Finanza e potere lungo le nuove Vie della Seta

Finanza e potere lungo le nuove Vie della Seta

Intervista ad Alessia Amighini, a cura di Antonella Vitelli

La Belt and Road Initiative lanciata dal Presidente Xi Jinping nel 2013 ancora oggi rappresenta il fiore all'occhiello di una ampia strategia di internazionalizzazione della Cina. Non solo, la vera linfa dell'iniziativa sta nella "finanza" e nella creazione di un sistema dirompente di centri di finanziari offshore, banche, borse sempre più interdipendenti con l'estero. Un modello ben lontano, o meglio rivisitato, rispetto a quello propugnato dalla logica comunista, come si è potuto notare anche dal recente Congresso del PCC, nel quale il Presidente Xi Jinping ha voluto rivendicare il "proprio segno sulla Cina e nel mondo” come già evidenziato nel libro  Xi Jinping: The Most Powerful Man in the World , dei giornalisti tedeschi Stefan Aust e Adrian Geiges. Un marxista del ventunesimo secolo che ha aperto il Congresso di Partito proprio sulla necessità di ripristinare una salda crescita economica. Gli ostacoli sono molteplici: c'è la politica zero-Covid, il clima di sfiducia generale dei consumatori e non in ultimo la guerra dei semiconduttori avanzati di cui la Cina è dipendente nonostante il governo abbia cercato di aumentare la produzione interna e raggiungere l'autosufficienza. La rivalità cino-americana è attualmente in una nuova fase visto anche il recente annuncio del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti di nuove restrizioni sulle vendite di beni high-tech statunitensi al colosso cinese. Che fine ha fatto a questo punto della storia il progetto relativo allo sdoganamento del "renminbi", alias "moneta del popolo"? Che fine ha fatto quell'idea di globalizzazione al contrario che portava la crescente presenza cinese sui mercati internazionali, non la Cina aperta alla finanza estera? Proprio nei vecchi sentieri della Belt and Road Initiative che il dragone cinese voleva imprimere il proprio soft power e un nuovo corso all'idea stessa di globalizzazione.

Ma prima di tutto Come si è giunti da un'economia nazionale pianificata ad un'economia globalizzata? E ad oggi la Cina ha di fatto raggiunto il suo obiettivo di grande ascesa nel commercio mondiale? L'abbiamo chiesto ad Alessia Amighini, Professoressa Associata nel Department of Economic and Business Studies (DiSEI) dell'Università del Piemonte Orientale nonché autrice del libro "Finanza e potere lungo le nuove Vie della Seta" edito da Università Bocconi Editore.

Il decollo cinese è avvenuto tra il 1980 e il 2010, i cosiddetti “Trenta gloriosi anni”. E’ stato il risultato della grande capacità di mobilitare le immense riserve di manodopera del paese. Queste ultime sono state a lungo caratterizzate da una produttività infima, nel tempo progressivamente migliorata per effetto di ingenti investimenti nelle infrastrutture, nell’industria e nei servizi. Questi investimenti di capitale sono stati anche il veicolo per l’acquisizione di tecnologie moderne che la Cina ha importato dall’estero e che le hanno permesso di sfruttare i vantaggi delle economie ritardatarie nel percorso di sviluppo industriale e di conquistare i mercati mondiali. La crescita economica cinese, avvenuta in maniera estremamente rapida tra il 1980 e il 2010, ha richiesto e richiede tuttora enormi investimenti di capitale. Il tasso di investimento (quota di spesa per investimento fisso sul Pil) è stato molto elevato nel corso di tutto questo periodo (tra il 30 e 35%). E’ cresciuto soprattutto negli anni 2000, fino a superare il 40% nel 2003 e avvicinarsi al 50% nel 2013: un record a livello mondiale. Oggi il tasso di investimento nel 2020 è stato del 43,7%, ancora molto alto rispetto ai paesi a un livello di sviluppo comparabile.  

Gli elevati investimenti hanno permesso la costruzione delle infrastrutture necessarie alla modernizzazione del Paese (reti di trasporti, porti e reti per la distribuzione di energia), alla sua urbanizzazione (alloggi, servizi pubblici e municipali), all’espansione e al potenziamento delle sue capacità industriali. Negli anni 2000 gli investimenti fissi sono andati in maggior parte a favore del settore dei servizi (56%) e l’investimento in immobili urbani è arrivato al 20% del totale. 

 

L'accumulo di capitale è stato il principale fattore che ha condotto alla crescita del Pil. L'aumento dello stock di capitale per lavoratore ha permesso guadagni formidabili in termini di produttività del lavoro che è aumentata di più del 10% tra il 2000 e il 2011. Solo una piccola parte di questi progressi è dovuta alla riallocazione di posti di lavoro tra i settori dai meno produttivi (soprattutto l'agricoltura) ai più produttivi. I progressi raggiunti dalla produttività del lavoro si sono riscontrati essenzialmente in ciascun settore a seguito dell’aumento dello stock di capitale fisico e della tecnologia e del miglioramento del capitale umano (inteso come formazione). La produttività del lavoro è aumentata rapidamente nell’industria manifatturiera come all’interno del settore dei servizi, ma in questi due grandi settori si attesta ancora in media a meno di un decimo del livello americano.

La Cina ha superato alcune grandi economie emergenti come l’India, la Russia, l’Indonesia, ma si trova ancora in ritardo rispetto, per esempio, al Brasile. 

La crescita cinese è quindi costosa in termini di capitale. Gli investimenti di capitale necessari per garantire un’unità di produzione sono molto elevati e in costante aumento. L’intensità capitalistica della produzione (rapporto capitale/prodotto) è passata da 2,7 degli anni ’90 a 3,4 nel periodo 2001-2007, per raggiungere quota 3,95 negli anni 2007-2012, superiore al livello giapponese (3,5), tedesco e sudcoreano (3) e statunitense (2,5). Il piano di rilancio 2009-2010, volto ad ammortizzare gli effetti della Grande Crisi Finanziaria sull’economia cinese ha esacerbato la tendenza strutturale all’eccesso di investimento. Esso si è tradotto nel finanziamento a credito di un gran numero di progetti infrastrutturali ed edilizi, l’unico settore che in quegli anni poteva essere potenziato, dal momento che i settori esportatori soffrivano del diffuso calo della domanda da parte dei paesi avanzati. Il rallentamento della crescita cinese dal 2012, per effetto del ristagno della domanda globale e delle misure prese dalle autorità per porre fine alla bolla immobiliare, agli alti livelli di indebitamento e alla corruzione, ha messo in evidenza gli eccessi della capacità produttiva di molte industrie.

Qual è lo spirito della BRI rispetto alla vecchia “Via della seta”?

Durante una visita in Kazakistan nel settembre del 2013 il presidente cinese Xi Jinping avanzò la proposta di un modello innovativo di cooperazione economica regionale per favorire la collaborazione nei paesi percorsi dall’antica Via della Seta e chiamò quest’idea la «Nuova» Via della Seta. Un mese dopo, nello stesso anno, durante il suo discorso al Parlamento indonesiano a Jakarta, Xi propose, come estensione di quella terrestre, una Nuova Via della Seta Marittima, facendo eco alla storica Via della Seta Marittima che collegava la Cina al Mediterraneo. 

Sin dal suo primo annuncio, molto è stato scritto sulla Belt and Road Initiative (BRI), in italiano tradotta spesso – per sopperire alla mancanza di una traduzione letterale di una qualche utilità – con l’espressione «Nuove Vie della Seta». La BRI, complice il suo nome volutamente vago ed evocativo di reti di trasporto, è stata presentata inizialmente, e dunque in tal senso accolta dai più, come un grande programma di investimento infrastrutturale volto ad aumentare la connettività tra la Cina e tutto il continente eurasiatico, in particolare delle aree che più necessitano di collegamenti e infrastrutture di trasporto – cioè i paesi dell’Asia Centrale –, con l’Europa come sua frontiera più occidentale. 

Già a partire da quel momento il governo cinese si è ampiamente profuso nell’illustrazione dell’idea all’origine della BRI, per chiarirne le motivazioni e le caratteristiche, e sgombrare così il campo da alcune interpretazioni che da subito erano state avanzate sull’intento espansionistico e paternalistico dell’iniziativa, paragonata da molti a un grande Piano Marshall per l’Asia Centrale. Ben oltre le infrastrutture di trasporto, la BRI è un’ambiziosa strategia di potenziamento della connettività tra Asia ed Europa: sono cinque i tipi di connettività promossi – non solo fisica, ma anche commerciale, digitale, finanziaria e culturale. Secondo il principale documento di riferimento stilato dalla National Development and Reform Commission (NDRC) della Repubblica Popolare Cinese (RPC), oggi noto come il Libro Bianco della BRI (il titolo completo è Vision and Actions on Jointly Building the Silk Road Economic Belt and 21st Century Maritime Silk Road, vale a dire «Visione e azioni sulla costruzione congiunta della cintura economica della Via della Seta e della Via della Seta Marittima del XXI secolo»), la BRI si fonda su cinque pilastri: coordinamento delle politiche, connettività infrastrutturale, aumento degli scambi commerciali, integrazione finanziaria, scambi culturali. Dall’ottobre del 2016 la BRI è diventata un obiettivo di Stato della RPC, inserito a pieno titolo nella sua Costituzione, a riprova dell’enorme importanza che l’Iniziativa riveste tra gli obiettivi politici del paese.

La BRI è diventata in breve tempo il fulcro di tutta la diplomazia economica cinese, se non della diplomazia cinese tout court.

Il suo obiettivo è quello di promuovere l’integrazione della Cina nell’economia globale lungo vie molto più profonde di quanto non sia mai stato fatto prima, cioè ben oltre i flussi di commercio internazionale e degli investimenti all’estero. Sebbene il governo cinese preferisca ufficialmente definirla un’Iniziativa, essa dovrebbe essere considerata come un vero e proprio programma di apertura del paese, sviluppato in risposta alle mutate circostanze interne e internazionali. Intorno alla BRI il governo cinese ha costruito un’opera colossale di comunicazione economica, istituzionale e politica volta a sfatare i timori di un possibile espansionismo cinese, con un linguaggio intriso di allusioni ai benefici comuni che l’Iniziativa intende portare a tutti i suoi sostenitori. Oggi sono ormai oltre un centinaio, tra paesi e organizzazioni internazionali, i partner che hanno sostenuto ufficialmente la BRI, attraverso accordi di intesa siglati sotto il nome di Memorandum of Understanding (MoU), di grande valenza simbolica, forse più che operativa.

Anche se la Cina ha detto esplicitamente che la BRI non ha obiettivi politici, la politica e l’economia sono intimamente intrecciate, e la finanza è il vero strumento di estensione del potere che la Cina ha di influenzare il mondo: le capacità finanziarie e monetarie nazionali sono volte a raggiungere obiettivi di politica estera.

Che ruolo riveste la finanza nella BRI? E come si articola questa rete finanziaria del paese?

La cooperazione e il sostegno finanziario rientrano tra i pilastri fondamentali della BRI. Secondo il governatore della PBoC, Yi Gang, rispetto al futuro della connettività finanziaria, oggetto del secondo Belt and Road Forum tenutosi a Pechino il 25 aprile 2019, la Cina ha compiuto grandi progressi in materia di sostegno finanziario dato alla BRI. 

In primo luogo, le istituzioni finanziarie cinesi hanno fornito l’equivalente di più di 440 miliardi di dollari per la BRI, tra cui oltre 320 miliardi di renminbi incanalati attraverso i canali preposti alla circolazione estera del renminbi. Il mercato dei capitali cinese ha fornito oltre 500 miliardi di renminbi in finanziamenti azionari per le imprese interessate. Inoltre i paesi e le imprese BRI hanno raccolto più di 65 miliardi di renminbi emettendo panda bond nel mercato cinese, cioè titoli obbligazionari denominati in renminbi, emessi da emittenti con sede al di fuori della RPC.

In secondo luogo, i servizi finanziari sono diventati più sofisticati. Alla fine del 2018 undici banche cinesi hanno aperto 76 filiali in 28 paesi lungo la BRI e circa cinquanta banche in 22 paesi della BRI hanno attività commerciali in Cina. Esse forniscono una più ampia varietà di prodotti e servizi finanziari, tra cui credito, garanzie, sottoscrizione di obbligazioni, fusioni e acquisizioni, gestione del rischio, compensazione e così via.

In terzo luogo, la cooperazione internazionale si è approfondita. La PBoC ha firmato accordi bilaterali di swap in valuta locale con ventuno banche centrali lungo la BRI. I meccanismi di cooperazione interbancaria nella BRI hanno lavorato costantemente per migliorare il dialogo tra istituzioni finanziarie, tra cui l’Associazione Interbancaria Cina-CEEC (Central and Eastern European Countries) e l’Associazione Interbancaria SCO (Shanghai Cooperation Organization). Il governatore della PBoC ha inoltre dichiarato che l’apertura del settore finanziario cinese può svolgere un ruolo nel sostenere e promuovere la BRI, in quanto lo sviluppo e l’apertura del mercato obbligazionario in valuta locale mobilitano efficacemente il capitale a lungo termine. Un maggiore utilizzo della valuta locale contribuisce poi a ridurre i rischi di cambio e di disallineamento valutario. Insomma, non solo la connettività finanziaria sostiene lo sviluppo regolare e sostenibile della BRI, ma la BRI stessa richiede un sistema di investimento e di finanziamento aperto e basato sul mercato, che la Cina dichiara di voler realizzare.

La Cina è riuscita a perseguire il suo obiettivo di aumentare la circolazione del renminbi fuori dai confini nazionali? Ma soprattutto questo sforzo di internazionalizzazione della propria valuta può essere vista come un tentativo di sottrarre centralità e terreno al dollaro?

Il renminbi a tutt’oggi è una valuta non convertibile, che cioè non circola liberamente al di fuori dei confini cinesi.

L’internazionalizzazione del renminbi è un obiettivo del governo di Pechino almeno dal 2009. A oggi l’impatto di questa strategia è misurato non tanto dalla portata ancora limitata delle riforme del settore valutario e finanziario cinesi, ma semplicemente dalla forte crescita dell’uso della valuta cinese per i pagamenti degli scambi internazionali della Cina: attualmente circa il 25% di queste transazioni, rispetto a meno dell’1% nel 2009. Il renminbi è sesto nella classifica delle monete maggiormente utilizzate nei pagamenti internazionali, secondo i dati regolarmente pubblicati da SWIFT, con una quota pari all’1,6%. Si tratta di una percentuale estremamente modesta, se paragonata a quella del dollaro (40,6%) e dell’euro (33,3%). Tuttavia, mercati abbastanza liquidi e diversificati per il renminbi esistono ora a Hong Kong, Londra, Singapore e nella maggior parte dei centri finanziari internazionali di tutto il mondo.

Nonostante tali progressi, il renminbi è evidentemente ancora una moneta in divenire e non una vera e propria valuta internazionale. Non è affatto una «grande moneta» come il dollaro, il cui utilizzo si estende oltre l’ambito delle transazioni internazionali.

Se è vero, parafrasando il premio Nobel per l’economia Robert Mundell, che «le grandi nazioni possiedono grandi monete», la mancanza di una vera e propria moneta – e quindi la necessità di utilizzare il dollaro nella maggior parte delle transazioni internazionali – limita le possibilità della Cina nell’usare le notevoli risorse finanziarie di cui dispone per realizzare i propri obiettivi economici e politici. La mancanza di una valuta che circoli internazionalmente e che riduca la dipendenza della Cina dal dollaro indebolisce il paese sia nelle relazioni internazionali bilaterali, sia in quelle multilaterali. Per questo motivo la BRI include anche il pilastro della cooperazione finanziaria, in sinergia con gli altri obiettivi dell’Iniziativa. 

Dal 2009 la Cina è il più grande esportatore del mondo e nel 2019 il commercio estero rappresentava oltre il 35% del suo PIL. Ogni giorno la Cina esporta in media per un controvalore di quasi 8 miliardi di dollari, e importa per quasi 6 miliardi di dollari. Dunque, ogni giorno la Cina deve gestire una massa enorme di liquidità in dollari e convertirli in renminbi, poiché l’uso del renminbi come mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore è volutamente limitata dalle autorità cinesi. Il grande avanzo commerciale che la Cina ha registrato sin dalla metà degli anni Ottanta ha comportato una complessa gestione monetaria e valutaria, nonché una forte dipendenza finanziaria e politica dal dollaro. La volontà di mantenere una ristretta convertibilità del renminbi e i controlli di capitale (per evitare che fuggano dal paese in cerca di migliori opportunità di impiego) restringono la circolazione della valuta nazionale al di fuori della Cina. Perciò, le autorità monetarie cinesi, che non vogliono rinunciare alla stabilità di un sistema finanziario e valutario protetto, si ritrovano, in estrema sintesi, a dover incoraggiare l’uso del renminbi all’estero.

Oggi la BRI offre un’occasione storica a favore dell’internazionalizzazione del renminbi: attraverso l’aumento del commercio e degli investimenti nei paesi partner fa aumentare in modo significativo la domanda di renminbi al di fuori dei confini nazionali e in tal modo crea le condizioni per estenderne la circolazione all’estero.

L’aspetto più interessante di questa strategia è la modalità, estremamente innovativa e ingegnosa, con la quale la Cina intende far circolare il renminbi nel mondo: un sistema di convertibilità controllata fondato su depositi di renminbi in una rete di banche sparpagliata in vari paesi e, più di recente, attraverso l’emissione di una valuta digitale che possa essere usata anche nei pagamenti internazionali.

Due sono le strade lungo le quali Pechino sta cercando di favorire l’ascesa del renminbi allo status di valuta internazionale. Da un lato, le autorità cinesi utilizzano la leva della dimensione e potenza dell’economia cinese per incoraggiarne l’uso nelle transazioni bilaterali con l’estero, sulla base di una sua presupposta convenienza rispetto a qualunque valuta di paesi terzi, in particolare del dollaro. Dall’altro lato, l’uso internazionale del renminbi è perseguito per effetto coercitivo, sebbene indiretto, derivante dalla grande influenza economica della Cina sulle economie di molti paesi del mondo, che si traduce in potere politico di persuasione.

In un modo o nell’altro, il renminbi deve essere reso più attrattivo per i potenziali utenti. In breve, deve essere reso competitivo. Al momento, di tutti i fattori che concorrono a far emergere una domanda internazionale di renminbi (diversa da quella motivata dalla necessità di regolare il commercio bilaterale con la Cina) è la dimensione economica a spiccare come asso nella manica. L’economia cinese è già un gigante – la seconda più grande del mondo – e in un altro decennio potrebbe superare gli Stati Uniti. Il paese è ora anche il leader mondiale delle esportazioni e il secondo più grande mercato per le importazioni, creando un notevole potenziale per le esternalità di rete.

Più di cento paesi contano oggi la Cina come il loro più grande partner commerciale. Sono invece quasi totalmente assenti tutti gli altri fattori, tra cui spicca uno sviluppo insufficiente del mercato finanziario interno. 

Il governo cinese da qualche anno sta cercando di realizzare un’internazionalizzazione gestita del renminbi facendo leva sulla convenienza e sulla persuasione, in due ambiti: il commercio estero e la finanza. Nel commercio estero sono stati avviati accordi di currency swap con banche centrali estere per facilitare l’uso del renminbi come mezzo di pagamento. A una lettura superficiale, l’obiettivo contingente degli accordi di swap è quello di assicurare contro il tipo di rischi che potrebbero derivare da un’altra crisi finanziaria globale. La disponibilità di finanziamenti in renminbi in caso di emergenza offrirebbe ai partner commerciali cinesi un’utile copertura contro qualsiasi futura crisi di liquidità. Ma le strutture sono anche progettate per fornire renminbi, quando lo si desideri, da utilizzare nel commercio bilaterale su base più regolare, per fornire un incoraggiamento indiretto all’uso commerciale della valuta cinese. A livello privato, infatti, le normative sono state gradualmente alleggerite per consentire la fatturazione e il pagamento di un maggior numero di transazioni commerciali in renminbi, evitando le tradizionali valute di fatturazione come il dollaro. Più direttamente, a partire dal 2009, Pechino ha gradualmente ampliato la gamma delle transazioni commerciali che possono essere regolate in renminbi, promuovendo ulteriormente l’uso della valuta da parte dei non residenti. 

L’altro ambito è la finanza internazionale. L’accento è stato posto sullo sviluppo di mercati attivi per i depositi in renminbi e sulle obbligazioni denominate in renminbi, principalmente «offshore» a Hong Kong, l’ex colonia della corona britannica che dal 1997 è una «regione amministrativa speciale» della Cina. Come vedremo in seguito, Hong Kong è un ingrediente fondamentale della strategia valutaria e finanziaria della RPC che ha servito finora come firewall finanziario, permettendo a Pechino di restare efficacemente isolata dall’instabilità della finanza internazionale, pur dovendo movimentare quotidianamente un’immensa mole di dollari derivanti dai pagamenti del commercio con l’estero.

A oggi la pista del commercio ha visto molti più progressi rispetto a quella della finanza. La Lunga Marcia del renminbi è iniziata alla fine del 2008, quando la PBoC ha iniziato a negoziare una serie di accordi di swap di valuta locale per fornire, quando necessario, finanziamenti in renminbi ad altre banche centrali da utilizzare negli scambi con la Cina. Sei anni dopo erano stati firmati patti con oltre venti economie, tra cui importanti attori come Argentina, Australia, Brasile, Gran Bretagna, Indonesia, Russia, Singapore, Corea del Sud, Svizzera ed Emirati Arabi Uniti. Le dimensioni dei singoli swap variano notevolmente, da appena 700 milioni di renminbi (circa 110 milioni di dollari) per l’Uzbekistan e due miliardi di renminbi (322 milioni di dollari) per l’Albania a 360 miliardi di renminbi (58 miliardi di dollari) per la Corea del Sud e 400 miliardi di renminbi (65 miliardi di dollari) per Hong Kong. Il totale delle agevolazioni ammonta a circa 2,7 trilioni di renminbi (435 miliardi di dollari). 

Finora l’uso è stato prevalentemente locale. Ben l’80% degli scambi commerciali stabiliti in renminbi si è svolto tra la Cina continentale e Hong Kong. Ma la fatturazione in renminbi si sta gradualmente diffondendo e si prevede un ulteriore sostanziale aumento dell’utilizzo della valuta a fini commerciali negli anni a venire. I risultati sul fronte finanziario, invece, seppur non trascurabili, sono stati meno impressionanti. Per la maggior parte Pechino ha proceduto con cautela, contando molto sullo status speciale di Hong Kong come regione amministrativa speciale.

Con la propria valuta e i propri mercati finanziari, Hong Kong offre un utile laboratorio offshore per sperimentare innovazioni che la leadership non è ancora pronta a introdurre «onshore» sulla terraferma. Il modello è a dir poco inusuale. Mai prima d’ora nessun governo ha cercato deliberatamente di sviluppare un mercato offshore per la propria valuta, pur mantenendo un rigoroso controllo finanziario in patria.

Quali sono le sfide che dovrà affrontare Xi Jinping alla luce dell’attuale mutato quadro geopolitico? I rapporti con la Russia sembrano stabili, ma non in ascesa e quanto può costare al paese sbagliare posizionamento?

Xi dovrà rinsaldare il più possibile i rapporti con i paesi più ostili all’ordine liberale occidentale, ed è questa ostilità il collante del gruppo, non tanto il legame con la Cina in piena controriforma verso un capitalismo leninista.

Dal momento che Cina e Russia hanno un posto al Consiglio di Sicurezza, sono esse stesse tecnicamente in una botte di ferro: le istituzioni multilaterali non potranno mai sanzionarle o sollevare il caso di una loro rottura del diritto internazionale.

Al contento le sanzioni occidentali permettono ai regimi di cavalcare l’onda dei propri sentimenti nazionalisti per gridare all’oppressione da parte dell’Occidente.

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