Intervista di Antonella Vitelli, Milano, marzo 2020
Sono giorni concitati, forse la mia generazione, eccezione fatta per le Torri Gemelle e il Bataclan non ne ricorda di simili, non ne ricorda di così vicini, prossimi. In 15 giorni sono successe tante cose, quelle percepite sono più di quante ne siano realmente accadute. Un ambage di informazioni last minute limitrofe più di qualsiasi altra cosa al concetto di "morbosità", ma questo già l'abbiamo sperimentato. Chi non ricorda le immagini in diretta della Grote Markt di Bruxelles vuota nelle ore in cui si ricercava il covo di terroristi? Chi non è rimasto colpito dall'inseguimento della Gendarmerie francese in un desolato e apocalittico Marais? Che la comunicazione fosse cambiata per sempre l'abbiamo appreso da un pò, ma non abbiamo mai compreso quanto fosse importante comunicare bene l'emergenza. Nei giorni scorsi, oggi 6 marzo, abbiamo assistito ad un andirivieni di dichiarazioni da parte del Governo. Sicuramente l'obbiettivo era tranquillizzare, portare a conoscenza, rendere consapevoli i cittadini, ma allora perché si è prodotto l'effetto opposto? Perché ognuno di noi ha avvertito e avverte anche ora vulnerabilità e spaesamento? Ho provato a capire di più in questa chiacchierata con il Professor Marco Lombardi, Professore all’Università Cattolica di Milano. Il primo ad aver avviato in Italia un Corso universitario sulla Gestione del rischio e la crisis management.
Professore cosa vuol dire in momenti come questo gestire comunicativamente una crisi? Ci sono delle regole a cui attenersi?
I primi corsi di crisis management della comunicazione li avviammo alcuni anni dopo il disastro di Chernobyl nel 1986 e per tanto tempo restammo la sola università italiana ad occuparsene. A distanza di tanti anni è desolante vedere come si sia imparato poco, pochissimo, qualche volta niente. Spesso ci si trova di fronte a due drammatiche percezioni: la prima che comunicare efficacemente sia una dote naturale: o ce l’hai oppure no. La seconda che basti saper comunicare bene per saper comunicare in una situazione di crisi. Due idee sbagliatissime che stanno alla base della pessima comunicazione delle crisi. Innanzitutto, la comunicazione si impara, come ogni cosa: per qualcuno sarà più facile, per qualcuno meno, ma come ogni disciplina appoggia certo su delle doti ma richiede conoscenze e competenze, che si apprendono. In secondo luogo, la crisi è un oggetto di gestione altamente specifico, con caratteristiche che lo distinguono dalla cosiddetta normalità e che richiedono metodologie e strumenti adeguati.
Comunicare in situazione di crisi significa avviare una comunicazione strategica, quindi orientata a un obiettivo, che sappia promuovere comportamenti adeguati nella popolazione per rispondere alla specifica situazione di difficoltà in cui si trova.
Per esempio, l’informazione, fondamentale per ridurre l’incertezza che è alla base di ogni situazione critica, è uno strumento non un fine della comunicazione, in questo particolare caso.
C'è una via di mezzo giusta, oculata tra il flusso continuo, morboso di informazioni e il tergiversare che ha caratterizzato l'atteggiamento della Cina agli inizi del fenomeno?
Certo che c’è una via giusta: questa c’è sempre, non ne discutiamo l’esistenza ma la voglia e la capacità di trovarla. In effetti ci siamo mossi da una prospettiva cinese: comunicazione compartimentata, controllata, centellinata che ha prodotto una diffidenza di fondo anche perché scontava una immagine della Cina certamente non brillante per i trascorsi suoi di trasparenza. Insomma, aspettarsi da subito che la Cina raccontasse il Corona Virus per quello che era non era la via più facile, quindi la comunicazione cinese già nasceva incorporando il sospetto. Poi c’è stata la prospettiva italiana: quella sindrome da "primo della classe" che vuole fare vedere come sappiamo essere bravi nell’affrontare il virus. Il dramma è che tutto sommato lo siamo: ma siamo stati pessimi nell’attivare i percorsi comunicativi di contorno all’azione sanitaria: naive come non mai, aspettandoci ammirazione per la capacità espressa al mondo senza sospettare che, quello che si mostrava e si faceva e si raccontava sarebbe stata la perfetta arma da rivolgere contro noi stessi. Come è stato fatto da tutti i nostri “alleati”. Certo dunque, che la via giusta c’è, ma non è semplice e non si improvvisa: la comunicazione di crisi, in un contesto altamente complesso, è innanzitutto il contenitore strategico dell’incertezza cognitiva della comunità colpita. Ma forse stiamo già finendo in un linguaggio poco comprensibile per chi ha voluto gestire questa crisi… a voi le conclusioni.
A livello storico c'è una situazione assimilabile a quella che stiamo vivendo? Ma soprattutto c'è un caso o un paese che è stato capace di affrontare l'emergenza con un atteggiamento corretto?
Ho cominciato citando Chernobyl, il disastro nucleare del 26 aprile 1986 in Ucraina. Allora eravamo in un regime comunicativo differente dall’attuale. Alcuni paesi, come la Francia ma non solo, tennero strategicamente una comunicazione contenuta dell’evento e delle sue ricadute. Altri, come l’Italia, ne esasperarono le caratteristiche emergenziali e le conseguenze sul lungo periodo. Come sappiamo questo portò all’abrogazione per referendum (1987) della costruzione delle centrali nucleari in Italia e alla continuazione della produzione invece nella vicina Francia. Da cui oggi compriamo energia. Come allora anche oggi si tratta di una emergenza che non si vede, né si tocca, né puzza o si sente: esiste se si racconta. Questa mia conclusione “estrema” sintetizza quello che nel 1986 descrissi come “catastrofe informativa”. Da allora poco è cambiato, tanto da non riuscire a indicarvi un Paese emblematico. Se non, nel disastro di Fukushima ricordare l’immagine di Masataka Shimizu, capo della TECPO, che chiede scusa a popolazione e istituzioni per il disastro: un ponto di partenza importante per ricominciare dopo una crisi
Quando ha influito e quanto influirà la situazione italiana sulle strategie di comunicazione e contenimento del virus che vedremo da qui in avanti all'estero?
Chi lo sa? Per ora la lezione appresa dal passato è sempre stata buttata via dalle esigenze di drammatizzazione del presente. Questo sui tempi lunghi: esempio Chernobyl precedente. Nel tempo breve, cioè eventuali derive dalla gestione attuale del Corona Virus praticata dall’Italia, mi aspetto conseguenze negative sul piano relazionale, soprattutto economico, e sufficiente disinteresse sul piano gestionale, interno a ciascun paese rispetto alla gestione virus. Come ho detto abbiamo offerto il destro ai nostri concorrenti di chiudersi attorno a noi, cioè tenerci fuori, come noi abbiamo fatto al nostro interno. E’ stata una evidente azione opportunistica, regalata loro, le cui conseguenze si protrarranno nel tempo: ci vorrà più tempo a riaprire i voli che permettono la mobilità di quanto ce ne è voluto per chiuderli. Non progettate vacanze lontane questa estate, indipendentemente dal virus, perché non sarà scontata la mobilità degli anni passati. Sul piano interno che volete aspettarvi? Il virus circola da molto tempo in Europa, ma solo 10 giorni fa in Germania si aveva ancora un rilevante picco di influenza con tanti morti. Non credo che cambierà la strategia di comunicazione dei diversi Paesi, soprattutto, dopo aver visto il risultato dell’Italia, ma anche perché una crisi si gestisce comunque sempre a tutela degli interessi prima interni.
Professore saremo capaci di un nuovo rinascimento? Saremo capaci di uscire da questa situazione rafforzati o dobbiamo aspettarci una lunga e pericolosa impasse? Cosa pensa?
Una crisi è sempre una opportunità! L’uomo è un bastardissimo abitudinario, non vuole faticare, non vuole sorprese: che il domani sia uguale all’oggi, con quel piccolo tocco di sale che fa sentire la differenza del tempo che è passato, ma senza rendersene conto. Da questo punto di vista la crisi è una variabile destabilizzante abitudini e consuetudini: quante volte ci siamo detti “è stato brutto, però ho imparato qualcosa di utile” e questo qualcosa fonda nuove prospettive. Il crisis management è utile anche per questo: affinché le istituzioni scoprano che la gestione delle crisi non ha come l’obiettivo il ripristino di uno stato precedente, ma implica la capacità di cogliere la novità positiva che è sempre presente in un cambiamento, Anche quello non voluto.