Da Darwin al Covid-19. Fragilità e finitudine del genere umano

Da Darwin al Covid-19. Fragilità e finitudine del genere umano

Intervista di Antonella Vitelli

Sul coronavirus è stato detto quasi tutto, ma c'è una prospettiva interessante da analizzare ed è quella dell'evoluzionismo. Il Covid come tutti gli esseri viventi obbedisce ad un "imperativo darwiniano primordiale: moltiplicarsi, fare copie di se stesso finché può". Queste le parole di Telmo Pievani, filosofo ed evoluzionista italiano specializzato negli USA dove ha condotto ricerche in Biologia evolutiva. Pievani durante il 2020 ha pubblicato con Raffaello Cortina Editore il libro Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà. L'abbiamo intervistato parlando di finitudine, di evoluzionismo, di virus e mutazioni. 

Professore come si fa a trovare un senso non nichilistico all’esistenza se tutto ha una fine? O è la fine stessa che dovrebbe conferire un senso?

L’evoluzione ci insegna che siamo figli di un processo contingente. Non eravamo previsti e non eravamo necessari. Se la storia naturale avesse imboccato una qualsiasi altra delle miriadi di biforcazioni che ha incontrato, noi non saremmo qui. Dovremmo perciò disperare? Secondo me no, al contrario. Abbiamo avuto una straordinaria occasione nel poter aprire gli occhi su questo mondo e farci domande su di esso. Come scrisse Jacques Monod, uno dei due protagonisti del mio libro, dovremmo sentirci come quando vinciamo alla lotteria: grati alla fortuna e magari, per questo, anche un po’ generosi verso gli altri. E invece la nostra mente ci porta a pensare che quella vincita fosse già scritta nel destino, o voluta da un’entità trascendente. Ci illudiamo di essere i predestinati. La nostra contingenza, la finitudine di tutte le cose, in sostanza la nostra fragilità, ci offrono bellissime occasioni di riflessione morale positiva, non rassegnata e non nichilistica. Ci insegnano: l’umiltà evoluzionistica, cioè sapere di essere una cosa tanto piccola in un vasto universo e un ramoscello nel grande albero della vita; la nostra connessione con la biosfera, di cui ci siamo dolorosamente accorti quando un piccolo agente patogeno sconosciuto al nostro sistema immunitario ci ha messo in scacco; la solidarietà, perché questa condizione di vulnerabilità vale per tutti e ci accomuna; la libertà, perché se il passato era aperto ad altri cammini, allora a maggior ragione lo è il futuro, che noi possiamo influenzare, cambiare, e magari dirigere verso un progresso etico, sociale e civile. Facendoli propri, questi secondo me sono valori profondi che possono rendere la nostra vita piena, anche se è finita, anche se non c’è speranza di un dopo, anche se è assurda come scriveva Albert Camus.

Lei è un filosofo ed evoluzionista. Da evoluzionista non crede che il concetto di “finitudine” sia smorzato dalla variabile del cambiamento, dell’adattamento. Non si finisce, ma ci si trasforma. 

Certamente sì, ma se vediamo il cambiamento dal punto di vista dell’evoluzione della vita in generale. Le specie nascono, si adattano, si trasformano e muoiono (di questi tempi, purtroppo, ne muoiono a migliaia ogni anno per causa nostra, senza che ne nascano di nuove). L’informazione genetica passa da una generazione alla successiva, in una staffetta virtualmente infinita, mutando un po’ a ogni passaggio. Dunque noi siamo il frammento di un solenne e antichissimo flusso di cambiamento, che proseguirà. Quello a cui noi teniamo, però, è la sopravvivenza individuale. Dobbiamo essere onesti su questo. Non ci consola molto sapere che i nostri geni ci saranno ancora e che il mondo andrà avanti. Tanto è vero che non soffriamo per non aver visto l’impero romano, mentre ci dispiace molto non assistere a tutto ciò che verrà dopo di noi. Il problema appunto è che non ci siamo più noi, come singoli soggetti coscienti che si sono affacciati sulla realtà. La consapevolezza di sé è meravigliosa e impagabile, ma presenta questo spiacevole effetto collaterale. Siamo effimeri, ne siamo consapevoli, ma non ci arrendiamo e cerchiamo un senso comunque. In ogni caso tutto finisce, comunque. Il Sole esploderà. Il sistema solare si scompaginerà. La Terra non sarà più vivibile e l’esperimento della vita nel nostro intorno locale si interromperà, magari per proseguire nel frattempo in un altrove alieno a noi sconosciuto. Possiamo tenere memoria di quanto è accaduto, il DNA stesso è un grande archivio storico, ma mi pare che in ultima istanza la finitudine di tutte le cose sia inaggirabile. Camus e Monod, nel libro immaginario che faccio scrivere a loro, e nei dialoghi in ospedale, cercano di intrecciare il sapere filosofico e quello scientifico attorno a questo nodo esistenziale.

L’adattamento come lo definirebbe? In questo momento, con una pandemia in corso, siamo di fronte a una lotta cruciale come individui, come società, anche come specie considerando le problematiche che derivano dall’ambiente che ci ospita. Il problema di combattere per sopravvivere però non è solo nostro di esseri senzienti, ma riguarda per intero ciò che è esistente, quindi anche un virus. Cosa accadrà a suo parere? Il Covid si piegherà per sopravvivere a noi, magari diventando ad un certo punto meno nefasto per il corpo ospitante e quindi anche per sé stesso? Sembra “un incoraggiamento” alla coesistenza più che alla lotta, perlomeno non una lotta continuativa. Sbaglio?

Concordo. L’adattamento è un processo di risposta alle pressioni selettive dell’ambiente, che si raggiunge attraverso la sopravvivenza differenziale (qualcuno più e qualcuno meno) di individui portatori di differenze genetiche. In tal senso, i virus sono macchine biologiche darwiniane efficientissime. Fanno da miliardi di anni una cosa sola: duplicarsi, proliferare, usando le cellule degli altri come veicolo di trasmissione. Mutano molto più rapidamente di noi sul piano genetico. Sono un bersaglio mobile. Noi peraltro siamo l’ospite perfetto per loro: quasi otto miliardi di mammiferi che vivono per il 54% in città e viaggiano ammassati su aerei, treni e altri mezzi di trasporto. Mobili e sociali, come i pipistrelli del resto. Siamo anche un ospite piuttosto stupido: distruggiamo le foreste dove abitano gli animali portatori di virus, che cacciamo e commerciamo illegalmente, per poi ammassarli in mercati senza alcuna prevenzione igienica. Il sogno di ogni virus è fare il salto di specie, cioè conquistare una prateria sterminata di nuovi ospiti, e noi gli facilitiamo il compito. Quando poi il sistema immunitario della nuova specie colonizzata comincia a reagire, il virus si adatta, certo, ma può farlo nei modi più diversi. Non solo riducendo la letalità. SARS-CoV-2 per esempio, a differenza dei suoi cugini, non genera gli stessi sintomi in tutti gli infettati, quindi si fa trasmettere dai molti asintomatici e sintomatici lievi senza dare nell’occhio. Strategia eccellente, sul piano evolutivo. Essere troppo letale e appariscente, come Ebola e altre febbri emorragiche, non è conveniente per il virus, perché ogni focolaio viene subito scoperto e circoscritto, diventando un vicolo cieco per il patogeno. Questo virus a RNA invece si dissemina per lo più silenzioso, quando te ne accorgi è troppo tardi, è altamente contagioso e colpisce soprattutto i più deboli. Un pessimo affare. Noi non possiamo più permetterci di attendere l’immunità naturale e la coesistenza, dopo chissà quante altre ondate e vittime (l’evoluzione non rispetta i tempi umani, è lenta), ma dobbiamo farci aiutare dalla scienza, cioè da farmaci antivirali e vaccini. Quindi non vedremo il decorso completo del processo naturale, perché (per fortuna) lo interromperemo prima attraverso l’immunità di gregge garantita dai vaccini.

Secondo lei quando saremo fuori dalla pandemia? Ma soprattutto da dove dovremmo ripartire e in che modo il concetto di “finitudine” può esserci di aiuto?

Quando ne saremo fuori dipende a questo punto dalla rapidità, dall’efficienza e dal grado di convincimento delle imminenti campagne vaccinali. Nel frattempo possiamo solo ridurre i danni mettendo in atto tutti quei comportamenti responsabili e di sacrificio che ormai conosciamo bene. Però il vaccino non basta e qui ci aiuta proprio la finitudine, cioè la consapevolezza della nostra vulnerabilità. Là fuori ci sono miriadi di altri virus pronti a fare il salto di specie. Dobbiamo quindi ridurre drasticamente le attività (deforestazione, sfruttamento di animali, etc.) che favoriscono queste pandemie. Bisogna quindi ripartire da un ripensamento profondo e radicale del rapporto tra la specie umana e il pianeta che pazientemente la ospita. Certo sono interventi costosi, ma l’alternativa (altre pandemie, gli effetti crescenti del riscaldamento climatico, e così via) è ancora più costosa. Finora non siamo stati all’altezza di questa sfida e non so se lo saremo. Il senso della finitudine dovrebbe far crescere, paradossalmente, la lungimiranza: noi non ci saremo, ma non abbiamo alcun diritto di lasciare a chi verrà dopo di noi un mondo più pericoloso e meno ospitale. In fondo, è il messaggio del dottore protagonista de La peste di Camus: non cerca di dare un senso metafisico al male del mondo, sa che la natura è indifferenze alle nostre sorti, e allora si rimbocca le maniche e cerca, qui e ora, di ridurre le sofferenze al maggior numero possibile di suoi simili.

Come la vede la variante inglese del Covid?

Che i virus sviluppino varianti è del tutto normale. Mutano continuamente e più velocemente di noi. Sono macchine darwiniane. Questo coronavirus in realtà aveva sorpreso finora perché sembrava più stabile dei suoi cugini. Le mutazioni possono avere gli effetti più diversi e in vario grado, o nessun effetto nella maggior parte dei casi. Se una variante ha successo e si diffonde è perché riesce a essere più contagiosa, non necessariamente più aggressiva. Quindi bisogna valutare caso per caso e monitorare continuamente l’evoluzione dell’agente patogeno.

Photo: Pixabay

Torna al blog