informazioni e quei contenuti che hanno bisogno di un’esperienza maggiore per capirne le sfumature e i risvolti. Per tutelare i giovani e i più piccoli si è giunti all’adozione di norme legislative speciali che limitano la pubblicazione di materiale che inciti ad atti di violenza o che ledano il senso del pudore, e che proteggano la normale evoluzione e formazione libera della personalità psicologica dei soggetti.
L’arte, in quanto tale, non ricorre a strumenti che possano istigare a commettere delitti o atti di violenza. L’arte ha tra i fini quelli di scuotere, scandalizzare e provocare, nel tentativo di dare una nuova visione alle cose e ai fenomeni della società, visione differente o alternativa rispetto alla comune percezione della società. La sentenza del Tribunale di Benevento a nostro parere si pone in continuità con il quadro della interpretazione costituzionale della libertà dell’arte di cui all’art. 33 Cost. Basti pensare che i giudici rispetto al merito delle scene per valutarne la scurrilità e/o la oscenità hanno escluso di poter «stabilire se lo spettacolo avesse potuto raggiungere lo stesso risultato con un diverso procedimento». I giudici hanno riconosciuto il carattere artistico all’opera. Infatti, le scene del film, anche quelle ritenute particolarmente oscene in sé e per sé, «vanno integrate in un più ampio contesto, essendo le componenti di tutto un procedimento narrativo, caratteristico dell'opera cinematografica, la quale ha un suo ritmo e un suo procedere, strettamente influenzati dalle possibilità - vastissime - del mezzo espressivo». Il riconoscimento del valore artistico pertanto ne esclude l’oscenità, in stretta applicazione del dettato dell’art. 529 codice penale. Inoltre, vi è una considerazione ulteriore che i giudici di Benevento operano ad abundantiam. La validità artistica è corroborata dal fatto di perseguire scopi di natura etica, dal momento che il film “I racconti di Canterbury” meritoriamente suscita nello spettatore considerazioni sulla condizione umana. Non solo; i giudici pongono l’accento sul fatto che il film mira ad un modello di società sia individualmente sia collettivamente migliore. In tale ottica l’oscenità in sé e per sé di alcune scene risulta essere esclusivamente un contenuto meramente strumentale agli scopi poc’anzi menzionati. La sentenza del Tribunale di Benevento pertanto pare riconoscere una armonica conseguenzialità fra norme giuridiche: il testo dell’art. 529 codice penale viene letto, senz’altro, alla luce della libertà dell’arte, priva del limite del buon costume, di cui all’art. 33 Cost., ma anche, implicitamente, alla luce della funzione dell’art. 21 Cost. secondo cui la libertà di manifestazione del pensiero e il pluralismo delle espressioni delle idee sono presupposti essenziali della critica e delle proposte di trasformazione della società. Dalla sentenza del Tribunale di Benevento è implicita una interpretazione volta a dare alle libertà di espressione del pensiero, di cui agli artt. 21 e 33 Cost., il ruolo di strumenti indispensabili per rendere effettivo il principio pluralistico-conflittuale che consiste nella garanzia del diritto di diffondere i contenuti della propria cultura, della propria visione del mondo, della propria concezione di società e di bene comune nel senso della libertà del dissenso delle minoranze portatrici di alterità nei confronti di un potere dominante. Da un punto di vista giuridico-costituzionale i diritti poc’anzi richiamati si innestano in un ordinamento giuridico non omogeneo, segnato dal profondo contrasto in società fra gruppi politici e sociali. Potremmo dire che i diritti sono riconosciuti e garantiti proprio perché l’ordinamento giuridico non è omogeneo, visti i contrasti che in società emergono fra le varie visioni del mondo. Il riconoscimento delle libertà, di pensiero e dell’arte, comporta la protezione delle espressioni del singolo e delle minoranze verso lo Stato e anche contro lo Stato.
Il Tribunale di Benevento si domandò anche se il significato fondamentale del film potesse essere capito dallo spettatore medio. Ci spiegate l’utilità di questa disamina?
Alfonso Bosco: La valutazione, da parte del Tribunale, del se il significato fondamentale del film potesse essere capito dallo spettatore medio, era necessaria in relazione alla previsione dell’art.529 C.P.. Ai fini della norma penale la qualificazione di osceno è ricollegata “agli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”. Ebbene, per stabilire “il comune sentimento” andava fatto riferimento (anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali emersi in altri processi simili) al sentimento medio dei cittadini in un determinato momento storico, tenendo conto anche dell’evoluzione dei costumi e dell’elevazione del livello culturale medio della collettività (cosiddetto criterio storico-evolutivo).
Daniele Butturini: La centralità che la sentenza attribuisce al parametro rappresentato dallo spettatore medio implica una serie di riflessioni. I giudici sul punto specifico parlano proprio del cittadino medio adulto, maggiore di anni 18, in quanto dotato di ordinario potere critico e di autocontrollo.
La sentenza poi effettua una considerazione sociologica, dal momento che ritiene che le caratteristiche dello spettatore medio sussistano in forza delle seguenti condizioni del tempo: sempre maggiore diffusione delle fonti di cultura, elevazione del limite della scuola d'obbligo e maggiore accesso al dibattito pubblico da parte delle persone. Si può dire che lo spettatore medio sia il prodotto del pluralismo delle offerte culturali e informative della società ed anche dei servizi culturali e informativi che la Repubblica deve, in termini di condizioni, di assicurare. Lo spettatore medio, dotato di un ordinario senso critico, è a sua volta titolare di diritti esigibili nei confronti della Repubblica, consistenti nella pretesa a ricevere contenuti culturali e, soprattutto, a non essere impedito o ostacolato nella fruizione dei contenuti stessi. La garanzia di uno spazio pubblico nel quale le libertà delle manifestazioni del pensiero e dell’arte siano concretizzate e non compresse è la garanzia che uno spettatore con senso critico emerga. Inoltre, sul lato dell’arte, si deve ricordare che le manifestazioni estetiche non possono certo essere destinate esclusivamente alle nicchie degli specialisti. Anche in ragione di ciò il parametro dello spettatore medio assume rilevanza.
Nella sentenza d’assoluzione del tribunale di Benevento, oltre all’approfondimento giuridico sui capi d’imputazione, si scrivono delle bellissime pagine di apprezzamento sul valore artistico dell’opera cinematografica esaminata (sulla fotografia, il commento musicale, “per il contenuto d’intuizione universale, per l’elevatezza dell’ispirazione mistica a cui conduce […])”. Nello scritto la parola giuridica dialoga continuamente con la parola letteraria. Secondo voi, quanto è importante la narrazione ai fini della verità processuale?
Alfonso Bosco: L’analisi del film sotto il profilo artistico fu determinante ai fini della decisione, come prevede l’art.529 del codice penale. Nella motivazione della sentenza si dice chiaramente che il film contiene “oscenità e scurrilità”, ma che esse sono “soverchiate largamente” dal “significato fondamentale del film”, il quale contiene indubbi e rilevanti pregi artistici, tali da poter essere giudicato “opera d’arte”. Il dialogo tra il linguaggio giuridico e quello letterario (e non solo letterario, ma anche di altre manifestazioni artistiche) è previsto e voluto dal legislatore penale, che richiede al giudice un rilevante sforzo di immedesimazione nelle varie realtà culturali coinvolte nel giudizio, al fine di realizzare un contemperamento di beni giuridici ugualmente previsti e tutelati dalla nostra Costituzione: la libertà dell’arte (art.33) e il divieto di spettacoli contrari al buon costume (art.21).
Daniele Butturini: La narrazione è essenziale nel processo. Il processo è la valutazione del fatto materiale all’interno di una attività logico-argomentativa di sussunzione. Il processo e la sentenza sono i momenti nei quali la norma giuridica viene interpretata alla luce del fatto. Si potrebbe dire così: la regola di diritto entra nel fatto e la regola di diritto nella interpretazione e valutazione del fatto porta con sé una prescrittività che lambisce anche i terreni dell’etica sociale e delle trasformazioni culturali attraverso l’attività di interpretazione. Il fatto attraverso l’interpretazione della norma si trasforma, per l’appunto, in narrazione che è l’attività argomentativa finalizzata a ricostruire una conoscenza veritiera del fatto rilevante per la decisione. Il processo è un momento in cui una verità, quella processuale, viene ad essere rivelata ed è, conseguentemente, narrazione di un fatto controverso che può avere ed ha avuto varie narrazioni. La sentenza è la narrazione decisiva, pur nella sua parzialità, che afferma il diritto. In tale senso la narrazione letteraria e non solo è indubbiamente un mezzo argomentativo importante per valutare la natura di opera artistica del film.
A distanza di cinquant’anni da questa sentenza, ne cambiereste qualcosa?
Alfonso Bosco: Credo che, anche a distanza di cinquanta anni, la sentenza mantenga ancora una sua validità ed attualità, ancor più se si considerano i mutamenti avvenuti nel tempo nella sensibilità collettiva, oggi certamente molto più tollerante rispetto ai concetti di oscenità e di pudore.
La enorme diffusione dei mezzi informatici avvenuta negli ultimi anni ha poi contribuito a sviluppare il senso critico degli spettatori e a produrre meccanismi di valutazione, di difesa e di controllo sociale di tutte le manifestazioni artistiche (o presunte tali), consentendo in tal modo una più moderna consapevolezza e sensibilità, anche a livello individuale, del sentimento del pudore.
Daniele Butturini: Ritengo che la sentenza a distanza di qualche decennio conservi una apprezzabile validità e attualità, tenendo conto della evoluzione culturale che il corpo sociale ha maturato. In tale senso, si evidenzia l’evoluzione che la nozione di buon costume ha subito nel corso del periodo storico successivo alla sentenza in oggetto. Si pensi al fatto che la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2000 ha ‘consacrato’ tale evoluzione nell’affermare che il buon costume, limite della libertà di pensiero ai sensi dell’art. 21 comma 6, vada inteso non solo come ciò «che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione». Secondo tale accezione il buon costume, mantenendo sempre la natura di bene comune non contaminabile da esigenze di conservazione del potere, non deve più declinarsi in protezione di un pudore sessuale di cui è portatrice una certa religione ma in rispetto della dignità umana, che è il principio costitutivo di un patrimonio comune di valore proprio dell’attuale società pluralista e multiconfessionale. In realtà, la sentenza commentata pare particolarmente innovativa nelle argomentazioni anche alla luce delle trasformazioni culturali successive che il diritto, nella interpretazione della clausola generale del buon costume, ha recepito. Pensiamo che si possa dire che la sentenza del Tribunale di Benevento abbia concorso a precorrere le evoluzioni di cui sopra.
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C’erano gambe, occhi e braccia che penzolavano dappertutto. Fu una persona del popolo che passando di lì esclamò: “Me pare proprio ‘o spitale de’ bambule” (Mi sembra proprio l’ospedale delle bambole). Che bella idea! Una tavoletta di legno, un pennarello rosso, una croce come quella degli ospedali veri. La bottega di Luigi Grassi aveva finalmente un’insegna, anche quella antica, artigianale, unica.
Della bellissima storia dell’Ospedale delle Bambole di Napoli ci racconterà Tiziana Grassi che oggi porta avanti l’attività di famiglia.
Da quattro generazioni, dal 1895, ripariamo i ricordi delle persone occupandoci della salute dei loro giocattoli. Questa definizione ci appartiene per primogenitura ed è quella utilizzata da mio padre, Luigi Grassi e da me che ne ho ereditato l’arte. L’ospedale delle bambole infatti ripara i ricordi.
Quando si entra nei nostri spazi ci si sente curati, anche se non si portano oggetti da restaurare come bambole, giocattoli, peluche, oppure statuette di santi e di arte sacra. Il contatto dei nostri visitatori con gli oggetti, la relazione con l’artigiano che parla e che racconta le storie di ciò che è raccolto nella nostra “Stanza delle curiosità” - che ricorda quelle che esistevano nel Settecento e nell’Ottocento - fa riaffiorare sentimenti, riaccende i ricordi caduti molte volte nell’oblio. Non abbiamo volutamente utilizzato la parola museo perché non ci piace in quanto il museo rappresenta un luogo istituzionale della conoscenza storica. Da noi invece più che imparare “la Storia” ti incuriosisce “una storia”, quella della famiglia Grassi che da quattro generazioni si prende cura degli oggetti dell’infanzia che hai amato, hai conservato e ai quali sei legato in maniera speciale. Quando ci si rivolge a noi si chiede che questi oggetti tornino in vita, riacquistino i fasti di un tempo.
Ci piace pensarlo. Sa, non è facile immaginare la gente che è passata da cento e più anni per San Biagio dei Librai davanti all’Ospedale delle Bambole pensando a questo posto come ad un luogo di cura delle cose più care, oppure a quante persone questo luogo è noto attraverso i racconti che gli sono stati narrati. “Si è rotta la bambola, si è rotto un santo. Allora portiamolo all’ospedale delle bambole!”. Questo fatto ha inculcato nella mente l’idea che un sogno del passato possa rivivere perché noi proponiamo ai nostri visitatori un contatto soprattutto emozionale. Il fatto che la gente possa entrare in un posto magico come il nostro, che oggi si sta svelando e che molti scelgono di visitare (per entrare bisogna parlare un biglietto), e non di passarci solamente davanti in maniera distratta come si potrebbe fare con tante altre botteghe, ci rende particolarmente felici del nostro lavoro. Questo ci consente di poter continuare a raccontare la nostra storia all’infinito, anche quando non ci sarà mai più una bambola da aggiustare.
Oggi le cose che si rompono si buttano, nella maggior parte dei casi. Noi insegniamo invece la “poetica della cura.
I bambini che vengono a farci visita non vedono tradite le loro aspettative di trovare un ospedale, e quindi facciamo leva sugli stimoli visivi a cui sono oggi particolarmente sensibili. Dunque abbiamo ideato delle “corsie del cuore”, corsie di degenza simili a quelle di un nosocomio, con tanto di lettini per gli ammalati e anche un impianto per le radiografie. Ai bambini proponiamo di diventare medici, infermieri o dei veterinari perché abbiamo anche il reparto di “veterinaria peluche”: curiamo infatti orsi, giraffe e così via. Forniamo quindi loro dei camici e gli attrezzi del mestiere per curare i giocattoli come siringhe, termometri, garze e tutto ciò che serve per un primo soccorso. Nell’ospedale c’è la primaria, che sono io, l’infermiera e i reparti di oculistica, ortopedia e quello della meccanica, tutte stanze delle meraviglie, tavoli di lavoro dove vengono restaurati bambole, peluche e personaggi sacri. La prima parte è quella dell’accettazione della bambola che viene visitata dal primario, viene fatta una diagnosi e poi, in base alla malattia, viene smistata nel reparto di riferimento. Ogni bambola o giocattolo ha una propria cartella clinica con la diagnosi e la terapia da effettuare. Una volta operata e guarita, la bambola viene dimessa, le viene rilasciato un certificato di sana e robusta costituzione fisica e può essere ritirata dalla proprietaria.
Molte mamme dicono che io sono molto simile ad un personaggio di un cartone animato della Disney, la Dottoressa Peluche, che le bambine conoscono molto meglio di me. Io però sottolineo il fatto che noi c’eravamo molto prima della Walt Disney e che semmai è stata la Disney ad imitarci.
Oltre a restaurare gli oggetti, noi conserviamo pezzi di giocattoli rotti che chiediamo alle persone di non buttare ma di donarceli perché potranno servire in futuro come pezzi di ricambio per aggiustare altri giocattoli.
La nostra clientela va dai quattro-cinque anni a salire, sono maschi e femmine che portano un oggetto da riparare che ha un valore affettivo. Prevalentemente vengono dall’Italia ma attraverso Internet c’è anche un pezzettino d’Europa che è arrivato da noi: Belgio, Spagna, Francia, Danimarca, Finlandia. Molti in visita per pochi giorni ci portano degli oggetti da Codice rosso, cioè da curare subito per essere ritirati dagli stessi clienti a fine vacanza. Spesso ci contattano attraverso i social o via mail, ci spediscono gli oggetti, facciamo visita e preventivo e una volta terminato il lavoro spediamo tutto a casa con allegato il certificato sana e robusta costituzione, come già detto in precedenza. Ora abbiamo aggiunto ulteriori servizi con l’allestimento di un centro di bellezza con una sala trucco e parrucco e un’atelier di moda.
Oggi si dà poca importanza al valore del dono.
Il consumismo imperante ha purtroppo raggiunto anche i bambini che non hanno il tempo di affezionarsi ad un giocattolo che subito se ne ripresenta un altro tecnologicamente superiore e molto più sofisticato.
Prima una bambola durava decenni. L’ultimo bambolotto che ha avuto vita più longeva è stato Ciccio Bello, che ancora continuiamo a restaurare, e questo fino a quando non è stato inflazionato nella produzione che ne ha fatto il marchio cinese che lo ha acquistato. Pupazzi, bambole, macchine attualmente progettate dai computer fanno una miriade di cose che limitano la creatività e la fantasia del rapporto del bambino con il giocattolo, come se il giocattolo comandasse sul bambino e ne dettasse i comportamenti, e non viceversa.
Le bambole raccontano storie ma fondamentalmente mantengono dei segreti. Le bambole mantengono soprattutto l’amore che una bambina o una bambina ci ha messo nel tenerle.
Voglio sottolineare soprattutto il fatto che anche i maschietti possono e devono giocare con le bambole, sfatando il pregiudizio che sono giocattoli solo per femminucce. Nell’Ottocento i maschietti giocavano con le bambole senza difficoltà. Le bambole sono un altro “io”. Sicuramente l’interazione sarà diversa a seconda del ruolo che il maschio o la femmina si daranno rispetto alla bambola: fratello, sorella, mamma, papà, dottore, amico. Questo potrebbe essere anche utile per i genitori al fine di conoscere un’eventuale orientamento sessuale del bambino o della bambina. Ad una bambola inoltre si dà il primo abbraccio, il primo bacio, si dedicano I primi momenti di affettività, di eros che un bambino innocente ancora non conosce.
A mio avviso, e lo dico con grande rammarico, dell’artigianato rimane ben poco, ad eccezione dell’arte presepiale che ancora resiste e che comunque rappresenta una piccola porzione di quella che era la ricchezza del patrimonio artigianale napoletano di cui fanno sfoggio le nostre chiese. Lo vediamo negli stucchi, nelle dorature, nelle cornici nei marmi, nei tappeti, nelle cesellature dell’argento, nella falegnameria, nel ferro battuto, nella ghisa, nella tappezzeria, nelle seterie, nel lavoro dei liutai del passato: questo era l’artigianato a Napoli. Le eccellenze e le maestranze si esprimevano nell’arte tuttora godibile se si visitano i palazzi signorili e i grandi e piccoli complessi monumentali. Questo oggi purtroppo non esiste più.
Per esempio a San Biagio dei Librai, la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo era quella dedicata alle ricamatrici della seta. Diciamoci la verità, nel tempo non c’è stata la dovuta attenzione alla tutela e alla promozione della meraviglia e della sapienza artigianale della nostra città, non c’è stata la volontà politica per fare tutto questo. Oggi vediamo il proliferare di attività che propongono manufatti in terracotta, anche di gusto molto discutibile nella proposta di una modernità che spesso è dozzinale e pacchiana, legata alla produzione del souvenir grossolano. Ad esempio nel presepe le statuette che sono la copia esatta di personaggi del mondo dello spettacolo o dello sport, sono state mutuate dalla tradizione pugliese. Questa espressione artistica non appartiene alla tradizione napoletana ma coinvolge attualmente la maggior parte del lavoro di modellatura fatto da lavoranti stranieri. A Napoli, invece, c’erano dei “segreti” del mondo artigiano molto più elevati, come quello ad esempio di usare gli stucchi colorati per riprodurre il marmo finto policromo, fatti con una tale maestria da ingannare anche l’occhio più attento, come possiamo ancora vedere in certe chiese.
Purtroppo non esistono più gli antichi maestri che possono tramandare questi saperi. Sono rimaste pochissime botteghe che praticano e preservano le antiche arti. Devo aggiungere che inoltre in un certo senso negli anni passati ci si è affidati più al sapere teorico e universitario che a quello pratico, del “saper fare” degli artigiani, spesso etichettati come ignoranti, e in questo le scelte politiche e amministrative sono state guidate da una buona dose di miopia e superficialità di giudizio. Questo ha incentivato sicuramente la dismissione di tante attività e di botteghe che nel corso degli anni non hanno avuto più committenze. Venti anni fa sono stata presidente di un consorzio di artigiani che propose la creazione di una “cittadella dell’artigianato artistico” per la creazione di botteghe-scuola e laboratori dove poter apprendere le tecniche artigianali coinvolgendo vecchi maestri che avevano dato la disponibilità alla trasmissione delle antiche competenze coniugandole con un discorso comunque innovativo. Avevamo anche individuato nell’ex asilo Filangieri il luogo che avrebbe potuto ospitare questa cittadella dove il design campano e italiano avrebbe dovuto trovare la sua concreta espressione nei manufatti artigianali, ma questo sogno purtroppo non è stato possibile realizzarlo anche per il disinteresse istituzionale rispetto alla nostra proposta. Così come esistono le accademie del gusto, sulle quali si sta scommettendo molto, così dovrebbero esistere a Napoli le accademie dell’artigianato e dell’arredo, poli di attrazione per committenze dal target culturale ed economico elevato - pensiamo per esempio ai Paesi Arabi - in grado di riconoscere, spendere e di investire sull’arte e sulla qualità napoletana e campana, magari promuovendo un nostro marchio riconoscibile in tutto il mondo.
]]>Intervista di Antonella Vitelli, Torino, 20 ottobre 2021
Violino, violoncello e pianoforte questi gli elementi di partenza che contraddistinguono il Trio Chagall, una formazione composta da Edoardo Grieco, Francesco Massimino e Lorenzo Nguyen. Cresciuti musicalmente presso il Conservatorio di Torino, il Trio si presenta con un nome molto evocativo che sembra voglia essere un omaggio al celebre pittore russo naturalizzato francese Marc Chagall.
Intervistiamo uno dei componenti Francesco Massimino per comprendere di più sulla storia di questa interessantissima formazione.
Il nome Trio Chagall vuole essere un omaggio al grande artista, che tutti e tre amiamo molto. Sentiamo un forte legame tra il noto pittore, la Musica ed il Teatro. Oltre a rappresentare molto spesso strumenti musicali e musicisti all'interno dei suoi quadri, Chagall diede anche molti contributi nel mondo teatrale: si pensi ad esempio che decorò la cupola dell'Opera Garnier di Parigi e creò le sceneggiature e i costumi per tante opere tra cui "L'Uccello di fuoco" di Stravinskij. Inoltre le gradazioni e gli accostamenti di colori tipici dei suoi dipinti sono da sempre di grande ispirazione per noi nella ricerca di timbriche e sfumature di suono.
“Il repertorio del Trio Chagall abbraccia quattro secoli di musica: da Haydn a Shostakovic, da Beethoven a Schubert, Brahms e Ravel, senza tralasciare i lavori contemporanei”.
Ci piace molto l'idea di inserire all'interno dei "tradizionali" programmi da concerto opere del periodo più recente e contemporaneo che sono meno eseguite e conosciute. La composizione contemporanea è spesso ritenuta di difficile comprensione, perché può seguire parametri molto differenti dalle opere classiche. Quando però si riesce ad entrare più' in profondità nella composizione, o semplicemente ad ascoltarla senza scetticismo, vi si rimane certamente molto affascinati.
Un compositore che apprezziamo particolarmente è Mauricio Kagel, famoso per aver aggiunto all'esecuzione musicale l'aspetto teatrale, inserendo in partitura azioni e frasi da far recitare all'esecutore.
Quando abbiamo studiato il suo secondo Trio ne siamo rimasti subito molto affascinati; la composizione è in un tempo unico ed è una sorta di collage musicale caratterizzata da uno stile fortemente aforistico, reso dalla giustapposizione di temi molto diversi tra loro.
Questo settembre invece per il fortissimissimo festival a Firenze abbiamo avuto l'onore di collaborare con il giovane compositore italiano Maurizio Azzan, e abbiamo eseguito la sua composizione "In limine". Poter Studiare un brano insieme al suo compositore è stato davvero molto interessante perché ha permesso di suonare l'opera con più consapevolezza conoscendo meglio le idee che ne stavano dietro alla creazione.
Ricordiamo con piacere il concerto ai Musei Vaticani e le incredibili passeggiate tra quei corridoi prima di iniziare a suonare. Sicuramente l'ambientazione ha influito all'ispirazione del momento. È sempre interessante l'affiancamento della Musica alle altre arti, come a quella pittorica e quella architettonica, suonare circondati da bellezza rende il momento ancora più speciale, ma anche la sola Musica è più che sufficiente!
Il nostro obiettivo più grande è quello di poter vivere facendo Trio, perché oltre a regalare enormi soddisfazioni crea continuamente stimoli per migliorare come musicisti e come persone. Sappiamo che vivere di musica da camera è complicato, ma siamo molto determinati a riuscirci.
Il periodo di pandemia, come per tutti, è stato davvero molto complicato per noi. La cancellazione di tutti i nostri impegni e l'impossibilità di vederci per provare ha avuto un forte impatto nel nostro quotidiano ed ha reso molto difficile trovare la motivazione per studiare con serietà.
Abbiamo cercato di utilizzare il tanto tempo libero di quella pausa forzata dedicandoci ad altri aspetti della nostra attività, come quello dell'immagine e della comunicazione, in quei mesi è nato il nostro logo e subito dopo il nostro sito internet.
Comunque durante i mesi di sospensione dei concerti abbiamo capito quanto fosse importante la presenza del pubblico in sala, quanto fosse forte quell'energia che lega esecutore e ascoltatore durante l'attimo magico del concerto, irripetibile e unico.
Sicuramente i concerti in streaming sono stati importati per non fermare del tutto l'attività culturale, ma dentro di noi è nata la forte consapevolezza che la Musica si può fare soltanto dal vivo.
]]>Partenope la bellissima, dal volto virginale e dalla voce di fanciulla, è distesa sugli scogli e si gode il tiepido sole settembrino. Napoli splende ai piedi del Vesuvio. Ammaliante e indomabile, la città attende di sapere quale sarà il suo prossimo governo.
Tutti parlano di Napoli come una città ma Napoli è un regno. Chi non capisce questo non sarà mai all’altezza di governarla.
La sirena legge il mio stupore per le sue parole e continua a parlare.
Uccisa da un uomo, ho fondato un regno racchiuso in una linea di fuoco che disegna le acque. Tra mare e lava si è disteso il mio corpo di donna e di pesce, femmina e regina.
Ulisse il multiforme, che errò per tanto tempo dopo che distrusse Troia, quando giunse presso le acque dove regnavo con le mie sorelle Ligea e Leucosia, per non rimanere ammaliato e ucciso dal suono di miele della mia bocca, si fece legare all’albero maestro della sua nave. Mi avvicinai a lui per sedurlo ma ne rimasi folgorata. Ci guardammo a lungo negli occhi : non lui, Ulisse, ma io, Partenope, sarei morta per il nostro amore. Il mio corpo senza vita scivolò giù negli abissi, ma le creature del mare lo portarono sulla costa che lentamente lo assorbì cambiando la sua forma e dando vita a Neapolis.
Per questo Napoli è donna di terra e di acqua, protesa verso il mare come una madre per stringerlo tra le braccia, e invasa dal fuoco tellurico del sentimento e della passione all’ombra del Vesuvio.
In realtà ho giocato una partita con un’altra donna, molto più scaltra di me ed ho perso. Nelle sue imprese Ulisse è stato sempre consigliato da Atena, la sua protettrice, la dea che ha rinunciato al suo lato femminile e che ha istruito Pandora adornandola di tutti quegli artifici che potessero ingannare un uomo. Partecipando alla creazione della prima donna, Atena le ha conferito una “metis” innata, un’intelligenza vivace, pratica, sia essa malvagia o benefica, per sopravvivere in un mondo maschile. E di questo dolce e attraente malanno gli uomini non possono fare a meno per perpetuarsi, per procreare, per generare. Tramite la donna, sua perfetta e ammaliante creazione, Atena ha sempre svolto il ruolo di unica mediatrice nella storia dell’uomo.
Cosa vuoi che ti dica? Che la storia ufficiale l’hanno scritta gli uomini? Anche Patrizia, la santa compatrona di Napoli, elargisce la bellezza di una fluidificazione alla settimana, un’enormità rispetto alle tre che san Gennaro compie in un anno. Eppure è un maschio quello che viene indicato come il detentore del primato in questo campo. Evidentemente anche nella gerarchia cristiana dei miracoli, le donne devono faticare molto di più per dimostrare la loro potenza o la loro santità.
Questo popolo nobile e lazzaro, raffinato e sguaiato, vive da sempre immerso nella speranza del miracolo, di una magia che possa dare una svolta ad un’esistenza miserabile spesa tradizionalmente nell’arte dell’arrangiarsi. E il dono del miracolo lo fanno i morti che, continuando a vivere nel dialogo costante con i vivi, intervengono nelle situazioni critiche a sostegno della comunità.
Per questo i napoletani hanno sempre commerciato con l’aldilà e agli dèi pagani o ai santi cristiani hanno sempre tributato onori in cambio di interventi salvifici nella perenne lotta per la sopravvivenza.
Napoli è il regno più bello e raccontato del mondo, ma spesso narrato male. Il traffico delle ombre della Malanapoli della camorra, della delinquenza, della corruzione, della sporcizia, del caos, del traffico e dell’imbroglio sono piaghe che ci portiamo dietro da secoli, che non ci fanno onore e che vanno sradicate. Ma quante di queste cose sono comuni ad altre grandi realtà metropolitane?
Perché dici che la bellezza non riesce a salvare Napoli? É invece proprio grazie alla grande bellezza di questa terra che il popolo resiste e si rigenera anche attraverso le ombre, quelle ancestrali delle Madri pagane che l’hanno abitata e che adesso si nascondono sotto i templi cristiani. Lo splendore di Napoli sta nella soglia invisibile tra la vita e la morte, nella natura bella e terribile che la circonda, nella creatività e nel talento di chi resta e scommette ogni giorno sulla speranza del cambiamento avendo cura del passato e guardando al futuro. Napoli si può amare o odiare, ma non lascia indifferenti.
Questo perché Napoli è il regno del caos fecondo, produttivo e geniale. Hai mai sentito parlare dell’uovo cosmico? Nel caos primigenio Ofione, con forma di serpente, covò tra le proprie spire l’uovo che ha in embrione tutte le cose esistenti. Nell’uovo dischiuso, di natura androgina, maschile e femminile, è la totalità della vita. Non a caso, Virgilio Mago, il poeta alchimista depose un uovo in una caraffa di cristallo e lo nascose nell’isolotto di Megaride, il luogo che accolse me, Sirena morente e sul quale fu poi costruito Castel dell’Ovo. Una gabbia di ferro lo protegge perché una profezia dice che se l’uovo dovesse rompersi Napoli sarebbe distrutta.
In nome stesso te lo dice. Pulcinella deriva da "pulcinello" ovvero piccolo pulcino, dalla voce stridula, quasi un pigolio, e dalla maschera prominente a forma di becco. Anche i cristiani hanno assunto l'uovo come simbolo di resurrezione tanto che a Pasqua torna in numerosi cibi, come tortani e casatielli che vengono portati in alcune parti della Campania in dono alla Madonna delle Galline. L'uovo è una figura perfetta per Napoli perché è precario. Pulcinella, nato da un uovo, è infatti il bianco e il nero, la luce e le tenebre, come i colori del suo vestito. Creato da due streghe che chiesero il permesso di comporlo a Plutone, dio degli inferi, affronta sempre situazioni estreme, tra la vita e la morte.
Il canto che affascina. Napoli è il regno della poesia della musica che le invidiano anche gli déi.
Di realizzare le sue promesse ricordandosi che è regina. Di non abbandonare il sogno, ma di essere capace di leggere la realtà. Di essere sempre terra e mare.
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Umberto Maria Giardini, noto anche con lo pseudonimo di Moltheni è uno dei musicisti che ha avuto il piacere di conoscere e collaborare con Franco Battiato.
L'abbiamo contattato per capire com'è nata l'idea di coinvolgere il Maestro nel suo Toilette memoria, album, il quarto del cantautore, registrato e missato nell'estate del 2006 dove proprio nel brano In Sento che sta per succedermi qualcosa si sente la voce di Franco Battiato. A prendere tempo o a perderlo non si sa, non c'è nessuno a volerlo insegnare forse perché non si insegna un vero disvelamento.
Franco Battiato era un uomo estremamente raro, non solo per le sue riconosciute capacità legate alla musica e alla scrittura, ma per un’attitudine assolutamente straordinaria verso l'arte e le sue numerose forme. Visionario e contemporaneamente profondo, curava i dettagli in maniera maniacale, senza danneggiare in nessun modo tutti quei significati che scaturivano da qualsiasi sua produzione. Un artista a 360° che lascia dietro di sé un vuoto incolmabile.
Franco mi contattò prima delle riprese del suo primo film "Perduto amor" chiedendomi una partecipazione sia nella colonna sonora (Prigioniero del mondo di Lucio Battisti) che come comparsa all'interno della pellicola. Nei giorni passati assieme sul set e in studio con Pino Pischetola a Milano, ci furono svariati momenti in cui inevitabilmente affrontammo argomenti profondi e molto seri. Da lì nacque questa stima che fino a quel momento confesso non avevo mai avvertito nei suoi confronti, ma che non cambiò il mio modo personale di guardare il mondo e la vita; tuttavia compresi cose nuove che non dimenticherò mai. Qualche tempo più tardi avevo questo brevissimo brano che mi fece pensare a lui, e di fatto fu lui a cantarlo.
L'empatia. Quando parlava comprendevo tutto, quando parlavo mi sentivo compreso.
Sapere che è vivo e che lavora. Franco non era una persona che vedevo spesso o che praticavo, quindi sarei un bugiardo se dicessi cose non vere. Sapere che non c'è più mi addolora enormemente.
Nessuno in particolare, Franco Battiato era un profeta della vita e della comprensione di essa. Io lo stesso, non saprei davvero.
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Ho incontrato il poeta della pittura in un altrove sognato, in un paesino sperso e dimenticato come tanti del Sud, in una bottega dalle pareti scrostate, nascoste da drappi colorati, dove si spande l’odore di trielina e dove il tempo si è fermato. Su una sedia intravedo un fascio di ginestre, i miei fiori preferiti. Massimo Rao è assorto nel suo disegno. Il tratto sicuro sul foglio è guidato dalla mano del suo pensiero. Mi cade a terra il catalogo di una mostra e il rumore lo fa trasalire. Si volta e mi vede.
Ti aspettavo invece. Finalmente ti sei decisa. Ho avvertito il timore che hai di intervistarmi ma non c’è nulla di cui io e te non possiamo parlare. Abbiamo poi almeno due o tre amori in comune: la luna, la poesia, l’arte e anche le ginestre. Non è vero?
Spesso d’inverno indosso un mantello ampio per coprirmi dal freddo, ma ti sembro un cavaliere? Un paladino? E di quale causa, poi? Non ho mai pensato che l’arte dovesse avere un fine utilitaristico, sia esso politico, morale, religioso. La bellezza pura e disinteressata, l’inutilità poetica dell’arte è l’essenza stessa dell’arte.
Sono un cavaliere del gratuito. Se proprio vuoi trovare una missione in quello che faccio, la mia missione è quella di diffondere” il vangelo dell’inutilità dell’espressione artistica”, persa nella fertilità della fantasia e libera dall’ingombro della verità e dal pragmatismo. Quando dipingo avverto solo la necessità di sperimentare, di ricercare e percorrere le strade di accesso alle cose che oltrepassano la realtà, di interrogarmi e di vagabondare nella bellezza del dubbio.
In molte delle mie opere, è vero, appare spesso la Luna che illumina il mio percorso artistico e forse anche esistenziale. La luna dai campi pallidi è il luogo da cui parte e a cui approda la poesia, il luogo del possibile, di ciò che non è ancora accaduto e che potrebbe accadere o che non accadrà mai. Ma questo non ha alcuna importanza. Le suggestioni dei tuoi lavori sono spesso crepuscolari, a volte notturne. C’è una luce velata che introduce al mistero delle persone che ritrai, creature fatte della materia dei sogni, di cui è quasi sempre impossibile decifrare il sesso, l’età, la collocazione temporale. E non agiscono. Semplicemente, “stanno”.
Le mie figure non fanno mai nulla di preciso e di riconoscibile. I miei volti lunari sono custodi silenziosi del mistero della pittura. Semplicemente “sono”, si rappresentano portandosi dietro e addosso la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti. A volte seppelliscono la faccia (falsa) sotto la maschera (vera) della recita. I drappeggi voluminosi in cui sono avvolti, i tendaggi ridondanti, le quinte teatrali che fanno da sponda rimandano all’idea di un palcoscenico immaginario in cui si celebra il trionfo del disinganno. Viviamo in una realtà di plastica, in un mondo sempre più appiattito nella volgarità, una società-beccheria che ci tira il sangue dalle vene. Rimmel, biacca, bistro, travestimenti saranno i fucili di una rivoluzione clownistica delle marionette ribelli che vogliono spezzare i fili mossi dai burattinai. Riprendiamoci la nostra anima-bestia!
Ho amato e amo molto il mio paese, dove ho amici che mi vogliono bene e a cui voglio bene, così come amo la provincia e detesto il provincialismo. Certo la voglia di conoscere e di mettermi in gioco era tanta, e gli studi di Architettura a Napoli mi hanno fatto scoprire l’anima contorta e guizzante di Bernardo Cavallino e del Ribera. Il capriccio per un esotismo “al contrario” ed eventi propizi mi hanno portato a vivere a Bolzano. Troppo mi erano piaciuti prima di allora Matthias Grünewald e Jan Van Eyck per non desiderare di gettare uno sguardo ai “lontani fiumi del Nord”. La mia storia di pittore è continuata poi sotto auspici diversi in una casa in cima ad un colle in Umbria, a Pornello San Venanzo, intercalata da fughe ad Amsterdam, Maastricht, New York e in molti altri posti dove ho realizzato mostre personali e collettive. L’Umbria è bellissima e distante, attonita e silenziosa, come la luna.
Il mio viaggio però è finito qui dove tutto ritorna, nel mio paesino del Sud, il mio altrove per sempre.
Vivendo. Con tutta la speranza e la paura che ci portiamo addosso, stancandoci di lacrime e risate, dei giorni e delle ore, dei desideri, delle illusioni, di ogni cosa. Ma non del sogno.
Tu che pratichi la scrittura, dovresti sapere che più che la parola è il non-dire che svela il significato dell’esistenza. Con il tempo si toglie, non si aggiunge più nulla. Le mie ultime creature vestono abiti sdruciti ma vissuti, consunti dal tempo e dalla fatica del vivere. Nel viaggio verso i luoghi pallidi delle ombre portano con sé solo un fagotto minimo e il pane degli Elfi, nutrimento leggero che basta all’anima.
Non mi hai chiesto però una cosa. La canzone a cui tengo molto e con la quale i miei amici mi ricorderanno per sempre.
La canzone del Sole.
Il 18 gennaio di quest’anno il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini in diretta streaming ha annunciato la vittoria di Procida come Capitale italiana della Cultura 2022. La giuria presieduta dal professor Stefano Baia Curioni ha avuto il compito di valutare il progetto più idoneo e nella rosa di 10 finaliste ha avuto la meglio proprio la piccola "Perla del Golfo di Napoli". Procida è una isola di origine vulcanica, nata dalle eruzioni di almeno quattro diversi vulcani, attualmente spenti e in gran parte sommersi. Oggi è una meta turistica ambita anche grazie ai numerosi film che ha ospitato. Sono un esempio Il Postino con Philippe Noiret e Massimo Troisi e Il talento di Mr. Ripley con Matt Damon. Un territorio piccolo, di soli 4 chilometri quadrati anche se l’isola ad oggi risulta essere la più popolata d'Europa. Nel 2022 si riparte con una nuova sfida, un nuovo progetto culturale che conserva l'obiettivo di ricucire tutto ciò che abbiamo visto sfilacciarsi in questo anno. La cultura non isola è un claim, un programma, una speranza, ma soprattutto una solida aspettativa. Ne abbiamo parlato con Agostino Riitano, Direttore di Procida 2022 e manager supervisor di Matera 2019 capitale europea della cultura. Agostino è anche autore di numerosi articoli e conferenze scientifiche sui temi dell'Innovazione culturale, sociale e dello sviluppo della città.
Ascolta "Interviste sul contemporaneo: il podcast di Lentiapois" su Spreaker.
Si, questa è un’azione portata avanti dal Presidente De Luca. Sono partiti i preparativi poi c’è stata una battuta d'arresto. Sicuramente riuscire a attivare un percorso di vaccinazione importante potrebbe rafforzare quel senso di sicurezza e tranquillità utile ad agevolare una propensione differente delle persone a partecipare a delle azioni culturali. Anche perché come sai noi siamo la capitale della cultura, non del turismo. Nel senso che vorremmo realizzare una missione molto precisa che quella di riuscire ad interpretare profondamente il nostro tema forza che poi è diventato fortemente popolare in questa pagina molto complessa della nostra storia contemporanea, ovvero la cultura non isola quindi cercheremo di declinare questo questo tema da tanti punti di vista. Partendo proprio dalla concezione di un'isola come metafora un po' della condizione dell'uomo contemporaneo. Siamo tutti ormai delle isole, cerchiamo con fatica di ricostruire degli arcipelaghi e sono arcipelaghi tendenzialmente relazionali e per questo intendiamo la cultura come una questione di legame non soltanto intrattenimento. Proveremo a ricucire tutto ciò che si è sfrangiato durante questi lunghi mesi.
Il tema prima lo sentivamo fortemente, oggi è una necessità. L’idea è nata ancor prima della pandemia. L’isola per noi è immagine, simbolo, idea, luogo carnale e concreto spesso dominati da flussi di rapporti, da arrivi e da partenze. Come diceva Jean-Luc Nancy si parte e si viene e l’isola invita da sola ad attraversare il mare. Quindi il mare non come separazione, ma come come unione. Tutto questo ovviamente lo trasliamo nel nostro programma. Abbiamo fatto in questo anno grande esperienza delle tecnologie del digitale, nel 2022 speriamo di lasciarci alle spalle un po' di preoccupazioni, ma siamo consapevoli che alcune lezioni importanti che abbiamo imparato quest'anno possono essere parte integrante proprio dei meccanismi di fruizione. I contenuti credo continueranno ad essere fruibili anche in modalità digitale. Per Procida utilizzeremo la piattaforma della Regione Campania che è la una piattaforma regionale, molto complessa e articolata, che dà la possibilità da un lato di fare digitalizzazione del patrimonio culturale e dall’altra di rendere fruibili i contenuti in tempo reale.
Si, noi non abbiamo organizzato il programma in base ai genere quindi non abbiamo il programma del cinema, della letteratura, delle mostre, ma abbiamo creato cinque sezioni che si intitolano con 5 verbi che dal nostro punto di vista sono quei verbi che soltanto la cultura cui innescare. Il verbo inventare, ispirare, innovare, includere e imparare. Ovvero progetti “faro”, progetti “ancòra” e progetti di “comunità”.
I progetti faro sono progetti di ampie dimensioni che un po' orientano il il programma culturale e spesso in mano anche i processi di trasformazione rigenerazione e rivitalizzazione urbana.
I progetti ancòra sono quei progetti che approfondiscono le cosiddette eredità culturali riferendoci anche alla convenzione di faro però con un forte impulso dalla dimensione locale alla visibilità nazionale ed internazionale. In ultimo ci sono i progetti di comunità che sono quei progetti volti a promuovere, facilitare e costruire comunità solidali attraverso la promozione del capitale sociale e dei beni relazionali. Questo è un po' l'intelaiatura progettuale. Sono 44 i progetti, ci muoveremo su un'azione di circa 330 giorni di attività e al momento abbiamo un coinvolgimento di circa 240 artisti.
Giusto. Diciamo che abbiamo costruito innanzitutto un processo culturale che poi si è fatto progetto. L’abbiamo innescato mediante un metodo che abbiamo chiamato “Procida immagina” che vede il protagonismo dei cittadini quindi lavorando sul desideri di cittadini, sulle necessità della cittadinanza. Da qui abbiamo poi costruito i nostri quattro assi strategici. Questi quattro assi strategici ci hanno aiutato sempre di più al declinare quelle che erano proprio appunto le vocazioni da un lato e le aspettative dell'altro. In questo non abbiamo mai pensato di partecipare ad un concorso di bellezza. Questo cosa significa? Significa che l'Italia è un paese straordinariamente intenso, straordinariamente bello e straordinariamente pregno di un patrimonio culturale. Città piccoli, aree interne e aree costiere detengono un patrimonio straordinario. Abbiamo lavorato per costruire un immaginario collettivo che potesse stimolare la comunità procidana e allargarla. Non abbiamo lavorato, diciamo, su una geografia legata ai confini dell'Isola che poi è un territorio piccolo 4 chilometri quadrati anche se densamente popolato. L'Isola di Procida infatti è l'isola più popolata d'Europa e in soli quattro chilometri quadrati, abbiamo immaginato una geografia molto più ampia che teneva dentro ad esempio i campi Flegrei, ma soprattutto tutte le isole minori d’Italia, quindi quei 35 comuni delle 27 isole italiane. Nel processo di candidatura abbiamo invitato una delegazione di cittadini provenienti da 27 isole minori e questi hanno lavorato gomito a gomito con i cittadini procidani affinché il discorso della cultura come volano di sviluppo in una comunità isolana potesse essere una sorta di think thank stabile ed un ragionamento costante su quella che appunto è la vita e l'ecosistema culturale su una piccola isola.
Diciamo che ritengo che tutti i percorsi che vedono la città al centro devono essere dei percorsi sartoriali, devono nascere proprio sulla morfologia fisica e culturale di una comunità. Nel nostro caso lo sviluppo è stato guidato da quattro principi molto semplice e molto chiari al tempo stesso. Il primo è quello della responsabilità ovvero non è sufficiente agire ma è necessaria una forte consapevolezza delle ricadute di questo agire quindi non è soltanto importante fame ma importante fare bene. Si dice un po' anche nella nostra tradizione linguistica il “fare a regola d'arte”. Un altro principio riguarda la cooperazione, un collante generativo di valori e di scambi. Terzo principio l'economia del dono in cui abbiamo un movimento circolare per dare, ricevere e ricambiare. Al tempo stesso parto dal principio che c’è una fortissima impronta dell'intelligenza collettiva. Siamo profondamente convinti che le opinioni differenti possano effettivamente essere una forza in un percorso di sviluppo locale a base culturale. Quindi la co-creazione è un processo di capacity building per la comunità, ma è anche un processo collettivo i cui risultati spesso e volentieri non si risolvono nell'evento, ma producono un sapere interiorizzato, una vera e propria eredità che poi i soggetti coinvolti all'interno del processo potranno trasferire ai propri concittadini mettendo a frutto una nuova capacità progettuale.
Guarda in questo momento c’è un’energia positiva. Il mondo culturale vive il dramma della pandemia. I teatri, i cinema sono chiusi, ma con Procida 2022 vogliamo dare anche un segnale di speranza in tal senso. La speranza che il sistema culturale del nostro paese possa continuare ad essere uno dei sistemi produttivi non soltanto da un punto di vista economico, ma anche e soprattutto dal punto di vista del pensiero e delle visioni che soltanto l'arte ovviamente può darci. In questo senso vorrei ricordare il passaggio di una poesia di un grande autore teatrale napoletano, che si trasferì per un periodo a Procida, Antonio Neiwiller che in una sua poesia intitolata per un teatro clandestino ad un certo punto dice che “senso ha se a salvarsi è uno solo”. In questo noi ci crediamo fortemente e quindi cercheremo di tenerci con mano con tutti coloro i quali vorranno ritornare per fare grande la cultura del nostro Paese.
]]>Gramsci, Antonio Gramsci. Uno degli autori più studiati, come dimostra la bibliografia gramsciana internazionale, in diverse discipline e in tutte le aree linguistiche per la vastità dei suoi interessi. Le sue categorie storico-politiche paiono ancora attuali, capaci di afferrare i fenomeni apparentemente più inediti della nostra epoca. A cento anni dalla fondazione del Pci torniamo a parlarne con Francesco Giasi, Direttore della Fondazione che porta il suo nome e che a lui è dedicata.
La Fondazione Gramsci è un istituto culturale che opera sia nell’ambito della valorizzazione dei beni culturali sia in quello della ricerca scientifica. Come istituto di conservazione mette a disposizione il proprio patrimonio documentale secondo regole analoghe a quelle che garantiscono l’accesso alle biblioteche e agli archivi pubblici. Come istituto di ricerca promuove attività lungo alcune principali direttrici: lo studio del pensiero di Gramsci, la storia del socialismo e del comunismo, la storia internazionale del Novecento. Nata nel 1950 allo scopo di valorizzare l’eredità letteraria di Gramsci, la Fondazione ha acquisito e ordinato nel corso degli anni l’ingente patrimonio di documenti prodotti dal Partito comunista italiano. Assieme alle carte dei dirigenti del Pci, sono stati acquisiti via via archivi di personalità del mondo della cultura italiana. Contestualmente, è stata arricchita anche la biblioteca che conserva oggi poco meno di 200 mila volumi tra libri e collezioni di periodici. Si tratta quindi di un patrimonio ideale e materiale, da tutelare e valorizzare costantemente. Allo stesso tempo, la Fondazione realizza progetti di ricerca, organizza convegni di studi, conferenze, mostre, corsi di formazione anche in collaborazione con università e istituzioni culturali sia italiane che straniere. La sala studio è quotidianamente frequentata da studiosi – studenti e ricercatori - che si occupano per varie finalità di storia del Novecento.
L’interesse verso il pensiero di Gramsci non è un fatto recente. Gramsci è un autore postumo che non ci ha lasciato opere compiute. La sua prima fortuna ebbe carattere nazionale. L’edizione dei suoi scritti del carcere contribuì nell’immediato dopoguerra al rinnovamento della cultura italiana. Mentre il volume delle Lettere dal carcere ebbe una grande e immediata fortuna nel più largo pubblico, gli appunti e le note raccolti nei Quaderni del carcere influenzarono la cultura filosofica e politica, la storiografia, la critica letteraria, la pedagogia. Gramsci fu una vera rivelazione per il mondo intellettuale italiano. Dalla loro prima apparizione, gli scritti carcerari non hanno mai smesso di suscitare interesse e di sollecitare riflessioni sulla politica e sulla storia. Egli fu senz’altro tra gli interpreti più originali e creativi di Marx, tra coloro che non cristallizzarono il marxismo in formule e che badarono alla complessità e al nesso tra i fenomeni economici, sociali, culturali ed etico-politici. I suoi scritti sono apparsi un antidoto alla dogmatizzazione del marxismo grazie alla maniera spregiudicata di trattare temi e problemi che egli considerava di volta in volta rilevanti per ricostruire e interpretare il passato e per intendere la storia corrente. Ci ha lasciato un insieme di appunti, più o meno estesi, per libri e saggi da scrivere, in cui prevalgono gli interrogativi e le indicazioni sulle ricerche da svolgere e da portare a compimento. La fortuna internazionale di Gramsci data dagli anni Ottanta ed è stata negli ultimi tre decenni senz’altro crescente. Si sono susseguiti studi, traduzioni e usi spesso disinvolti. La bibliografia gramsciana internazionale dimostra ampiamente che Gramsci è un autore studiato nell’ambito delle più diverse discipline e in tutte le aree linguistiche. Le ragioni della sua fortuna sono molteplici. Intanto, la vastità dei suoi interessi e la connessione tra una miriade di temi ed alcune domande fondamentali sui caratteri della modernità. Le sue categorie storico-politiche paiono in grado di afferrare fenomeni della nostra epoca; molte delle sue preoccupazioni sono ancora nostre preoccupazioni. Egli fu un pensatore politico e a preoccupazioni di carattere politico vanno ricondotte tutte le sue riflessioni.
Sono trascorsi cento anni dalla fondazione del Partito comunista italiano, ma questo partito non c’è più da trent’anni. Nato nel 1921, è stato sciolto nel 1991, settant’anni dopo. Non c’è quindi altra possibilità che fare i conti con questa ricorrenza sollecitando ricerche e riflessioni in chiave storica. Non si tratta di un anniversario che richiede festeggiamenti, ma di un’occasione per ripercorrere un lungo periodo della storia nazionale e mondiale. Nell’autunno dello scorso anno, qualche mese prima della ricorrenza, abbiamo organizzato un convegno in tre giornate chiamando più di trenta studiosi, per lo più della generazione più giovane, a rileggere e reinterpretare momenti della storia del Pci. Le relazioni presentate al convegno, intitolato Il comunismo italiano nella storia del Novecento, diverranno altrettanti capitoli di un libro che verrà pubblicato entro quest’anno. Abbiamo deciso di prestare la massima attenzione alle fonti sollecitando la raccolta e l’ordinamento degli archivi regionali, provinciali, comunali conservati in vari istituti. Abbiamo così dato vita a un portale delle fonti per la storia del Partito comunista italiano già accessibile al pubblico (www.archivipci.it), che verrà costantemente incrementato con oggetti digitali e strumenti di ricerca: inventari, edizioni integrali di giornali e riviste, opuscoli, documenti a stampa, materiali audiovisivi. I libri di storia e di memorie sul Pci stanno riempendo le vetrine e gli scaffali delle librerie italiane; segno che la storia del Pci desta ancora un vivo interesse e che il centenario della nascita sta suscitando un dibattito pubblico assai vivace. Non stiamo ignorando questi contributi e, se pur selettivamente e nelle condizioni dettate dall’emergenza sanitaria, ci stiamo preoccupando di promuovere dialoghi attorno alle pubblicazioni che ci paiono più significative e innovative, o comunque in grado di sollecitare una discussione interessante su fatti e protagonisti. In autunno, infine, pubblicheremo un volume di fotografie: circa duecento foto scattate tra il 1921 il 1991, raccolte come in un album.
L’archivio fotografico della Fondazione Gramsci costituisce soltanto una piccola parte del patrimonio fotografico che ha come soggetto il Partito comunista italiano. L’immagine fotografica è mutata considerevolmente nel corso degli anni. Ridotto alla clandestinità sin dai primi anni di vita, sino al 1945 il Pci ha prodotto pochissime immagini di sé. Fino alla caduta del fascismo le immagini più significative sono senz’altro le foto segnaletiche che si trovano nei fascicoli del casellario politico, scattate dopo l’arresto o utili a individuare i ricercati. A queste si possono aggiungere le fotografie dai luoghi di confino, inviate ai parenti, o quelle che ritraggono gli esuli in Francia, Belgio, Russia, Stati Uniti e America Latina e i combattenti in Spagna durante la guerra civile. Soltanto all’indomani della Liberazione la fotografia diventa rilevante nella rappresentazione e nell’auto rappresentazione del Pci. Dalle prime sfilate dei partigiani nelle città liberate, alle piazze affollate durante i comizi e le frequenti mobilitazioni nel corso delle lotte o delle feste. Le fotografie ci restituiscono un soggetto collettivo, le moltitudini insieme ai volti dei singoli, varie generazioni che hanno partecipato con entusiasmo alla vita politica e civile italiana dall’immediato dopoguerra in avanti. Ci mostrano l’Italia che cambia profondamente, decennio dopo decennio. C’è solo l’imbarazzo della scelta nello scorrere le sequenze di immagini che ritraggono quelli che Gramsci chiama “momenti di vita intensamente collettiva” o manifestazioni di giubilo o di dolore, come i funerali di Togliatti e Berlinguer. Non saprei decidermi tra le foto che ci restituiscono un momento particolarmente significativo e scelgo il ritratto più noto di Gramsci, rielaborato graficamente in mille modi. Il volto di Gramsci ha accompagnato l’intera storia del Pci dalla fondazione al suo scioglimento. Durante la dittatura fascista, una sua foto scattata a Mosca nel 1922 venne frequentemente esposta in occasione delle manifestazioni dei fuorusciti e stampata sui giornali antifascisti. Nel dopoguerra, comparve quel ritratto divenuto ben presto una specie di icona. Quando Togliatti annunciava l’imminente pubblicazione delle Lettere e dei Quaderni del carcere quell’immagine già campeggiava nei primi congressi, all’interno delle sezioni e nei cortei. È una fotografia presente nella vita del Pci sino ai suoi ultimi giorni, che rappresenta nel miglior modo ciò che gli sopravvive.
La scomparsa dei partiti organizzati di massa ha significato la fine di esperienze collettive che hanno caratterizzato la storia del Novecento. Dopo la seconda guerra mondiale, più generazioni di donne e di uomini si sono ritrovate a impegnarsi in organizzazioni che garantivano la partecipazione e la discussione. I partiti si candidavano a rappresentare interessi generali e a soddisfare bisogni e aspirazioni. Il loro carattere popolare scaturiva dall’essere soggetti collettivi in grado di prospettare una società migliore. Non è possibile alcun ritorno al passato, ma non è detto che il partito politico – democratico e organizzato – sia uno strumento ormai inservibile e che non lo si possa rigenerare. C’è voglia di partecipare, di intervenire, di contare, ma intanto non stiamo lavorando abbastanza per dar vita a forme nuove di partecipazione alla vita politica. Non ho dubbi sul fatto che i partiti – e non riesco a immaginare altri soggetti – per riacquistare credibilità debbano innanzitutto badare all’inclusione e alla partecipazione attiva proponendosi come soggetti coerenti e trasparenti.
So bene che questo aforisma ha avuto molta fortuna, ma Gramsci si è espresso con altre parole:
La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Gramsci si riferiva alla “crisi di autorità” che si manifesta quando la classe dominante ha perduto il consenso ed è perciò soltanto dominante e non più dirigente. In pratica, le crisi si verificano quando il vecchio è morente, ma è ancora in grado di sopravvivere in quanto il nuovo non è capace di soppiantarlo. Se questo “interregno” dura a lungo, non c’è da attribuire colpe al vecchio che non vuol morire o al nuovo che non sa nascere. Certo è che coloro che lottano per il nuovo sono ancora incapaci di dar forma a una civiltà che sostituisca la vecchia.
]]>Si, il punto di partenza è un rapporto pubblicato nel 2018 delle Nazioni Unite che afferma che il luogo più pericoloso per le donne è casa propria. I numeri sono veramente spaventosi non solo in Italia ma in tutto il mondo: sono circa 50.000 donne e ragazze uccise ogni anno per femminicidio. Con questa installazione portiamo nello spazio domestico - i piatti da cucina - le frasi che i media usano per raccontare queste violenze e i luoghi comuni tossici presenti nella nostra società (era un brav’uomo, quante storie per due schiaffi, se l’è cercata).
Si è un progetto che abbiamo realizzato assieme, con Silvia abbiamo un rapporto non solo di sangue, ma di collaborazione e rispetto in quanto artiste. Già avevamo collaborato nel 2005 e 2007 con due lavori di video arte “Something wrong” e “Everything is ok”, sempre sulla violenza e le costrizioni sociali. Siamo abituate a discutere e a riflettere sulle dinamiche umane e la pratica artistica ci ha portato a dare forma a questi confronti.
Abbiamo sentito entrambe l’urgenza di parlare della violenza sulle donne nelle case, nelle famiglie, in una società che purtroppo continua a giustificare, minimizzare e banalizzare le relazioni violente.
Poi è arrivata la pandemia che ci ha chiuso tutti in casa, questo ha triplicato i casi di violenze domestiche e ha reso necessario rendere più mediatica l’opera, per questo l’installazione è diventata un’azione in piazza Duomo a Milano, dove i piatti non erano più a terra ma erano sorretti da donne.
E’ questo il punto, purtroppo gli uomini uccidono le donne in tutto il mondo, senza distinzioni di classe, cultura e luoghi. E’ aberrante ma è così, in questo senso il movimento Ni una menos in Argentina sta usando slogan che spostano leggermente ma in maniera sostanziale l’asse del discorso “Paren de matarnos” (smettete di ucciderci), “Vivas nos queremos” (vive ci vogliamo). L’installazione “Il luogo più pericoloso” è stata presentata per la prima volta a Firenze, nel cortile del Michelozzo in occasione della Giornata Mondiale contro l’eliminazione della violenza sulle donne. Ci premeva evidenziare che il femminicidio è una piaga che non ha confini, e per questo abbiamo deciso di utilizzare frasi in più lingue. Sono parole che esprimono il desiderio di controllo, il rapporto di potere, pronunciate sia dai media che da uomini incapaci di gestire il rifiuto o il fallimento di una relazione sentimentale (non lo farò più, senza di me non sei niente …). Il femminicidio non è la conseguenza di un improvviso e momentaneo impulso violento ma l’esito di un lungo processo emotivo, spesso sottovalutato, e di una radicata cultura di violenza verso le donne.
Mi interessano i codici sociali, gli stereotipi e le storie che ci determinano. Si pensa sempre che la tematica femminile sia separata dalla tematica maschile, ma quello che mi interessa sono le relazioni. Nel caso specifico dell’installazione “Il luogo più pericoloso” i piatti vengono sempre visti come un elemento femminile dimenticandosi che tutti indifferenziatamente utilizziamo i piatti per mangiare. Questo fa già riflettere.
La realtà è paradossale, ad esempio in ambito lavorativo tutti si aspettano che le donne lavorino come se non avessero figli e che crescano figli come se non lavorassero. Con la pandemia le criticità del sistema sono davanti agli occhi di tutti, e mi sembra molto concreta la richiesta del movimento Giusto Mezzo affinchè la metà dei fondi del Recovery Found sia destinato a politiche integrate di genere, ora come ora la maternità e la cura della famiglia sono totalmente a carico delle donne.
L’indipendenza economica è uno dei passi per uscire dalle dinamiche di potere patriarcali.
L’arte ha il potere di mostrare altri modi di vedere la realtà; oggi più che mai abbiamo bisogno di porci domande e di ripensare i modelli granitici pieni di preconcetti che ci portiamo dietro. Ci sono lavori che apprezzo molto come quelli di Agnes Vardà, JR, Bill Viola, Jenny Holzer, Marina Abramovic che fanno questo, spostano l’asse del discorso. A novembre abbiamo realizzato con Silvia Levenson la mostra “Ni una menos” presso il Consolato Argentino a Roma (Casa Argentina), riallacciando rapporti con curatori e artisti argentini è nato il progetto di portare “Il luogo più pericoloso” a Buenos Aires in forma più partecipativa come laboratorio e mostra. Sarà un’ottima occasione per “rematriar”, per tornare alla terra madre.
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Artista colto e raffinato, personaggio di rilievo della cultura del Novecento oltre che uno protagonisti più eclettici del recupero della tradizione popolare musicale e teatrale. Stiamo parlando di Peppe Barra, cantante e attore teatrale italiano sempre attento a contaminare i generi in quello che è un repertorio costituito da testi classici, filastrocche popolari, poesie, barcarole procidane e tammurriate. In questa intervista ci racconta la sua Procida e le aspettative per il futuro dell'isola.
Vorrei che Procida si presentasse come un’isola ridente, bella, umile, vestita della sua semplicità, con i suoi luoghi bellissimi che mi riportano all’infanzia, luoghi in cui poter passeggiare con tranquillità senza i rumori assordanti delle auto. Non vorrei Procida venisse invasa da un turismo aggressivo, commerciale, poco composto. Per la capitale della cultura del 2022 preferirei un turismo elegante, selezionato, rispettoso dell’ambiente, un turismo lento e disciplinato.
Mi auguro di sì, di poter essere presente come artista nella mia isola. Sicuramente sarò a Procida per il “Premio Concetta Barra”, premio dedicato a mia madre e promosso dall’Università Federico II di Napoli, che si tiene già ogni anno nell’isola e del quale sono direttore artistico oltre che membro del comitato scientifico. Senz’altro questa manifestazione nel 2022 verrà ulteriormente curata e conosciuta da un pubblico più vasto.
C’è molta negligenza nel campo culturale e soprattutto in Campania non si è ancora riusciti a realizzare uno spazio, un museo che raccolga i reperti, le testimonianze della nostra tradizione popolare, oltre che tutto il materiale audiovisivo che fa parte della nostra cultura, come invece è stato fatto altrove, ad esempio a Roma e a Venezia. Così si rischia di disperdere un patrimonio storico bellissimo ed importante, frutto della continuità e della ricerca attenta di molti artisti e studiosi. Penso ad esempio al lavoro fatto in campo letterario e musicale da Roberto De Simone e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, lo studio sulla cultura e la lingua napoletana di Annibale Rucello, solo per citarne alcuni. La lingua napoletana ha una musicalità elegante, tale da essere amata, protetta e tutelata, anche insegnata nelle scuole.
Le piattaforme digitali, per quanto utili e suppletive degli spettacoli dal vivo, soprattutto nel periodo che stiamo vivendo, non hanno la stessa capacità di comunicazione del teatro. Mancano dell’emozione, del respiro, del calore, della corrispondenza con il pubblico, del dialogo, dell’applauso. Sono fredde, gelide, perché mancano del contatto fisico, delle sfaccettature umane di cui il teatro si nutre e che restituisce con partecipazione emotiva. Anche io quest’anno ho realizzato uno spettacolo dal titolo Canti di Natale nell’ambito del Programma di eventi culturali per il Natale 2020 realizzato online dalla Regione Campania
su Ecosistema Digitale per la Cultura. Mancava però l’anima e l’energia trasmessa dal pubblico. Una mancanza questa che nessuno strumento digitale può colmare.
Io credo di sì perché credo molto nei giovani, nella loro sensibilità poetica, nel loro desiderio di fare, affamati di potersi esprimere attraverso la nostra cultura. L’importante però è che queste energie non vadano disperse e soprattutto che si investa nel campo culturale. In passato si diceva che con la cultura non si mangia. Oggi penso che questo sia ampiamente smentito. Investire nella cultura significa investire nel futuro e nella speranza.
Non amo gli stereotipi così come non amo i complimenti gratuiti nei discorsi che si fanno su Napoli, e in questi giorni anche su Procida che sarà città italiana della cultura. Noi conosciamo bene le nostre realtà, le luci e le ombre. Io ho conosciuto la Procida degli anni cinquanta, con pochissimi alberghi, un luogo poco raggiunto dal turismo, una Procida culturale e discreta nel mostrarsi, ricca di suggestione e di fascino. Vorrei che fosse proprio questa l’immagine dell’isola che venisse fuori, quella che io amo, evocativa di una bellezza ricca di valori autentici.
Ho una bella età e ho lavorato molto. Con questo non voglio dire di non avere ancora progetti. Quando Özpetek mi ha chiamato per la sua “Napoli velata” ho accettato con piacere il suo invito ma la mia vita è essenzialmente il teatro. Il cinema è lontano da me e non ho avuto neanche il tempo di cercarlo. Il teatro è da sempre la mia passione e la mia dimensione.
Più che la bellezza penso sia l’amore che salverà il mondo.
]]>Sono andata nella vecchia sezione abbandonata del P.C.I., una delle tante in un paese del Sud dove una volta il Partito e la parrocchia erano i centri più importanti di aggregazione sociale. I Cento Anni dalla fondazione del più grande schieramento politico dei lavoratori mi ha riportato alla militanza, alla mia elezione a consigliere comunale d’opposizione, ad una storia prossima eppure già lontana. In uno dei faldoni che raccoglie la memoria di ciò che io e miei compagni eravamo trovo una foto. Napoli, 14 luglio 1990, sala dei Baroni del Maschio Angioino. È Mezzogiorno: ora parliamo noi. Nilde Iotti siede austera e tranquilla tra le altre parlamentari del suo partito. Napoli, l’ultima tappa del Partito per la costruzione della costituente delle donne meridionali. Mi colpì un particolare della compagna Nilde: lo sguardo dolce e divertito rivolto ad un bambino che sgattaiolava sul pavimento della sala sfuggito dalle braccia di una giovane mamma.
Ricordi belli, suppongo. La voce calma e sicura mi arriva alle spalle. Ho un sussulto mentre prende una sedia impolverata per accostarsi alla scrivania dove ho preso posto e su cui sono sparse foto e documenti. La guardo con curiosità e ammirazione insieme. La aspettavo da tanto per poterle parlare. Un colloquio intimo e disteso, tante le cose da chiederle. Leonilde Iotti è davanti a me.
Intanto resta il contributo apportato alla stesura della nostra Costituzione, nata sulle macerie di una guerra e di una dittatura dolorose, che è l’espressione più grande dell’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo che ancora oggi vanno tutelati e difesi dall’oblio di quanti sono pronti a ignorarli non riconoscendoli in chi è diverso per razza, cultura, credo religioso. Il principio di eguaglianza è quello che a me sta particolarmente a cuore perché è la sanzione solenne, costituzionale, anche dell’ingresso delle donne nella vita politica, il senso del nostro essere cittadine alla pari con tutti gli altri cittadini. Per me questo è un punto fermo che fa della Costituzione italiana, ancora adesso, una Costituzione moderna. Il mio partito ha sempre sviluppato la propria lotta sul terreno della democrazia, in nome della difesa e dell’attuazione della Costituzione repubblicana. La democrazia italiana è nata da una vittoria di popolo, non da una sconfitta.
Togliatti, ai tempi della Costituente, ci mandava di sera nelle sezioni del Partito a spiegare gli articoli della Costituzione perché tutti la conoscessero per poter esercitare i diritti e i doveri del cittadino.
Diffondere il Vangelo della Costituzione credo sia ancora oggi importante perché molti dei prìncipi costituzionali rimangono solo sulla carta, come ad esempio quello della parità salariale.
Non bisogna dimenticare il nodo cruciale del lavoro, che è fonte primaria della dignità della persona, e il tema della difesa delle lavoratrici e dei lavoratori che oggi sembra appannato da una visione fortemente liberista in un mondo globalizzato in cui emergono nuove disuguaglianze. Vede, non a caso è stato scritto nell’art. 1 della madre di tutte le nostre leggi che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e nell’articolo 4 che “La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. I diritti vanno estesi, non limitati o addirittura tagliati. Gli ideali vanno calati nella realtà.
Quando nel 1991 con la svolta della Bolognina nacque il Partito Democratico della Sinistra, fu assunto come simbolo del partito una quercia con alla base il simbolo del PCI. Volevamo indicare le radici forti, gli ideali a cui questo nuovo organismo si ispirava, la pratica politica basata sul confronto e il contatto con gli iscritti. Ciò che rimpiango del passato è il fatto che nel vecchio partito si discuteva con grande libertà di tante questioni senza temere le discussioni più accese perché prevaleva un forte spirito di unità. Adesso credo si sia più divisi ed è più difficile trovare sintesi ed unità nel dibattito interno. Inoltre si è corso dietro a modelli di comunicazione che hanno allontanato la base dai vertici politici facendola sentire esclusa dal dibattito o addirittura abbandonata a se stessa, non essendo sufficientemente chiari nell’azione politica.
Fare politica significa soprattutto appassionarsi e trasmettere questa passione, poter dire che dall’inizio alla fine delle nostre battaglie, comunque ci siamo chiamati e qualunque forma abbia assunto la nostra parte politica, abbiamo servito lo Stato e agito per difendere i lavoratori, per garantire la libertà degli individui e la democrazia nel nostro Paese.
Vivevo con grandissimo coinvolgimento e quasi in modo emblematico quel momento, avvertendo in esso un significato profondo, che superava la mia persona e investiva milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si erano aperte la strada verso la loro emancipazione.
Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, ha sempre costituito un motivo di orgoglio della mia vita. Avvertivo inoltre la difficoltà di vivere e operare col Paese, per rispondere ai mille e drammatici problemi dell’economia e dei lavoratori, nelle fabbriche e nelle campagne, dei giovani, delle donne, della pubblica amministrazione, della scuola, della magistratura, delle forze armate e delle forze dell’ordine, dei pensionati. Il Parlamento, questo altissimo strumento di democrazia, che non può e non deve essere superato dai tempi- doveva e deve riuscire a guidare il processo di crescita diventando iniziativa, stimolo, confronto e incontro delle volontà politiche del Paese assolvendo in questo modo la sua altissima funzione di guida.
Il destino della nazione dipende dalla capacità della gente di organizzarsi e di agire collettivamente sotto la guida di una classe dirigente che deve sempre mostrare senso di responsabilità e senso dello Stato. Dalla pandemia mi auguro possa venire la costruzione di un sentimento di pace, di equità, solidarietà perché questo evento ci ha fatto riflettere sulle nostre vite fragili e interconnesse.
Non ci si salva da soli e in determinati momenti bisogna necessariamente mettere da parte gli individualismi.
Nei grandi momenti di crisi nel mio partito si era soliti accantonare gli interessi di parte per concorrere alla salvezza e al benessere dell’Italia. Voglio ad esempio ricordare quando nel 1976 nacque il cosiddetto “governo monocolore di solidarietà nazionale”, o governo della “non sfiducia”, grazie alla formula della non opposizione da parte del Pci di Enrico Berlinguer all’indomani di un grande successo delle forze di sinistra nelle amministrative dell’anno prima, tanto che il sorpasso del PCI ai danni della DC sembrava a portata di mano. Ma si era nel pieno degli anni di piombo, in un anno di grave difficoltà politica e sociale e c’era in ballo la tenuta della democrazia e la difesa delle istituzioni. Per questo Berlinguer caldeggiò l’ipotesi della rinascita della coalizione antifascista e la creazione di un di un governo di “unità democratica” per fronteggiare il momento di crisi gravissima. A chi si misura oggi con l’attività politica vorrei ricordare che la Politica è l’arte più alta che si possa esercitare perché il fine è quello di organizzare una società in cui gli uomini possano vivere bene. Impegno, conoscenza e competenza sono fondamentali per chi vuole esercitare tale arte nobile che non può e non deve mai scadere nella volgarità. Vede, negli anni Novanta quando ci fu Tangentopoli secondo me il guasto più grave che venne prodotto fu quello di far ricadere sui cittadini il sospetto, anzi in quel caso la certezza, che non ci sia onestà in chi dirige lo Stato.
L’avanzata italiana verso il socialismo, così come spiegò Togliatti nell’VIII Congresso del 1956 all’indomani dei dolorosi fatti d’Ungheria, doveva essere realizzata dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche politiche, nazionali e culturali di ciascun paese. In luogo di un lungo blocco monolitico di Stati socialisti doveva avvenire il riconoscimento del principio delle diverse vie di sviluppo del socialismo.
La presa del potere si sarebbe quindi dovuta sviluppare in Italia in forme democratiche non violente e valendosi dell’attività parlamentare per la realizzazione di riforme strutturali del sistema economico e sociale previste dalla Costituzione.
Questa ha sempre costituito per me una sintesi mirabile e il senso del mio agire politico e la strenua difesa del parlamentarismo. Per quanto riguarda poi la mia scelta di campo, i fatti dell’otto settembre del 1943- con l’armistizio di resa incondizionata agli Alleati che fece dell’Italia un Paese diviso, con al sud gli americani e al nord i tedeschi, mi fecero riflettere sul fatto che l’Italia rimaneva comunque un paese interamente occupato dagli stranieri, anche se gli Stati Uniti erano venuti per prestare aiuto. La nazione andava liberata e ricostruita per essere in grado di decidere del proprio destino politico. Per questo mi avvicinai al PCI e partecipai alla Resistenza svolgendo all’inizio la funzione di staffetta porta-ordini e successivamente aderendo ai Gruppi di difesa della donna. Ricordo distintamente quando ascoltai per la prima volta a Radio Londra la voce gracchiante di Ercoli, il nome di battaglia di Togliatti, che annunciava la svolta di Salerno. Un Togliatti “totus politicus” quello della svolta di Salerno , come lo definì Benedetto Croce.
Tutto questo non onora la tradizione democratica di un grande Paese e soprattutto per me è inimmaginabile che un presidente, che è uomo delle istituzioni, possa favorire episodi così gravi che hanno il sapore di un colpo di stato. A questo proposito ricordo quando nel 1984 ci fu un aspro scontro in Italia sul costo del lavoro e sulla scala mobile e Craxi definì il parlamento “un parco buoi”. La replica del mondo politico e la mia, come presidente della camera, fu durissima e Berlinguer parlò di emergenza democratica. Le parole hanno un peso e bisogna sentire la responsabilità della parola. Mai avrei pensato di assistere ad uno spettacolo come quello che ha coinvolto il parlamento americano.
Di fronte al populismo dilagante bisogna ribadire con forza la dignità delle istituzioni, e questo spetta soprattutto agli uomini e alle donne che le rappresentano chiamati ad avere quei comportamenti esemplari che il ruolo richiede.
Negli anni in cui conobbi Togliatti e iniziò la nostra storia, c’era una cosa terribile nei partiti comunisti usciti da lunghi anni di clandestinità: la cultura del sospetto. Sul mio rapporto con “il Migliore” pesavano il sospetto e il clima dello scandalo in quanto compagna di vita del “capo” senza esserne la moglie. L’etica puritano-proletaria del partito rumoreggiava. Qualcuno mi accusò addirittura di essere una spia di De Gasperi. Lui di questo era addolorato ma riusciva ad infischiarsene e ad andare avanti. Il nostro era un legame troppo forte per poter tornare indietro. Ho sopportato con fermezza le molte diffidenze, a volte le umiliazioni cui sono stata sottoposta per questo amore. Una volta Giorgio Amendola, che pure si era schierato coraggiosamente a difesa della nostra relazione irregolare contro gli umori del partito, mi diede un consiglio irricevibile. Mi disse: “Dovresti dedicarti di più a lui, lasciare il lavoro politico...” Gli risposi: “Non credo che Togliatti potrebbe amare una Iotti casalinga". Per me la separazione tra i sessi era caduta sotto l’incalzare dei bombardamenti e con il mio compagno condividevo la passione per la politica alla quale non avrei mai rinunciato, neanche per il suo amore.
Difficile ma vero. Una volta mi scrisse “sei come una striscia di sole in una stanza buia”. Quando ci conoscemmo nei corridoi di Montecitorio nel 1946 mi confessò di aver avvertito una vertigine davanti a un abisso, di aver seguito un impulso più forte della sua volontà. Io ero sgomenta per questo mio sentimento per un uomo pubblico importante e sposato. La nostra storia venne alla luce del sole due anni dopo, nel 1948, quando durante l’attentato di cui Togliatti fu vittima mi venne naturale fargli da scudo. Il nostro amore clandestino aveva vissuto sino ad allora nascosto in un sottotetto di Botteghe Oscure.
Ho sempre protetto, coltivato e difeso il nostro legame e il nostro sentimento che ha sfidato la morale e la politica e si è inchinato solo davanti alla morte.
In occasione del funerale di Togliatti questo amore contrastato venne finalmente riconosciuto dal partito che mi concesse di accompagnare il mio compagno nel suo ultimo viaggio, sotto gli occhi di tutti, per rinnovargli ancora la mia promessa d’amore.
Con profonda emozione scendo le scale della vecchia sezione del PCI di un paesino qualunque del Sud. La porta si chiude definitivamente alle mie spalle.
Mi aggiro al primo piano della Biblioteca nazionale di Napoli in cerca della sala che ospita la sezione leopardiana ma ogni tentativo pare vada stranamente a vuoto. Tra i denti considero che questo 2020 è un anno terribile: mi ci sono volute settimane a causa della pandemia da Covid per avere il permesso di consultare i manoscritti del poeta recanatese. Un uomo di statura bassa, esile, dal colorito pallido stagliato su un viso dall’espressione dolce e vagamente malinconica mi sta seguendo già da un po’ mentre mi aggiro tra le stanze che sono deserte. Infine, con passo incerto, mi si avvicina per rivolgermi la parola. Indossa abiti che sanno di antico e un soprabito turchino cerca di nascondere una schiena curva e gobbosa.
Non si faccia il sangue amaro perché sta girando a vuoto. È un anno andato storto questo, ma le assicuro che gli anni difficili ci sono sempre stati. Pensi che l’ultimo Natale della mia vita l’ho trascorso qui a Napoli, quando nel 1836 la città fu colpita dal colera e comunque non ho mai rinunciato al lato dolce della vita. Gelati, sorbetti, confetti e altre squisitezze partenopee mi hanno sempre accompagnato, anche nei momenti più difficili. Eppure si parlò di quasi trentamila vittime alla fine dell’epidemia. All'inizio il morbo fu accolto con il solito atteggiamento negazionista-minimalista e nei primi giorni i ricchi, per vie corruttive, nascosero i loro morti e falsificarono le cause del decesso in modo da evitare le restrizioni di sanità pubblica che avevano vietato le sepolture nelle cappelle gentilizie e nei cimiteri delle chiese.
Quindi, coraggio e in alto i cuori!
Improvvisamente credo di avere le allucinazioni. Forse sarà l’ansia e la stanchezza che mi accompagnano già da un po’ ma penso di essere in presenza di uno spirito. Lo guardo meglio. È lui, Leopardi in persona, tale e quale a come lo avevo sempre visto e immaginato attraverso i libri. Fortunatamente ci sono due sedie nel disimpegno per l’accesso ad una sala della biblioteca. Io svengo quasi su una delle due sedute mentre il poeta si accomoda con grazia sull’altra, la schiena curva che avvicina il suo viso al mio.
Capisco. Ancora la storia del pessimismo di cui io sarei l’emblema letterario e filosofico per eccellenza! Le confesso, cara signora, di non essere troppo contento di essere stato etichettato in tal modo da studiosi e critici. Non era questo il mio intento, le assicuro. Pensi che mi trasferii a Napoli dal mio amico Ranieri per il suo clima dolce e l’indole amabile e benevola dei suoi abitanti, la vitalità il vigore del suo popolo. Insomma, per la voglia di vita. Ritenendo di buon auspicio la mia gobba, molti napoletani solevano talvolta chiedermi dei numeri vincenti al lotto. Cosa che facevo volentieri divertendomi, talvolta consultandomi con Pasquale, un mio amico che faceva il cuoco.
Forse la felicità non mi era destinata, ma non ho mai smesso di cercarla. Le sembra questo l’atteggiamento di un pessimista?
In tutta sincerità confesso di aver trasferito spesso nelle mie opere la tristezza e il rammarico dovuta al mio vissuto personale, che è talmente conosciuto che non sto qui a soffermarmi oltre. Ma da qui a farne un sistema filosofico fondato sul pessimismo ce ne vuole! A questo proposito, ho letto da più parti che quando nel 1824 composi a Recanati il nucleo più consistente delle Operette morali avvenne in me una specie di svolta nella concezione della natura, tanto da apparire questa la principale colpevole dell’infelicità umana. È quello che la critica ha definito l’approdo del pessimismo storico -che reputava l’uomo e la ragione colpevoli dell’umana infelicità- al pessimismo cosmico, categorie che non ho mai espressamente citato nei miei scritti e che probabilmente sono state inventate ad uso scolastico. Insomma dal 1824 in poi la natura per me avrebbe coinciso con un’immagine matrigna, violenta, aggressiva, dominatrice, distruttiva.
Io vorrei dire invece che nelle mie opere- dallo Zibaldone, ai Canti alle Operette Morali- descrivo sempre una natura pulsante, legata al ritmo delle stagioni, di distruzione e rinascita, di una vita imperfetta in cui il desiderio si accende e probabilmente non sarà appagato dal piacere, ma ci rende vivi anche nel dolore. Un desiderio aperto, perché apre alla vita.
La ragione certo ci aiuta a tenere i piedi per terra, è capace di svelare le contraddizioni del reale, ci rende consapevoli della nostra condizione e ci libera dalle false credenze, dalla risibile superbia di chi si crede misura e fine dell’universo, e anche dall’umiliazione di chi implora una pietà che ci è necessariamente negata, dandoci la dignità della consapevolezza.
Sono un convinto materialista. L’uomo è corporeità e singolarità del vivente in rapporto con gli altri viventi.
La civiltà è spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo. La civiltà, progredendo, scorpora, astrae, si fonda sull’anonimato, il conformismo, le ideologie. La massa” è una parola moderna leggiadrissima che elimina l’unicità di ogni essere umano. E invece, le ripeto, la natura vivente è lì con la sua singolarità pulsante e desiderante, pur in rapporto con l’universo. Il desiderio nasce e muore con l’uomo, è il suo respiro. Ciò che è naturale è caduto nell’oblio. Mi chiedo come farete voi moderni, pronti a credere nel significato salvifico del progresso, a recuperare il rapporto con la natura che, a quanto sembra, avete già notevolmente compromesso.
Credo vi farebbe un gran bene praticare la poesia, una poesia prossima alla natura, come quella degli antichi.
Qualsiasi disgrazia, il giorno dopo non è che storia antica. Ha letto il mio “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”?
Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.
]]>Le auguro comunque di essere come una ginestra, capace di vivere e rinascere in terreni aridi e ostili con un’esplosione di fiori gialli dal profumo assai intenso. Affronti con coraggio l’anno che verrà e scommetta ancora sulla solidale compagnia degli umani che, per quanto imperfetti, possono aiutarla nel percorso della fatica della vita. Insieme il nuovo anno sarà di certo migliore.
Intervista di Gioconda Fappiano
A Napoli “La Scarabattola”, bottega d’arte nata nella seconda metà degli anni Novanta dal lavoro e dalle idee dei fratelli Salvatore, Emanuele e Raffaele Scuotto, rappresenta un’eccellenza nel campo dell’arte presepiale, ma non solo, muovendosi tra gli aspetti folcloristici della cultura partenopea e l’esigenza di scardinarne i luoghi comuni. Ne parliamo con Raffaele Scuotto.
Cominciamo dal nome “La Scarabattola”, un mobile - vetrina che contiene e protegge un presepe, una scelta questa del nome nel segno della tradizione che la vostra bottega artigianale continua però ad innovare.
Ciò che è antico nasce da intuizioni straordinariamente contemporanee nel proprio tempo. La tradizione è stata sempre alimentata dalla sua capacità di rinnovarsi quindi il presepe nel Settecento napoletano è stato qualcosa di magnifico per la grandissima genialità e la modernità espressa.
Se noi dovessimo continuare a fare solo quello che è stato già fatto, cimentandoci in un manierismo di ripetizione, non faremmo realmente tradizione.
Solo proseguendo nel raccontare un percorso umano nelle sue sfaccettature più moderne continueremo a muoverci su un percorso storico-tradizionale nel vero senso della parola, essendo così moderni quanto lo sono stati gli artisti del passato.
Secondo il nostro punto di vista è più corretto parlare di simboli. Il soggetto inteso come rappresentazione di un fenomeno complessivo è quello che c’interessa.
Se invece di rappresentare i femminielli, ad esempio, avessimo rappresentato Vladimir Luxuria, noi avremmo creato una prigione concettuale intorno ad un personaggio senza liberarne i valori universali. La donna che era intenta a lavarsi nell’intimità della sua casa fu vista come una profanazione del presepe.
Il paradosso è che la donna ritratta nella sua intimità fu additata come peccatrice, ma non l’occhio che spiava quell’intimità e che additava il peccato là dove non c’era.
La nostra in realtà fu una provocazione che oggi si riesce meglio a comprendere data la popolarità di certe trasmissioni televisive tipo il Grande Fratello o di certi social network in cui si è pronti a spiare per cercare un colpevole, individuare il peccato pur di nascondere il proprio.
Se c’era qualcosa di peccaminoso in quel presepe allestito nel 2005 quello era da scovare proprio nello sguardo spione, nel prurito voyeuristico pronto a proiettare il proprio peccato sugli altri.
Due sono le categorie che possono realizzare i presepi. Una è quella degli autori che hanno un’intuizione legata al proprio essere anche artisti e alla conoscenza a tutto tondo del mondo dell’arte che li ispira, oltre chiaramente all’esperienza artigianale. Io, Raffaele Scuotto per La Scarabattola mi occupo principalmente di gestione e management mentre i miei fratelli, Salvatore ed Emanuele, sono due firme, due scultori che si interrogano su tutti i linguaggi dell’arte. Questo permette loro di avere delle intuizioni che possono essere utilizzate per il presepe. Inoltre c’è un continuo interrogarsi su quello che può essere il presepe oggi, su quello che è stato per il Settecento e su quello che non poteva essere. In una mostra dal titolo “Il mondo sospeso” ci siamo interrogati sulle presenze e le assenze del presepe napoletano, sui suoi vuoti, su quello che c’era e che non poteva esserci, sulle sue possibili contaminazioni con la contemporaneità. Ad esempio parlare oggi di omosessualità è un fatto del tutto normale, ma nel passato gli autori non potevano arrivare alla rappresentazione e allo sdoganamento della diversità nell’arte presepiale.
L’ambizione della nostra bottega è stata sempre quella di creare un solco nuovo, uno spazio dove poter intervenire liberamente con la nostra poetica dell’argilla in quanto ci confrontiamo con una strada, quella di San Gregorio Armeno, che è ricca di artigiani che operano nel settore da diverse generazioni , un mondo ben collaudato da tanto tempo.
Più che metterci in concorrenza con questa realtà abbiamo cercato di intervenire con il nostro pensiero e la nostra sensibilità introducendo talvolta elementi di rottura con una continuità troppo spesso oleografica e poco innovativa.
Molti ci vedono fra questi ma noi non sapremmo darci un titolo. Siamo impegnati nel fare bene il nostro lavoro e con molto orgoglio possiamo dire che la scelta da parte dei committenti da lei citati è venuta da concorsi cui abbiamo partecipato e siamo stati giudicati da commissioni scientifiche che ci hanno apprezzato fino in fondo, hanno premiato la fusione tra l’Arte e l’Artigianato, tra il pensiero e il fare espressa dalla nostra bottega. Noi non siamo i più bravi, siamo forse tra i più bravi, ma soprattutto siamo quelli che esplorano nuove possibilità, fanno ricerca alternativa. In questo momento ad esempio, stiamo lavorando con Antonio Aricò, uno dei designer più apprezzati a livello internazionale- che lavora per l’Alessi, per il Mulino Bianco, tanto per citare qualcuna delle aziende con cui collabora- muovendoci in un ambito molto diverso da quello del presepe. Ci siamo incontrati e abbiamo sviluppato un prototipo di angelo per il quale utilizzeremo delle contaminazioni cromatiche del design moderno. Questo prototipo, che dovrà uscire a breve, e la successiva produzione di angeli da design, rappresenta per noi un’ulteriore opportunità di lavoro non strettamente legata al periodo natalizio e su cui lavorare in altri momenti dell’anno, dando ossigeno al nostro settore. Chiaramente dobbiamo attendere il nuovo anno visto che la filiera attualmente è ferma a causa della pandemia.
Nessuno può dirsi esente dai contraccolpi determinati dalla pandemia da Covid però devo dire che ci siamo celermente organizzati sfruttando i canali dell’e-commerce e possiamo ritenerci abbastanza soddisfatti. Devo dire che la nostra reputazione ci ha salvato in quanto ci hanno contattato comunque da diverse parti del mondo. Riguardo alle vendite legate alla stagione natalizia non dico che le abbiamo salvate del tutto, ma ci siamo difesi molto bene. Quello che ci ha pesato maggiormente dal punto di vista economico-aziendale sono stati i due mesi e mezzo di blocco totale che hanno visto i nostri laboratori fermi e quindi si è fermata la produzione.
In quello che creiamo siamo sempre molto attenti a non cadere nello stereotipo, anche nella rappresentazione dei personaggi simbolo della città. Ultimamente ad esempio abbia creato un “Pulcibastiano”, cioè un Pulcinella trafitto da dolori antichi e nuovi, un Pulcinella vittima delle scaramanzie che cerca di divincolarsi fisicamente dal corno, simbolo della fortuna. A volte siamo talmente ancorati alla superstizione che facciamo delle scelte folli pur di perseverare su questa strada battuta o addirittura per questo rischiamo di bloccarci nel fare altre cose.
E’ vero che è difficile dimenticare l’impianto esoterico della nostra città e neanche dobbiamo ignorarlo o trattarlo con spocchia, ma dobbiamo sforzarci anche di non esserne prigionieri.
Ad esempio nella realizzazione del Pulcinella che esce dall’uovo di Virgilio, abbiamo voluto tirare questo oggetto fuori dal luogo in cui questo è nascosto perché potesse essere conosciuto, perché questo contenitore di valori non diventasse testimonianza pietrificata nella leggenda e quindi sterile. Con coraggio invece abbiamo deciso di rompere il guscio di quest’uovo per tirarne fuori il pulcino- Pulcinella per l’appunto- affinché i valori di rinascita che esso rappresenta vengano esercitati.
La Scarabattola ha collaborato anche con il Rione Sanità, un quartiere difficile che è risorto grazie a delle iniziative pregevoli, apportando un contributo significativo. Non a caso avete resuscitato il personaggio di Peppeniello, un paggetto del quartiere che fa bella mostra in un presepe grazie alla vostra arte.
Nel 2018 abbiamo focalizzato l’attenzione sul Rione Sanità inserendolo in un presepe e realizzando la statuina di un paggetto nano spuntato fuori da un affresco restaurato nella chiesa principale del Rione collocandolo nella scena della Natività. Il quartiere ha poi simpaticamente chiamato Peppeniello questo paggetto. I miei fratelli Salvatore e Emanuele hanno anche speso energie e tempo per organizzare una mostra nelle catacombe di San Gennaro per dare una mano a questo quartiere. Parliamo del 2014 con l’evento “Paleocontemporanea”. Nel nostro piccolo diamo il nostro contributo nel sociale quando e come possiamo.
In primo luogo sarebbe necessario non confondere il folklore con il malcostume, capire la differenza che passa tra i comportamenti folcloristici legati alla tradizione territoriale, allo spirito allegro che ci distingue come napoletani, e i comportamenti sregolati e contrari alla legge. Napoli non deve essere etichettata come una città non abituata a rispettare le regole. Inoltre le regole non tolgono nulla alla nostra creatività, al nostro essere artisti in diversi campi e la fama ottenuta nel mondo da tanti napoletani non può essere offuscata e mortificata da comportamenti sguaiati che nulla hanno a che vedere con la napoletanità. Anche per quanto riguarda l’occupazione degli spazi pubblici e la tutela degli arredi urbani andrebbe fatto un discorso di attenzione e di tutela che gioverebbe a tutti. Inoltre a fronte del grosso proliferare di strutture ricettive e ristorative come bar, ristoranti, bed and breakfast, quasi nulla viene fatto per creare degli spazi protetti per le attività artigianali e artistiche, per la creazione di un Brand Napoli che richiederebbe il concorso di idee anche da parte di soggetti culturali qualificati come l’Accademia di Belle Arti o le Università. Il lavoro da fare è molto complesso, richiede coraggio ed impegno delle istituzioni, del Comune, della Regione, che certo farebbero meglio se lavorassero in sinergia per una città complessa come la nostra piuttosto che litigare, mostrando in tal modo più senso istituzionale. Inoltre purtroppo a Napoli vediamo una borghesia arroccata nei suoi palazzi e una governance cittadina molto spesso improvvisata. Il che certo non giova a nessuno.
Più che una parola dovremmo ricordare un antico detto napoletano che recita “O’ napulitan s’fa sicc ma nun more!”, cioè i napoletani hanno trovato sempre il modo di superare scogli importanti con la loro inventiva, guardando le cose da un punto di vista nuovo, continuando a lavorare e a darci dentro e, anche quando la situazione è buia, vedendo sempre il bicchiere mezzo pieno. Siamo un popolo da sempre capace di resilienza.
Photo: www.lascarabattola.itNato a Singapore da madre per metà malesiana e per metà britannica e da padre pugliesi, Riccardo Schirinzi in arte Charlie Davoli è un fotografo e artista che ricorda ed evoca tante cose. Evoca De Chirico, Magritte, Warhol e in una chiave meno apocalittica anche David Mach. Le sue rappresentazioni hanno un andamento surrealista, fluttuante e svincolano il reale dalle categorie mentali a cui siamo abituati. Treni che volano, uomini che nuotano nei cieli delle città, metropolitane invase di verde e popolosi villaggi sovralunari con bagnanti coricati sulle nuvole alla ricerca della tintarella perfetta.
Nel mondo di Charlie terra e cielo sono invertiti e il concetto stesso di gravità diventa relativo. Paradossi, parentesi surreali e paesaggi onirici possibili grazie ad una personalissima immaginazione e programmi di editing come PsTouch, iDesign, Superimpose, MatterApp e Mextures. L'abbiamo intervistato per capire come sta vivendo questo periodo.
Oggi il termine “surrealista” potrebbe suonare anacronistico. Per convenzione, certamente, viene piû facile collocare stili o tendenze all’interno di quelle conosciute e storicizzate piuttosto che definirne di nuove. Credo, nonostante tutto, che una matrice comune esista tra l’espressione visiva attuale e quelli che furono i principi del movimento artistico dei primi 900 ovvero la critica radicale alla razionalità cosciente, attraverso una ribellione alle convenzioni culturali e sociali.
Dico spesso che mi piace ironizzare sulla realtà attraverso la fotografia, alterando lo schema visivo, invertendo le leggi della fisica, capovolgendo significati e concetti, deprivandoli di quelle che sono le accezioni convenzionali. Tutto questo con lo scopo di creare giochi di incastri visivi, volti ad innescare un’epifania, un risveglio delle coscienze purtroppo intorpidite in una condizione di esistenza stereotipata, priva di alcun atteggiamento critico.
Nuotare in un solido, poter camminare su corpo liquido, rendere tangibile un elemento gassoso, sono tutti paradossi che la scienza definirebbe impossibili in natura, ma che per me non sono altro che spunto da cui partire per creare mondi surreali.
Ciò che è convenzionale, spesso è frutto di un percorso empirico, altre volte è frutto di un’imposizione, ebbene è in quest’ultimo caso che si assimilano passivamente le informazioni. Viviamo in una società complessa, consumistica e allo stesso tempo multimediale e iperconnessa, in cui l'individuo si ripete in uomo massa, in uomo moltiplicato. Come si arriva a questa standardizzazione? Osannando gli stessi idoli, per esempio, o guardando le stesse cose o pensando allo stesso modo o mangiando la stessa minestra, tutti.
Mi piacerebbe essere ottimista, pensando che l’arte in qualche maniera, potrà un giorno innescare la scintilla in grado di risvegliare le menti sopite. Mi rendo conto purtroppo che, in secoli e secoli di storia dell’umanità, nonostante gli innumerevoli capolavori artistici così immensi da sfiorare persino il divino, l’essere umano non ha mai smesso di anteporre il proprio ego allo spirito, manifestando di essere capace sempre di comportamenti contorti e irrazionali.
Questi mesi di stop, personalmente, non hanno granché cambiato le mie abitudini, già poco inclini alla socialità. In questo rallentamento mi sono curato poco di spremere a tutti i costi la parte creativa, preferendo di gran lunga la rigenerazione della mia dimensione domestica, permettendomi di vivere con lentezza gli affetti in casa, di dedicarmi alla cura del verde o godendomi, in tutta tranquillità, un buon film con mia moglie accompagnato da buon rosso.
L’attenzione, nelle mie ultime raccolte, è rivolta all’essere umano a volte incurante di qualsiasi conseguenza generata dalle sue azioni e, allo stesso tempo, privo di qualsivoglia cura e rispetto verso tutto ciò che gli è intorno, inclusi i propri simili. A questa prepotente manifestazione del genere umano si contrappone la natura, con la sua presenza, passami l’ossimoro, “innaturale” dopo tutti gli abusi subiti.
Tutto questo accade sotto i nostri occhi incapaci di guardare oltre il misero tornaconto personale, occhi assuefatti a uno scenario così truce da percepirlo come “normale” e “necessario”. Mi piacerebbe pensare che possa esistere un modo per prendere coscienza di tutto questo. Sarebbe bello se, da qualche parte dentro di noi, ci fosse un tasto RESET.
Le opere su www.charliedavoli.com
Intervista immaginaria di Gioconda Fappiano
Piccole Donne. Mi siedo in platea e attendo che il film cominci. Ne ho visto diverse versioni, ma questa dicono sia particolarmente interessante. Sono trascorsi buoni dieci minuti, quando una donna ossuta e tutta nervi arriva affannata e mi si siede accanto nella sala buia e attenta. Ha una Moleskine tra le mani e tra una sequenza e l’altra prende appunti accompagnandoli a cenni di approvazione o di reprimenda. Ogni tanto mi scopro a guardarla. Ha qualcosa di familiare. Soprattutto i capelli lunghi e l’aspetto informale dei vestiti mi ricordano qualcuno. E’ la copia sputata di Jo March, la stessa delle illustrazioni del libro che mi regalò mia madre quando avevo dieci anni.
E se le dicessi che sono proprio io?
Guarda l’ennesima versione del romanzo dal quale sono nata. Quale migliore occasione per vedermi come mi vedono gli altri? Ti prego, dammi del tu.
Me lo hanno detto in tante, e anche in questa nuova versione cinematografica mi dipingono così. La verità non è proprio questa.
Io non ho mai voluto essere un maschio. Sono sempre stata orgogliosa della mia femminilità, anche se non ho un corpo accogliente e modi accattivanti come quelli di mia sorella Amy, né l’aspirazione assoluta al matrimonio come Meg o la timidezza e la tranquillità della mia amatissima Beth. Ho pianto a dirotto quando ho tagliato i capelli per contribuire alla spese di viaggio di Marmee quando nostro padre rimase ferito nella guerra di secessione. Mi vedevo strana e brutta, come qualsiasi ragazza che vede andare via la cosa più bella che possiede. Essere inquieta e ribelle, avere un’indole indipendente non significa rinunciare ad essere donna. Ho sempre voluto essere donna, ma a modo mio, come pensavo fosse giusto per me. Il punto non è essere maschi o femmine. Il punto è essere liberi. Certo, quando ero più giovane mi piaceva provocare gli altri adottando pose maschili e sognando di fare qualcosa di eroico e meraviglioso tanto da non essere più dimenticata. Avrei voluto, ad esempio, stare in prima linea sul fronte, cosa che oramai fanno normalmente le donne che si arruolano. Ma inorridisco quando sento dire “ Sembra un uomo” se si parla di una donna che fa attività considerate un tempo solo ad appannaggio degli uomini. Per me questa è vera ingiustizia e discriminazione: pensare di dover rinunciare alla propria differenza.
“Cos’è una zitella? Una donna che è ricca e può permettersi di vivere come vuole”. Così ci diceva anche zia March, che preferiva Amy a me, ma non ha esitato a lasciarmi in eredità la sua bellissima casa, forse pensando che non sarei mai riuscita a trovare marito per il mio caratteraccio. Zia March riconduceva un fatto culturale ad un fatto puramente economico. E non sbagliava del tutto. A ben vedere molti dei pregiudizi legati alle differenze di sesso, di razza e di religione sembrano scomparire di colpo se ti trovi di fronte una persona ricca e potente. Quasi sempre il discrimine vero è quello tra ricchezza e povertà. Poi vengono le ideologie, parola oramai desueta. Le donne oggi, come ieri, sono assolutamente capaci di prendere in mano il destino del mondo ma questo ha generato competizione negli uomini che ancora non sono culturalmente preparati alla condivisione del potere. Personalmente ho sempre voluto emanciparmi sia culturalmente che economicamente, ma è anche vero che sono cresciuta in una famiglia aperta ai cambiamenti, con dei genitori che non hanno ostacolato noi ragazze sulla strada dell’autonomia, lasciandoci libere di seguire le nostre inclinazioni. Ognuna di noi sorelle March ha avuto tra le mani la chiave del suo castello in aria con la quale, ciascuna a suo modo, ha aperto la porta del futuro realizzando i propri obiettivi.
Potrei tranquillamente risponderti che il finale di Piccole Donne e Piccole donne crescono lo ha deciso May Alcott, l’autrice, e che pur ribellandomi e recalcitrando ho dovuto accettarlo in nome del finale lieto, e atteso dal pubblico del momento, in cui la donna o si sposa o muore, come abbiamo già detto. Adesso che sono anch’io una scrittrice affermata capisco il motivo che ha portato Louisa a questa scelta. Ma se invece ti rispondessi che ho scelto liberamente di sposarmi per amore? Perché per Jo March si vuole una forma cristallizzata? Ricordo molto bene quando Meg mi annunciò di volersi sposare e io feci di tutto per convincerla a non farlo. Il matrimonio mi sembrava la disgrazia più grande che potesse capitarle, ma lei, con molta calma mi disse: “Il fatto che voglia sposarmi non significa che il mio sogno sia inferiore al tuo”, riferendosi al mio desiderio di diventare una famosa scrittrice. Non ho mai messo da parte la mia libertà, molte volte metto da parte la mia solitudine. L’esperienza, soprattutto quella del dolore, cambia le persone. Quando ho incontrato Fritz ero pronta ad amare, che è diverso dal voler essere amata, come mi era capito con Laurie, il mio Teddy. Poi, se proprio vogliamo dirla tutta la mia è stata una scelta alternativa, poco economicamente ispirata. Ho sposato un emigrato, dalle mani vuote ma dal cervello pieno, un uomo che non ha avuto paura di dirmi la verità su me stessa, bella o brutta che fosse, e che ha condiviso il mio sogno di fondare una scuola. Adesso la gestiamo insieme e l’aiuto di Fritz mi permette di conciliare il mio lavoro d’insegnate con quello di scrittrice. Adesso che finalmente sto girando l’Europa, ad esempio, sono tranquilla di aver lasciato la mia scuola di Plumfield in buone mani. Ho realizzato il progetto di un istituto sperimentale, anche per Piccoli Uomini, cosa che mio padre non è mai riuscito a realizzare.
Come siamo intransigenti! Non ho mai chiuso gli occhi davanti ai difetti di Teddy, anche se forse in parte costituiscono parte del suo fascino disarmante. Laurie è stato il più grande amore della mia giovinezza, compagno di giochi e di belle speranze. Il suo sogno è sempre stato quello di girare il mondo fino ad esserne sazio, di stabilirsi in Germania e di diventare un grande musicista. Ha sempre voluto aver a che fare poco con affari e denaro. Di lui ho amato la fragilità, nascosta dietro la facciata del ragazzo ricco e viziato, l’uomo in cerca di continue conferme e rassicurazioni. Tra noi due sono sempre stata io la più forte. Come coppia non avrebbe funzionato: lui voleva una donna accogliente che si prendesse cura di lui; io invece volevo un uomo che mi tenesse testa. Inoltre siamo entrambi egocentrici e con la testa dura. Per questo l’ho mollato e sono fuggita a New York per cominciare la mia carriera. All’inizio non l’ha presa bene ed è andato a sollazzarsi in Europa, dove però ha incontrato mia sorella. La scelta di Amy come moglie, arrivata come un fulmine a ciel sereno lasciandomi attonita e con un retrogusto amaro in bocca, alla fine si è rivelata una scelta vincente. Entrambi hanno ottenuto quello che volevano: Amy un matrimonio ricco, Teddy una moglie capace di accudirlo e di stargli un passo indietro.
In un percorso di crescita c’è sempre qualcosa che dobbiamo lasciare indietro e nuovi carichi da assumere sulle spalle. Spesso questo risulta doloroso, per quanto necessario. Mio padre amava fare riferimento all’allegoria del viaggio del pellegrino che con il suo fardello sulle spalle ( pregi e difetti) passa dalla Città della Perdizione (ossia la cruda realtà) alla città Celeste, dove si raggiungono i propri obiettivi ed il completamento della maturazione. Amy, diversissima da me, ha rinunciato al suo sogno di diventare pittrice perché priva di genialità, ma mi ha portato via Teddy che, nonostante tutto, continuo teneramente ad amare. Io invece ho dovuto mettere da parte il mio orgoglio ed ho imparato ad accettare quello che non posso cambiare. La perdita più devastante è stata quella di Beth, la migliore di tutte noi March. Ciò nonostante, nessuno potrà mai toglierci il piacere dei ricordi e l’affetto riposto negli angoli più nascosti del nostro cuore non ci abbandonerà mai.
Lo so bene e la cosa mi lusinga molto, ma ultimamente si legge troppo poco. Per questo ho deciso di prendermi un anno di libertà e di andare in giro con un Camper pieno di testi, talvolta dimenticati, da leggere in pubblico e distribuire gratuitamente. So bene che è una forma artigianale e fuori moda di diffusione del libro, ma niente fa più bene del contatto diretto con la gente. I racconti letti e ascoltati durante l’infanzia sono quelli che hanno maggiormente sviluppato la mia fantasia e l’amore per scrittura. La cosa in sé poi mi diverte e mi fa sentire particolarmente libera. Mi sono sempre sentita un po’ nomade.
Che idea originale! Finalmente una bambola che ama leggere. Un bel segnale per tante donne. Spero di trovarmi dalle vostre parti quando sarà pronta. Ne voglio assolutamente un prototipo. Magari per l’occasione potrei venire dalle vostre parti con il mio camper pieno di libri a raccontarvi una delle mie storie.
Gioconda Fappiano
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Immaginate un mondo senza scrittori e giornali, un Decalogo governativo che vieta la lettura, di vedere i morti e di amare senza scopo, una Napoli distopica che fa da sfondo alle avventure di due ragazze adolescenti, Help e Farenàit, che rubano una cassa da morto per spiare un vero cadavere, ma scoprono che la bara è piena di romanzi. “Non leggerai”, l’ultimo lavoro di Antonella Cilento, affronta il tema del “contagio” della lettura destinata a morire se considerata un obbligo scolastico, e che tornerebbe in auge paradossalmente solo se vietata. Un romanzo destinato ad un pubblico “young adult” che fingendo di parlare di un futuro lontano, ci mette di fronte alla cruda realtà dei nostri giorni.
L’idea di Non leggerai si agitava in me ancora in nuce diversi mesi prima che mi fosse chiesto di inaugurare la collana ARYA di Giunti. All’ennesima domanda di un quotidiano che m’interrogava su cosa fare per far leggere di più i libri avevo risposto: vietiamoli. Il paradosso nasceva dall’evidenza che facciamo assai più volentieri quel che ci viene impedito o vietato e che si sta rispondendo all’emergenza lettura, o alla trasformazione dell’atto di leggere, con metodici allopatici, come se si dovesse per forza somministrare a intere generazioni un antibiotico. Leggere è un atto trasgressivo, se ripetiamo a chi non lo compie di farlo perché gli farà bene di certo lo eviterà. I libri non sono pillole, sono desideri segreti e a volte ignoti. Così, in risposta alla domanda dell’editore che voleva inaugurare con autori italiani una collana rivolta ai lettori giovani, che di solito consumano fantasy tradotto dall’inglese, ho immaginato Non leggerai.
Nel mondo neo-napoletano o distopico-napoletano del romanzo, gli adulti per primi hanno lasciato svanire lettura e libri con indifferenza dalle loro vite e dunque le nuove generazioni si trovano a vivere in un mondo sfornito di parole scritte. A Napoli, da sempre faro di ogni emergenza nazionale e oleografia del male, è facile immaginare un’avventura fuori dalle regole, come quella delle giovanissime Help e Farenàit: è la città dove da sempre l’emergenza bambini è stata affrontata dalle scrittrici (da Serao a Ortese a Ramondino) ma è anche la città dove sono ambientati quasi tutti i miei romanzi, il luogo da cui sorge la mia immaginazione. Insomma, una mia Napoli, più che quella reale dove abito e lavoro.
I romanzi distopici sono sempre state fotografie alterate del presente: distopia e fantastico si usano quando il presente è indicibile, invisibile o troppo visto (quindi non visto) come accade oggi. Bulgakov scrive Il Maestro e Margherita perché non può dire direttamente che lo stalinismo è una follia (e perché così è messa in berlina l’intera follia umana), Orwell dice la sua Inghilterra e così anche Bradbury parla del suo tempo. Oggi siamo immersi e anche anticipati dalla realtà funzionale di Non leggerai: mentre scrivevo il romanzo sono nati i master e poi i corsi universitari per diventare influencer. Il mondo è già cambiato, bisogna evitare di subire passivamente la rivoluzione tecnologica e cavalcarla in direzione critica ed emozionale.
I ragazzi leggono moltissimo, per paradosso, ma bisogna sintonizzarsi su bisogni nuovi che spesso ne nascondono di molto antichi
Ho assistito alla scomparsa delle librerie nelle case degli studenti che incontravo a Sud e poi a Nord negli ultimi vent’anni, tanto che ne parlavo con largo anticipo in un libro di parecchi anni fa’, Asino chi legge (Guanda). Un oggetto d’arredo che non contiene più materia in uso svanisce. Avere i libri in casa rappresentava uno status in Italia fino agli anni Ottanta: vedevi enciclopedie, magari mai sfogliate, e volumi di classici anche negli studi medici, in casa dei primari. Oggi anche il più specializzato dei medici, proprio perché è così specializzato, non ha in casa un libro che non riguardi il suo mestiere, figuriamoci quindi le case dei ragazzi con genitori che non svolgono mestieri collegati alla parola scritta. Nel frattempo, leggiamo su pc (ma è già un oggetto per anziani), su cellulare: i device hanno preso il posto della carta stampata ordinaria. E tuttavia ogni volta che i ragazzi o gli adulti scoprono un libro poi lo vogliono di carta. Il feticcio non può essere sostituito. Non riusciamo a sognare e avere paura allo stesso modo con un testo liquido, che brilla su uno schermo. Infatti l’atteso mercato virtuale del libro non è affatto decollato come previsto. Leggono su supporti più gli adulti che i ragazzi. Il libro che mi fatto sognare è un segreto, è solo mio, sta stropicciato nella mia borsa o nella mia stanza, non può essere un file come le letture che faccio per forza, per compito.
Lo è sempre stato, sin dall’antichità. Bruciano i libri da millenni (o i manoscritti, o le biblioteche, quale che sia il supporto usato). Se necessario, si spaccano le tavolette siglate in scrittura cuneiforme quando si abbattono le civiltà. Leggere significa rendersi liberi e pensanti o liberi e sognanti, in ogni caso si sfugge al controllo del potere, si pongono le basi per la contestazione, il ragionamento, la critica. Se si allargano le prospettive, il potere cigola. Oggi il potere assai furbamente ha deciso di confondere le acque, così complice una falsa formazione di superficie, la scomparsa delle verifiche, ci si accontenta di fake news e di leggende metropolitane, di post verità. “Dicunt”, scrivevano gli antichi. Leggere cancella le false piste o le precisa.
Per quanto il Sud risulti sempre un fanalino di coda nei dati, direi che la verità è sempre capovolta: ci sono isole di forte resistenza in ogni regione d’Italia, si legge bene e molto nelle città con tante biblioteche attive e prestigiose e funzionanti (al Centro-Nord) ma si legge bene anche nel Sud che si entusiasma, che ha intelligenze prensili, iniziativa e creatività. Bisogna sempre considerare che spesso a capo delle filiere culturali c’è una maggioranza di persone che vengono da Sud. Avere bellissime scuole e tanti supporti a volte non coincide con l’avere fame e curiosità, con la brillantezza mentale e creativa.
Non è un caso: le ragazze faranno la rivoluzione. E sono spesso le donne, riconosciute poco o mai ricordate abbastanza, che smuovono profondamente le radici dei problemi. Se impareremo a riconoscerci il nostro ruolo di guida senza nulla togliere agli uomini, sarà sempre più evidente che noi siamo La Rivoluzione. Help e Farenàit sono ragazze rivoluzionarie: nemmeno vorrebbero o ci avevano mai pensato ma quando si trovano a chiedersi qual è il loro desiderio non lo censurano. Lo attivano. Non esitano: fanno.
Faccio Reati Letterari di continuo. Persino il fatto che scriva romanzi non commerciali e che cerchi una voce d’autore invece che la visibilità o che continui a insegnare scrittura a Sud senza supporti politici, dice del fatto che sono una Persona Felicemente Illegale.
Antonella Cilento è nata a Napoli nel 1970. Nel maggio 2019 è uscito il suo ultimo libro Non leggerai (Giunti), romanzo che hai inaugurato la collana Young Adult “Arya”, che segue a Morfisa o L'acqua che dorme (Mondadori 2018). Con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori 2014) è stata finalista del Premio Strega 2014, e Premio Boccaccio 2014 (tradotto in Spagna, Francia, Germania, Corea, Lituania, Finlandia). Collabora con La Repubblica - Napoli e con Grazia.
Ha ideato e conduce dal 1993 il Laboratorio di Scrittura Creativa Lalineascritta: a Napoli, in Italia e, con i corsi in webconference, in tutto il mondo. Le attività si svolgono presso associazioni, librerie, scuole di ogni ordine e grado, formando insegnanti e studenti in tutt’Italia.]]>Intervista di Silvia Sardi, Gennaio 2020!
Attrice e cantautrice, cavalca da qualche tempo l'onda del successo che si fonda sul principio della gratitudine e del divertimento. Sorridente e poetica, ha una capacità pazzesca di scrivere e oggi è uscito il suo ultimo singolo
Grazie, ma no: non mi sento all’inizio! Per carità! Sono 8 anni che scrivo e suono in giro, ora però ho trovato una formula ancora più divertente. E una delle cose più importanti, sembrerà banale, è divertirsi.
Esattamente da tutte queste cose insieme. Non è proprio una sicurezza è tipo un tentativo di fermare dei pensieri.
Ci sono dei temi che mi tirano il bavero della giacca e mi dicono “fai una canzone su di me”. La realtà è complessissima, il bello di una canzone è che come una poesia può contraddirsi, come una pièce teatrale può mostrare più punti di vista. Di base la speranza e la certezza che l’essere umano sia meglio come lo dipingono c’è! Una volta al mese Bisogna riascoltarsi “Il costume da torero” di Brunori sas! Tutto quello che mi passa per la testa sembra avere un senso quando penso che la vita un senso forse non ce l'ha[...]
Ahah no non mi sento nessuna di queste tre cose, ma so di avere un megafono e voglio usarlo bene.
Tendo a dire cose che se le sentissi mi farebbero stare bene, e tendo a scrivere sempre in modo ambiguo su più livelli, in realtà mi viene automatico, non è che lo faccio troppo apposta.
L’esempio più grande è “l’impavido pettirosso”: sembra una canzone per bambini sotto i 5 anni invece parla ai ventenni, a chi vuole andarsene da casa ma non ci riesce. Io amo i musical, e i musical sono la più grande fonte di intrattenimento per grandi e piccini, in più il mio timbro della voce è abbastanza pulito e limpido quindi ai più piccoli piace. In più, ecco, tutti siamo stati piccolissimi scatenati quindi forse mi viene sempre naturale parlare, come direbbe Leopardi, al fanciullino che è in noi.
Il background è importantissimo, non scriverei quello che scrivo se non avessi fatto quello che ho fatto: la cosa più bella di lavorare in televisione, di fare l'attrice, è veramente rendersi conto che far parte di un meccanismo di squadra è importante. E mentre prima tendevo a fare le cose un po' di testa mia, con la musica, ora ho capto che la cosa più figa in assoluto è avere una squadra con cui lavorare. E quindi, anche in quel caso, la gratitudine, il riconoscimento del lavoro altrui è fondamentale. Un'attrice non fa niente da sola, le serve il set, il regista e tutti gli altri – e mi sto rendendo conto che se per fare del buon pop ha bisogno di una bella squadra dove poi appunto io sono la punta dell'ice-berg.
A proposito di squadra, Dade è diventato un po' il mio regista: l'ho conosciuto perchè sono entrata in contatto con INRI ormai da tanto tempo, tramite il mio amico Bianco, ho suonato una volta nel locale che lui gestiva (l'Amen, ndr) ci siamo piaciuti, lui ha detto che voleva trovarmi uno stile musicale ben riconoscibile io sono molto fiera del nostro rapporto perché per la prima volta sono riuscita ad affidarmi a delle idee musicale non completamente mie.
Una delle cose più belle è che si lavora insieme e a lui piace moltissimo quello che quagliamo, che tiriamo fuori: non c'è la cosa più bella di avere un partner di lavoro che è felice quanto te e che si sente le tue canzoni come sue al 50% – e in più mi lascia totalmente libera e anzi, mi da dei consigli per migliorare. Quindi assolutamente fiera e felice di questo incontro.
BEYONCÉ sempre
KANIE WEST spesso
JESUS CHRIST SUPERSTAR fino ai 25 anni tutti i giorni
BATTISTi consumato
VIVALDI ad ogni bagno caldo
TITANIC
MONTAGNA
Mi aspetto un anno molto figo perché la cosa di Island è che mi metterà in contatto con artisti colleghi molto interessanti, già è partita qualche collaborazione e in più loro sono molto attenti di seguire progetti anche se sono uno diverso dall'altro. Ancora non abbiamo iniziato ma non vedo l'ora e poi farà dei concerti molti interessanti.
Sono assolutamente fiduciosa che l'Italia potrà guarire dai suoi mali, a volte pensiamo che i paesi del nord Europa siano migliori, ma in realtà quello che ci sembra migliore forse non lo è: noi siamo un paese del sud, un paese caldo, affettivo. Non so, però io ormai sono adulta, ho 30 anni, per cui le cose le faccio sia per me, per stare bene, ma anche con la consapevolezza di essere inserita in una società – e anzi a volte mi piacerebbe scrivere delle canzoni più spensierate, ma arriveranno anche quelle.
Delle belle canzoni d'amore.
Sì, prepariamoci, è una canzone sulla sessualità!
È molto eloquente il testo, per me è difficile parlarne in prosa, è più figo parlarne in versi.
Tutto nasce da una chiacchiera con un mio amico che ha un amico che faceva cilecca e andava in ansia con le ragazze in sostanza perché aveva visto troppi porno! E allora mi è venuto in mente un po' questo tema e ho cercato di spolparlo in "Giubbottino". E sì, c'è un po' di haute-couture perché si chiama giubbottino, ma vedendo il video spero che sia chiaro.
]]>Intervista di Antonella Vitelli, gennaio 2020
hitetto iraniano Mohammad Hassan Forouzanfar. #Peace fa da didascalia alle immagini di 10 siti Unesco dell’Iran che sventolano bandiera bianca. Questa la risposta che lo studio Archigraf ha lanciato a seguito del tweet minaccioso di Donald Trump, dopo la morte del Generale Soleimani.
Lo scienziato iraniano Ibn Sina sostiene che l’Iran abbia una “cultura fluida”. Noi sappiamo che l’Iran è una delle primissime civiltà umane della storia. Proprio lungo la storia tragica dell’Iran troviamo molte guerre, periodi di splendore e decadenza. Come l’attacco di Gengis Khan, quello di Alessandro Magno o la stessa campagna di espansione dei Mori. Tuttavia, la cultura iraniana è stata in grado di resistere a queste invasioni per lunghi periodi. Questo è l’Iran.
Questa capacità di dare forma e influenzare la cultura iraniana dà quella fluidità di cui vi sto parlando, una fluidità che è tutt’ora presente.
Sono convinto che la posizione di un artista possa essere differente da quella di un politico. Così, alla luce degli attacchi in Iran, specialmente alla luce della minaccia contro i siti culturali, ho provato a far confluire un messaggio di pace e amicizia iraniano attraverso l’arte.
Siccome il patrimonio culturale iraniano appartiene a tutto il mondo ed è parte della storia dell’arte mondiale, tutti i responsabili di UNESCO e Unione Europea dovrebbero prestare più attenzione a ciò che sta succedendo e opporsi a queste minacce.
“Archigraf” è uno studio educativo nel campo dell’architettura e della grafica e l’ho paragonato a una famiglia per l’intimità e gli obiettivi che gli studenti hanno condiviso.
Noi cerchiamo di mostrare le nostre risposte sociali, politiche e culturali attraverso l’arte per generare un impatto maggiore.
Il nostro paese oggi necessita di serie riforme e cambiamenti per tornare a essere glorioso come un tempo.
Uno degli obiettivi che abbiamo cercato di acquisire nelle lezioni di “Archigraf” è il concetto di “post apocalittico”.
Ci sono molti esempi di questo tipo di architettura e di arte, come le opere di Lebbeus Woods. Ma cosa la rende attraente in realtà sono le caratteristiche surreali, insieme all’immaginazione e alla pratica architettonica in un mondo post-crisi
L’idea di retro futurismo si riferisce alla capacità che abbiamo avuto in passato di immaginare il futuro e viceversa.
Se le idee di oggi fossero esistite nel passato, allora come sarebbe sembrato il nostro passato?
Quindi, in questi progetti, le caratteristiche dell’architettura moderna sono state combinate con quelle dell’architettura iraniana del passato per mostrare un altro tipo di passato. Inoltre queste opere hanno il potere di creare contraddizioni così evidenti da generare e ispirare altre idee.
I giovani iraniani sono particolarmente talentuosi in arte e architettura e hanno brillato e brillano ancora molto nell’arena globale. Io spero che il futuro politico e culturale iraniano sia molto meglio di come è oggi e che potremo avere relazioni migliori e più appropriate con il mondo. Le nostre condizioni migliorano giorno dopo giorno. Auguro a voi e ai vostri colleghi una buona salute e successo.
Il Natale da manuale dei buoni sentimenti raccontato dal suo stesso ideatore, nonché autore di uno dei tormentoni letterari più letti di tutti i tempi: A Christmas Carol. Stiamo parlando naturalmente di Charles Dickens.
Incontro Charles Dickens in un Book Club pochi giorni prima delle feste natalizie. Come ospite d’onore, è stato fatto accomodare su una sedia a braccioli tappezzata di velluto bordeaux presso una scrivania antica su cui sono collocate alcune edizioni antiche dei suoi romanzi. Sono armata di cattive intenzioni: mi trovo di fronte l’inventore del Natale da cartolina della società consumistica. Le signore del club stanno discutendo appunto del suo Canto di Natale. Gli rivolgo subito una domanda cattiva.
Quanto nichilismo preventivo c’è nella sua domanda! Cosa la infastidisce dell’umanità raccolta intorno al lieto fine? Ho capito. Lei fa parte di quella categoria di persone che ostentano smorfie di disgusto verso i valori del Natale, salvo poi derogare a tanto cinismo il giorno fatidico della festa adeguandosi alle regole del galateo: farà l’albero, comprerà regali per amici e parenti, a casa sua non mancheranno il vischio e l’agrifoglio e alla sua tavola non mancheranno l’oca e il tacchino ripieni. Anche Scrooge, avaro di soldi e di sentimenti, alla fine della mia storia ha ceduto onorando il Natale nel suo cuore. Un ricco che diventa generoso verso il povero ristabilendo un po’ di quella giustizia sociale da tanti invocata.
Mi pare di avere già detto in un’altra occasione che nulla è più sincero della falsità.
Tanti, ancora oggi, ricordano il mio Canto di Natale; pochi conoscono il Manifesto di Marx ed Engels . Prova ne è che i gentili soci hanno letto il mio libro e non un noioso manuale di filosofia politica. Lei parla di melodramma: ma il pubblico ama il melodramma.
E voi italiani, che l’avete inventato, dovreste saperne qualcosa. Non avete la vocazione alla rivoluzione, piuttosto siete votati all’intrigo, all’inciucio.
Vedo che ultimamente in politica non vi fate neanche scrupolo di invocare la Madonna e Domineddio, di brandire crocifissi, quando non avete risposte convincenti da dare. Le disuguaglianze sociali certo non scompaiono nell’allegria generale della festa, anzi nella mia favola sono ancora più chiaramente marcate. Ma io, semplicemente, do al lettore ciò che vuole gli venga raccontato: il focolaio domestico dei ricchi e il freddo e lo sporco degli slums londinesi, il materialismo dei mercanti e il filantropismo di facciata, le peripezie del vecchio speculatore e del bambino povero e malaticcio come condimento ad una storia infarcita di buoni sentimenti, con conversione finale del cattivo e speranza di un futuro migliore per il povero. Non è forse questo che vogliamo sentire, almeno a Natale?
Ombre sull’acqua, immagini vaghe dei luoghi popolari e sinistramente suggestivi: questo volevo descrivere ed è ciò che ho fatto. Napoli pullula di delinquenti, lazzaroni cenciosi, mendicanti squallidi e abietti borsaioli; il popolino si droga e si rovina giocando al Lotto. La città e sporca e piena di storpi e cani randagi. Ma non pensi che Genova sia meglio, piena com’è di puzze e inesplicabile sudiciume. O Piacenza, piena di erbacce, sporcizia e pigrizia. Roma, poi! Uomini dall’aspetto truce, del più basso ceto, con mantelli stracciati si aggirano nelle piazze dove donne e bambini starnazzano, divertendosi alla vista delle decapitazioni di qualche malvivente operata dalla autorità vaticane. Per non parlare di preti e monaci che si fanno largo tra la folla alzandosi sulla punta dei piedi per dare un’occhiatina alla lama pronta ad essere affondata. Londra, con i suoi bassifondi, certamente non è migliore. Ma cosa vuole! Tutti ammirano dell’Italia le bellezze naturali e compiute dalla mano dell’uomo, ma anni d’incuria, oppressione e malgoverno sono stato il cancro che ha imbarbarito il suo popolo piegandone lo spirito. Qualcosa di buono però è rimasto e questa meravigliosa nazione risorgerà dalle sue stesse ceneri. La ruota del tempo gira per uno scopo e il mondo è, nei suoi caratteri generali, più gentile, tollerante e pieno di speranza a mano a mano che questa gira.
Tutto è migliorabile. Oggi di Scrooge ce ne sono tanti, ne sono consapevole, così come tante sono le nuove povertà, ma io sono fermamente fiducioso nella “conversione alla generosità”, nella possibilità del “giorno dopo la festa”. Un’antitesi, la mia, del pensiero leopardiano de Il Sabato del Villaggio, a voi tanto caro.
E’ vero! Una volta ho detto durante un’intervista rilasciata a Giorgio Manganelli che ho sempre adoperato una testa di bambino, che detta così, sembra quasi un’espressione cannibalesca.
I bambini sono quanto di più narciso ed esibizionista esista con i loro pianti o risate esorbitanti, la loro risibile presunzione d’innocenza e di fragilità, che in realtà invece, è la loro grande forza. Scrooge, però, troverà la propria motivazione alla rinascita andando indietro nel tempo, quando Ebenezer ricorderà la sua infanzia modesta e la sua giovinezza, l’amore per la sua famiglia e per la sua fidanzata, cui verrà sostituito, da adulto, l’amore per il denaro. Vede, gentile signora, io trovo gli esseri umani nella loro età di mezzo- quella piena, per così dire- estremamente odiosi e infimi. Meglio i fanciulli e gli anziani.
Nella realtà dovrebbe andare così, nella finzione no. Il mio canto di Natale si veste d’incanto contro ogni disincanto. Altrimenti, che Natale sarebbe?
La mia vita privata è stata parte del melodramma e della macchinazione del personaggio pubblico. Qualcuno ha tirato fuori le lettere scritte alle mie amanti: sono stato falso, bizzoso, canaglia, gaglioffo. Ma anche padre e marito scrupoloso.
L’imperfezione non mi è mai venuta meno. Questo forse mi attirerà più simpatie che l’immagine dello scrittore educativo, maestro di tutti i cuori.
Christmas Carol uscì in concomitanza dell’entrata in commercio della prima cartolina natalizia il 19 dicembre del 1843. Forse questo fu il segno che non “c’è Natale se non c’è Dickens”. Merry Christmas!
]]>Intervista di Silvia Sardi, Torino, novembre 2019
Le sue foto, sature e statiche, mi hanno catturato nella sovraffolata Paratissima: già esposto a Palazzo Reale di Milano (premio Arte), all’Arsenale di Venezia (Arte Laguna Prize) e a 2 Photofestival di Milano, il progetto Incomunic-abili parla del contesto famigliare.
Aggiungere un’ambientazione cupa al messaggio insito nelle mie fotografie sarebbe stato ridondante, un inutile eccesso che avrebbe snaturato sia il messaggio, che comunque non ha una sola chiave di lettura ma dipende dal vissuto di ciascun osservatore, sia l’estetica della rappresentazione. A questo riguardo sono sempre stato ispirato più dal cinema che da altri fotografi ed in particolar modo da registi come, ad esempio, Pedro Almodovar e Wes Anderson, con le loro rappresentazioni coloratissime e surreali, anche quando il tema trattato non è per nulla leggero. Inoltre la leggerezza è un potente mezzo per attrarre verso temi che leggeri non sono. Calvino nelle sue Lezioni Americane, parlando del raccontare, ci insegna l’importanza della “leggerezza” e dato che anche la fotografia, oltre a rappresentare, può anche raccontare, mi è sembrato naturale muovermi in questa direzione.
Non penso che i rapporti a lungo termine siano per natura incapaci di rinnovarsi. Se li alimentiamo continuamente si rinnovano e si possono prolungare senza limite.
Le scene che rappresento mettono in mostra i momenti dove questo non accade.
Non è assolutamente detto che i soggetti che ho fotografato non abbiano di norma una vita serena, ma a chiunque capita di avere dei momenti o periodi in cui la comunicazione viene a mancare per i più vari motivi.
Il gioco sta nel tradurre il particolare in universale, ossia nel rappresentare piccole situazioni che possono essere anche specchio di situazioni più complesse, in modo da far viaggiare la fantasia dell’osservatore e creare empatia e immedesimazione. Sapere che una situazione è vissuta da più persone come noi ci piò anche far sentire meno soli.
L’attenta costruzione del set non fa parte del messaggio ma del mezzo per farlo arrivare. I set sono le reali abitazioni dei soggetti ritratti, depurate e alleggerite di ciò che può distrarre dall’idea che a grandi linee voglio trasmettere e spesso con l’aggiunta di particolari che astraggono la scena dalla quotidianità.
La vita frenetica di oggi limita sempre più le relazioni vere (mentre quelle virtuali crescono) e la famiglia, essendo un ambiente di convivenza quasi forzata, può generare spesso desiderio di estraniazione o non destare più alcun interesse, come se avessimo già spremuto tutto da quella situazione che, appunto come dicevo prima, non alimentata da nuovi stimoli fa cadere anche la più elementare forma di comunicazione.
Il momento del caffè insieme è il pretesto e il paradosso per la rappresentazione di queste situazioni.
Non posso salire sul piedistallo di chi vuol lanciare avvertimenti, ma portare una piccola parte del mio vissuto, di ciò che ho osservato e mi ha incuriosito fin da bambino, avendo constatato essere un tema che, prima o poi, coinvolge tutti. La fotografia è sempre lo specchio di chi la fa, qualsiasi sia l’argomento trattato.
Il progetto “Incomunic-abili” nasce da esperienze familiari, dall’osservazione e da racconti di persone che già conoscevo. Successivamente ho esteso la ricerca anche ad “amici degli amici” e a candidature spontanee comunque nate da persone che già conoscevano il mio lavoro.
Essendo un progetto che in molti casi svela piccoli scenari sconosciuti all’esterno della coppia o della famiglia,
è importante che io parli con loro del progetto in maniera esaustiva, sdrammatizzandolo, condividendo con loro le mie esperienze al riguardo (difficile fare un ritratto se non si dà qualcosa in cambio) e solo allora rompere il ghiaccio chiedendo dei loro momenti di incomunicabilità domestica.
Fa già parte del progetto l’estensione futura dei set al di fuori delle mura domestiche ma sempre rimanendo all’interno della coppia o della famiglia. L’ambizione è mostrare quanti più momenti possibili di rottura della comunicazione in modo che chiunque possa trovare immedesimazione in una o più di queste scene e riflettere sulle proprie esperienze mosso dalla chiave dell’ironia o del surreale espressi dalle mie fotografie.
Al momento non ho una galleria di riferimento. Le mie opere sono in tiratura limitata e numerata, il formato più grande 100 x 70 cm con una tiratura di 5 esemplari e piccolo formato 35 x 50 cm (solitamente esposto nelle mostre) in tiratura di 20 esemplari. Gli interessati possono contattarmi tramite il sito www.ivanbignamifoto.com, il profilo instagram @ivanbignamifoto o la pagina facebook.com/ivanbignamifoto
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“Molto imparo da chi poeta non è. Ma è vivo”. Così Davide Rondoni, poeta e scrittore che ha al suo attivo diversi volumi di poesia tradotti in vari paesi del mondo. Collabora inoltre a programmi di poesia in radio e TV, ha fondato il Centro di poesia contemporanea all’Università di Bologna e la rivista “clandDestino”. Una delle voci più interessanti ed originali della poesia contemporanea ha dedicato un libro al poeta di Recanati, Giacomo Leopardi - “E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo” (Fazi Editore, 2019) - offrendo un’interpretazione viva ed originale di una poesia-magnete che compie duecento anni , scoprendone significati nuovi e trovando nei suoi versi una potente e meravigliosa bussola , per abitare non altrove dalla poesia.
La poesia è sempre inutile, o meglio serve a correggere lo sguardo verso il profondo e verso il bello e il misterioso, in qualsiasi tipo di società, rurale o tecnologica, antica o attuale.
Sì è una poesia nata da una grande questione e che mette in campo la presenza di un segno, il vento che soffia tra le piante, comparando il quale con qualcosa di infinito e sconosciuto si può fare una esperienza rivelativa dell'eterno legato al tempo, ovvero dell'infinito.
Non sono un maestro, sono un operaio. Non punto il dito, canto e dico a tutti cerca il fiato, prendi il respiro dove c'è, perché il vento c'è, non asfissiare.
No, non è una provocazione, è una proposta di metodo alternativo a quello attuale che non sta dando buoni frutti. Il libro la motiva e propone.
Le poesie le fa l 'uomo e così come l'uomo, ogni persona, non può essere capita, nel senso di definita," capta" in limiti e definizioni, senza lasciare spazio al mistero, all'indefinibile, perché non siamo marchingegni, analogamente un'opera d'arte va com-presa, presa con sé, mai definita del tutto, restando noi aperti al suo svelarsi e dirsi infinito e misterioso.
Beh, devo molto alla attenzione avuta nei miei confronti da parte di Luzi, di Testori, di Bigongiari, di Caproni...Questi poeti e altri, in una costellazione libera e un po' pazza, che va da Omero a Eliot, da Rimbaud a Dylan Thomas, da Pasternak a Rilke a Lorca...mi ha influenzato e influenza cosi come la lettura di miei contemporanei, da Walcot a Heaney, ad amici come Lauretano, Riccardi, Conte...
E molto imparo da chi poeta non è. Ma è vivo.
Davide Rondoni, “E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo” , Fazi editore 2019
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Se c’è un teatro che risulta saldamente politico, sociale, nonostante voglia essere soprattutto artistico e dissacrante è senza dubbio quello che si ispira a Mario Mieli. Oggi Mieli dalla vetero-cultura italiana viene ancora considerato un personaggio scomodo e dimenticato, quasi rimosso, ma studiato nelle Università di Francia, Germania e Stati Uniti per i suoi rivoluzionari scritti che anticipano di quarant’anni gli studi sull’identità di genere e la sessualità.
Irene Serini ha deciso di ridargli vita con uno spettacolo chiamato Abracadabra. Incantesimi di Mario Mieli, prodotto da Maurizio Guagnetti, che Progetto Cantoregi ospita alla Soms di Racconigi questo novembre. Si tratta di un monologo che vede protagonista un folle lucido dall'indefinita identità sessuale e un pensiero rivoluzionario che ha indagato il difficile rapporto con la femminilità, propria di ogni essere umano, con l'identità di genere e con il desiderio represso.
Domanda difficile. Ipotizzo che il titolo della sua tesi di laurea, pubblicata per la prima volta da Einaudi nel 1977: Elementi di critica omosessuale, possa essere stato in parte responsabile di questo processo di rimozione non troppo velata. Inoltre definire Mario Mieli ideologo del movimento gay in Italia senza indagare a fondo l’eclettismo della sua persona e del suo pensiero, può aver indotto chi omosessuale non si sentiva a considerarsi esonerato dall’argomento. In verità non solo di orientamento si parla in questo libro, ma anche di femminilità espressa (o repressa) in ogni essere umano, e di economia, coi suoi annessi e connessi in termini di regolamentazione sessuale. Come mi disse ai tempi Lia Cigarini, grande amica di Mieli e co-fondatrice della Libreria della donne di Milano: Quella di Mario non era solo una battaglia per i diritti dei gay, era un battaglia per la libertà di tutti. Detto ciò vien fatto di pensare che all’estero la parola omosessuale non sia ghettizzante come nel nostro Paese.
Tutto il mondo è teatro diceva quello…
Essere uomo rispetto all’essere maschio, ed essere donna rispetto all’essere femmina, prevede una rappresentazione. Abbiamo i nostri costumi di scena e quotidianamente ci occupiamo di trucco e parrucco. Ma il teatro può anche svelare la differenza tra realtà e finzione, farci vedere cosa c’è dietro le quinte, il volto oltre la maschera, e il divertimento d’ indossarla… sapendo che di maschere si tratta, appunto. Mario Mieli fu anche attore, e spesso utilizzò il teatro per esprimere il suo pensiero - Le théatre Mario, le théatre! Luogo ove si può dire il vero, l'unico ove non sia proibito esprimersi con una certa libertà in pubblico. - bella frase di Denis Robert riportata da Mieli in più contesti.
Il primo studio è di 20 minuti soltanto. Si tratta di un istante vorticoso in cui il pubblico viene investito da frasi e domande sorprendenti. Capovolge equilibri mentali legati alla sessualità e alle sue rappresentazioni. Lo studio #2 e #3, rispettivamente di 40 e 60 minuti, si occupano di dare respiro, di elaborare e radicare un pensiero, aprendo parentesi interne alla struttura originaria. Così facendo il pubblico viene messo in relazione con quei luoghi del pensiero di Mieli, in cui potersi riconoscere a dispetto delle provocazioni evidenti in prima battuta. A Racconigi, sabato sera, presenteremo lo studio #3, il più elaborato del percorso, che affronta Mario Mieli a tutto tondo. A maggio 2020 presenteremo lo studio #4, al Teatro Litta di Milano, che indagherà più dettagliatamente i legami tra sessualità e potere economico. L’ultimo incontro si compirà con lo studio #5 che affronterà il tema dell’educazione del bambino… e della bambina. Abbiamo pensato ad un percorso a tappe anziché ad uno spettacolo compiuto e definito, perché ci sembrava la giusta formula per avvicinarci ad una materia in movimento. In fin dei conti anche se Mario Mieli ha deciso di suicidarsi a soli trent’anni, il suo pensiero è ancora vivo, incandescente e rotante.
Leggendo, oltre il già citato Elementi di critica omosessuale, tutto quel che è stato pubblicato relativamente a lui. Incontrando chi gli fu vicino, per quanto possibile ovviamente. Tanto per fare alcuni nomi: Milo de Angelis, Marc de’ Pasquali, Franco Buffoni, Lia Cigarini, Rosaria Guacci, e Silvia de Laude che ne è profonda conoscitrice pur non avendolo mai incontrato direttamente. A lei si deve un prezioso libro di piccole dimensioni e grandi concetti dal titolo Mario Mieli e adesso, edito da Edizioni Clichy, oltre che a un studio commovente che lega Petrolio di Pasolini a Il risveglio dei Faraoni di Mario Mieli.
Importantissimo è stato incontrare Paola Mieli, la sorella più vicina a Mario non solo in termini di età. E’ lei che si occupa di portare avanti l’opera di suo fratello dagli Stati Uniti, dove vive e lavora attualmente.
Il cerchio è un figura geometrica in cui ogni punto ha lo stesso potere di espressione rispetto agli altri, non c’è un vertice a stabilire chi governa su tutti. La ruota è uno strumento circolare, ruotando su se stessa ci fa andare avanti, nel vero senso della parola - andare avanti e non tirare avanti - per dirla con Mario Mieli. Inoltre il cerchio è bello perché si può fare anche senza compasso: come ci ha insegnato Giotto o chi per lui, e come i monaci zen mettono quotidianamente in atto. Noi il cerchio lo facciamo col pubblico. Così, una volta di più rompiamo la tradizionale prospettiva di sguardo proposta a teatro, e decostruiamo i ruoli che vogliono la divisione netta tra attore e spettatore. Stare sul palco, venire illuminato, ti mette in una condizione di partecipazione diversa… rivoluzionaria?
La violenza è una spinta che riguarda tutti noi da sempre e in entrambe le direzioni, la subiamo e la esprimiamo quotidianamente. Non tutti però sono messi nella condizione di trasformarla in altro, di incanalarla in atti che possano creare più che distruggere. Se accettiamo il pensiero di Mario Mieli secondo cui ogni essere umano comprende in sé l'eterosessualità e l'omosessualità allo stesso tempo, ed è maschio e femmina allo stesso tempo, ecco che fare violenza ad un omosessuale non significa più massacrare il cosiddetto diverso, ma scatenare violenza contro chi rappresenta una parte di noi. Vivo nel XXI secolo a Milano. Facendo teatro non posso che essere inadeguata alla vita. Ma credo con cocciutaggine inesauribile, nella possibilità di evoluzione umana.
]]>Paratissima ha collaborato con il progetto triennale “NUR – New Urban Resources“, siglato dalla Città di Torino e la Municipalità di Betlemme e finalizzato a promuovere la diffusione di energia rinnovabile nel territorio di Betlemme attraverso l’installazione di pannelli solari, l’assistenza tecnica relativa all’efficienza energetica, la formazione professionale, la costituzione di start up, iniziative di sensibilizzazione e processi di governance locale.
Abbiamo intervistato Salah, quarto finalista del concorso:
Ho contattato il presidente dell'hotel per poter aderire alla galleria e lui stesso mi ha consigliato di partecipare a questo concorso.
I have contacted the chairman of the hotel in order to join the gallery so he advised me to participate in this competition and he sent me the ad.
Ebbene, il dipinto mostra due tipologie di mani, una luminosa e una scura. La prima rappresenta le mani del sole, il nostro motore eterno che muove le basi del quotidiano, a disposizione di tutti senza dover pagare un centesimo. Nello stesso tempo è l'unica energia senza la quale non possiamo vivere. Inoltre la luce del sole è la fonte che trasmette l'anima al nostro pianeta terra.
Nel dipinto che sottopongo alla competizione c'è l'unione tra i due elementi, gli umani e il sole, che ci mantiene vivi e pieni di energia.
Well, the painting shows two kind of hands a radiant ones and dark one the first represent the hands of the sun our eternal engine to work in daily basis and which any one can obtain without paying a penny in the same time it is the only type of energy that we can’t live without. Moreover the sun light is the source which transmit the soul to our planet earth. In the painting I submit to the competition is the union between the two elements the sun and humans that keeps us alive and full of energy.
Sono nato e cresciuto a Ramallah ed essere un palestinese che vive a Ramallah è una benedizione. Ho sempre avuto il supporto dei miei insegnanti che ancora oggi mi incoraggiano ad iscrivermi alle competizioni scolastiche. Grazie alle mie partecipazioni a numerose gallerie e concorsi sono riuscito a crearmi una fitta rete di collegamenti con artisti e presidenti delle gallerie. Ho anche imparato a comunicare con clienti e visitatori diversi, e ad esprimermi maggiormente tra gli altri. Ciò che per me rende speciale la Palestina, è la sua capacità di arricchire la mia immaginazione migliorando la mia abilità di riuscire a pensare in modo diverso, anche a causa della situazione sociale del paese.
I was born and raised in Ramallah, being a Palestinian living in Ramallah is a blessing. I was supported by teachers and they always encourage me to participate in school competitions. Through my participation in many galleries and competitions I made connections network with other artists and galleries chairmen. I also learned how to communicate with clients and visitors and to express myself more among others. The specialty of Palestine, which is being under occupation, enriched my imagination and taught me how to think differently because of our special situation.
No, non ci sono mai stato, ma ovviamente ne ho sentito parlare per la sua notorietà nel campo dell’arte, dell'architettura unica e della natura accattivante. Personalmente mi piace molto la musica italiana, in particolare l'opera.
No, I have never been there,but I heard about it and it is of course known by its art , unique architecture and captivating nature even I enjoy the Italian music especially the opera.
Credo fermamente che Dio ci conduca a modi che ci fanno crescere spiritualmente e intellettualmente e credo che per l’essere umano si andrà via via migliorando. Per quanto riguarda me invece, desidero che i miei dipinti e le mie opere d'arte tocchino gli spiriti delle persone e affrontino i loro problemi e si sentano con loro. Desidero proseguire nella mia carriera ed approfittare della mia notorietà per continuare a sperimentare nuovi lavori e cercare di esprimere gli altri nel miglior modo possibile attraverso l’arte.
I strongly believe that God leads us to ways that make us grow spiritually and intellectually and I believe it will suit us. For my wish, I wish my paintings and art works touch the people’s spirits and tackle their problem and feel with them, also continue in this career and being world widely known to have the chance to experience more and take opportunity to express others through my eyes and art.
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Paratissima ha collaborato con il progetto triennale “NUR – New Urban Resources“, siglato dalla Città di Torino e la Municipalità di Betlemme e finalizzato a promuovere la diffusione di energia rinnovabile nel territorio di Betlemme attraverso l’installazione di pannelli solari, l’assistenza tecnica relativa all’efficienza energetica, la formazione professionale, la costituzione di start up, iniziative di sensibilizzazione e processi di governance locale.
Abbiamo intervistato Nour, seconda finalista del concorso:
Prima di tutto, vorrei ringraziare la Galleria del The Walled Off Hotel e i comuni di Betlemme e Torino, che sono responsabili del concorso d'arte "lascia che si accenda". Inoltre, molte grazie alla rivista di Lentiapois e a tutti coloro che hanno visto il mio lavoro ed è piaciuto. In realtà, quel dipinto ha richiesto un anno di lavoro di preparazione. Non è stata una coincidenza, poiché volevo passare attraverso le quattro stagioni dell'anno. Ogni stagione ha avuto un effetto differente su di me e qualunque cosa io stia provando si riflette anche sulla mia pittura. Volevo che questo dipinto fosse pieno di sentimenti e speranze. È dove mi trovo. La mia ambizione era quella di raccogliere tutti i tipi di piante per ravvivare il luogo, renderlo vivibile. La sedia, il tavolino, il tappeto e la lampada sono tutte cose che ho trovato sulla mia strada in un bidone della spazzatura e non potevo andarmene senza prenderle. La sedia ha un forte rapporto con gli umani, o scelgono stabilità o debolezza per se stessi.
Quando dipingevo quelle cose mi veniva sempre in mente il detto: "la spazzatura dell'uomo è il tesoro di un altro uomo".
First of all, I would like to thank the Gallery at The Walled Off Hotel and the municipalities of Bethlehem and Turin, who are responsible for the art competition "let it light ". Also, many thanks to the magazine of Lentiapois and everyone who has seen my work and liked it. Actually, my painting took me a year of work to get it ready. This was no coincidence, as I wanted to pass through the four seasons of the year. Every season got a different effect on me and whatever I'am feeling is reflecting on my painting as well. I wanted this painting to be full of feelings and hope. This is where I find myself. My ambition was to collect of all types of plants to revive the place, make it look livable. The chair, the little table, the carpet and the lamp are all things I found on my way in a trash can and I couldn’t walk away without picking them up. The chair has a strong relationship with humans, it is either they choose stability or weakness for themselves. When I was painting those things it always reminded "man's trash is another man's treasure.
Per me significa dare un'immagine della mia vita o di come voglio che la vita sia, una combinazione di sogni e realtà, felicità e dolore. Essere un artista palestinese è il proiettile che lancio senza paura.
A Palestinian artist means giving out a picture of my life or how I want
life to be, a combination between dreams and reality, happiness and
sorrow. Being a Palestinian artist is the bullet I launch with no fear.
L'arte è qualcosa a cui non possiamo rinunciare. Avrà bisogno di qualcosa per dare sollievo a se stesso e che qualcosa sarebbe arte. È un artista che vuole essere in grado di controllarsi. La creatività è il logo delle opere artificiali. Essere un artista richiede una capacità speciale di vedere le cose in modo diverso. Perché l'arte non va mai in condizioni stabili, gli artisti devono mostrare varietà di nuovi argomenti attraverso le loro opere.
Art is something we can't give up. Man will always need something to relief himself, and that something would be art. It is every artist's way to express himself and too be able to control the present and the hidden yet wanted future. Creativity is the logo of artificial works. To be an artist requires special capacity to see things in a different way. Because art never goes under any stable conditions, artistes are required to have varieties of new topics shown through their works.
Un artista diverso che vive con i suoi forti sentimenti per le cose intorno a lui; inoltre, un artista è più sensibile degli altri, il che si fa strada verso il massimo punto di felicità.
A real artist is different from any other person in that the artist is living by his strong feelings for things around him; also, an artist is usually more sensitive than others, which makes art production his way of reaching the maximum point of happiness.
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