A cura di Antonella Vitelli
"Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico", affermava Theodor Adorno nel 1949. Oggi, allo stesso modo, parlare di qualsiasi cosa che non sia Gaza appare come un atto di barbarie. La sproporzione tra la gravità di ciò che accade e il tono ovattato delle nostre esistenze quotidiane è talmente ampia da imporre, almeno simbolicamente, una sospensione. Delle attività, del lavoro, del gioco. Come gesto di consapevolezza, come segno minimo di resistenza.
Me la sono sempre immaginata così la fine del mondo: muri sbriciolati, pareti dalle ferite profonde, un cane che scava tra i rifiuti diventati una discarica a cielo aperto....

Così scrive Martina Marchiò, infermiera di Medici Senza Frontiere, dal nord di Gaza. «L’Apocalisse assomiglia al Nord di Gaza, non ho dubbi».
"Nemmeno un chicco di grano"
Il blocco totale degli aiuti alla Striscia di Gaza è diventato uno strumento di guerra. “Nemmeno un chicco di grano entrerà a Gaza”, ha dichiarato Bezalel Smotrich, ministro israeliano dell’ultradestra, come riportato dal quotidiano Yedioth Ahronoth. Israele ha deliberatamente usato la fame come arma. Le Nazioni Unite stimano che oltre mezzo milione di persone rischiano la morte per malnutrizione.
Questa strategia – afferma l’ONU – configura una violazione grave del diritto internazionale umanitario, e rappresenta uno degli elementi centrali dell’accusa di genocidio. Martina Marchiò descrive ciò che la fame significa in un bambino di 10 anni che la ferma per strada e le chiede: «Ho fame, hai qualcosa da darmi?». «La guardo e resto in silenzio, provo vergogna per questa umanità in bilico – scrive – e forse un po’ anche per me stessa».
Secondo la Convenzione ONU sul genocidio (1948), il genocidio include atti «commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso» anche attraverso «la sottoposizione intenzionale del gruppo a condizioni di vita miranti alla sua distruzione fisica totale o parziale».
Organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch e numerosi esperti legali confermano: l’uso sistematico della fame, la distruzione di infrastrutture sanitarie, scolastiche, idriche e civili rientrano in questo scenario giuridico.
Fuggire da Gaza: un lusso per pochi
Uscire da Gaza è quasi impossibile. Le famiglie devono pagare migliaia di dollari a società private legate al governo egiziano, come la controversa Hala. Secondo il New York Times, alcuni "broker" informali richiedono fino a 15.000 dollari per inserire un nome nelle liste di uscita. Con la chiusura del valico di Rafah e l’aumento delle tariffe illegali, l’uscita è diventata un miraggio, riservato a pochi.
Intanto, i bambini continuano a giocare tra le rovine. «Davanti all’edificio in cui viviamo c’è un’auto carbonizzata e il pomeriggio alcuni bimbi vengono a divertirsi, ci entrano, si rincorrono, si nascondono, ridono forte», scrive Marchiò. «Gli edifici appena colpiti li riconosci perché tutto è ancora lì: gli abiti, le coperte, gli utensili da cucina. Nessuno ha avuto il tempo di portarli via».
Il 25 marzo 2025, a Beit Lahiya, centinaia di persone sono scese in piazza per manifestare contro Hamas, chiedendo la fine della guerra. Proteste simili si sono verificate anche a Jabalia, Khan Yunis e Shejaiya. In una terra dove ogni assembramento è bersaglio potenziale, manifestare è un atto di estremo coraggio.

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Israele, però, ha ignorato questi segnali. Ha continuato a bombardare indiscriminatamente, preferendo mantenere la narrativa di una Gaza interamente controllata da Hamas. Così ha rinunciato a distinguere tra miliziani e civili, condannando l’intera popolazione a una spirale senza fine di violenza.
Le ONG denunciano da mesi: la distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza è sottoposta a un controllo militare capillare da parte di Israele. Il sistema di autorizzazione – complesso, arbitrario e discriminatorio – impedisce l’ingresso di beni essenziali come pompe per l’acqua, generatori e materiali medici. "Sono passata davanti all’ospedale di Al Shifa – racconta ancora Martina Marchiò – Ho provato un dolore profondo osservando l’edificio distrutto e i pochi muri ancora in piedi completamente scuri, a causa delle fiamme che sono divampate".
Nel maggio 2024, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’arresto di Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità: uso della fame come arma, attacchi deliberati contro civili, persecuzioni. La Palestina è parte dello Statuto di Roma dal 2015, e ciò legittima la competenza della Corte per i crimini commessi nei suoi territori. Gli Stati Uniti hanno risposto sanzionando il procuratore Karim Khan. L’Europa si è spaccata: da un lato chi invoca giustizia, dall’altro chi protegge l’impunità. La conferma dei mandati richiede un passaggio giuridico formale, ma le pressioni politiche internazionali – dagli USA a Israele – stanno tentando di rallentarlo.
L’Europa deve ritrovare la voce
Serve un’Europa più coraggiosa, capace di agire nelle sedi ONU, di esercitare pressioni diplomatiche, di sospendere accordi con Israele finché non cesseranno le ostilità. La voce del vecchio continente dovrebbe essere guida, non eco.
"Un anno fa mi trovavo a Rafah – ricorda Marchiò – oggi sono al Nord, i droni volano sopra la mia testa giorno e notte. Se la fine del mondo avesse un suono, sarebbe questo: sembra un temporale, ma ad ogni tuono una vita si spezza". In passato, il Consiglio Europeo ha reagito con prontezza ad altri conflitti. Perché oggi tace? Perché tollera? In un presente dove ogni bomba uccide anche una parte della nostra coscienza, serve dire qualcosa. Qualsiasi cosa. Che non sia complicità. Che non sia barbarie. Che non sia silenzio.
Martina Marchiò, in una delle sue ultime riflessioni, scrive: «La speranza mi torna solo guardando negli occhi i miei colleghi palestinesi, così stanchi eppure quella scintilla c’è ancora. Ho riabbracciato Sohaib, il mio fratello palestinese. Ci siamo commossi per un attimo». È da quella scintilla che bisogna ripartire.