Intervista ad Anna Rizzo a cura di Antonella Vitelli
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò. Ma cosa è rimasto di questo “appartenere”? Quanti kili di intimità, nostalgia e senso di comunità servono per colmare quel conclamato vuoto di servizi, che è al contempo causa ed effetto di quello che comunemente viene definito “spopolamento delle aree interne”?
I dati Istat parlano drammaticamente chiaro, le aree interne del paese sono soggette di più e più velocemente del resto dell’Italia all’abbandono. D’altronde in contrapposizione ai centri urbani, queste risultano essere deficitarie in servizi essenziali come istruzione, scuola e mobilità.
Le cause sono da ricercare in opportunità economiche limitate che portano spesso fasce più giovani della popolazione verso le città. Questo esodo giovanile riduce la natalità nelle aree interne, accelerando il processo di spopolamento.Le aree interne spesso hanno una popolazione più anziana, con un tasso di natalità inferiore rispetto a quello di mortalità. La combinazione di meno nascite e un tasso di mortalità elevato provoca un calo naturale della popolazione. Conseguenze: squilibrio demografico, difficoltà di accesso ai servizi e impoverimento di vitalità culturale e comunitaria. Invertire la rotta è complesso soprattutto se si ammette che la retorica salvifica e ULTRAPOWA dell'immediato post Covid ha mostrato dei forti limiti. C’è stato un momento in cui in tanti hanno pensato di lasciare tutto e trasferirsi in realtà più dislocate.
Tornare a vivere nella provincia è un fenomeno di hype che ha sedotto molti.
scrive nel suo libro “I paesi invisibili” Anna Rizzo. Il testo pubblicato da il Saggiatore si presenta come un vero e proprio Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia.
Ma, nello specifico, da cosa devono essere salvati i nostri borghi?
Pare chiaro che da un lato, bisogna scongiurare morte, abbandono e solitudine; dall'altro, è necessario evitare il "finto vivo", ossia quella visione turistica "mordi e fuggi" che rende i luoghi puramente scenografici, "fondali instagrammabili" vivi solo negli occhi fugaci dei visitatori.
Nelle città si parla da tempo di restituire gli spazi ai residenti, e lo stesso vale per i piccoli centri: servono "custodi", persone che li abitino quotidianamente, in carne e ossa. È una sfida concreta o un suggerimento tardo-romantico destinato a fallire?
Ne abbiamo parlato con Anna Rizzo, antropologa culturale che da anni collabora con diverse amministrazioni locali per rivitalizzare i paesi abbandonati. Da oltre 10 anni segue la riqualificazione di Frattura di Scanno, in provincia dell’Aquila, rasa al suolo dal terremoto del 1915. Un elemento chiave in questo processo di rinascita è stato il fagiolo bianco, una coltivazione tipica di Frattura, che ha lasciato un segno profondo nella storia e nell’identità attuale del territorio.
Anna, nel tuo libro intraprendi un lungo cammino per smascherare un'idea che fino a pochi anni fa era piuttosto diffusa: quella secondo cui i piccoli borghi, remoti e distanti dai centri urbani, potessero essere il luogo ideale per la rinascita di un uomo nuovo, lontano dallo stress cittadino. Quanto c’è di reale in questa visione romantica dei cosiddetti “paesi invisibili”?
Per chi vive nelle aree interne, le difficoltà quotidiane sono ben note. La narrativa che circolava sui media nazionali e nelle campagne di marketing territoriale dava un'immagine idealizzata, molto distante dalla realtà di chi vive nei piccoli centri senza servizi essenziali.
Un tema centrale è quello dell’accessibilità. Nel libro La sfida dell'accessibilità nelle aree interne: riflessioni a partire dalla Valle Arroscia, curato da Edoardo Bacci, Giuseppe Cotella ed Elisa Vitale Brovarone, si discute proprio di come le difficoltà di accesso, sia in termini di infrastrutture fisiche che di servizi digitali e sociali, rappresentino una delle principali sfide per lo sviluppo di queste aree.
I luoghi che un tempo erano spazi di vita, legati profondamente a chi li abitava, stanno perdendo questa connotazione. Nelle città vediamo il fenomeno della gentrificazione, mentre nei piccoli centri il concetto di "borgo" viene spesso utilizzato in modo strumentale per proporre un'idea di habitat “carino” e "instagrammabile". Questo processo si collega a una visione del turismo che andrebbe rivista.
Il turismo è un settore economico importante per questi territori e non va demonizzato. Nemmeno la dicitura borgo usata per intercettare i turisti va screditata. La garanzia per riabitare questi luoghi è avere un lavoro e un reddito. Non c’è gentrificazione nelle aree interne, anzi sono sempre più abbandonate. Il flusso turistico dopo la pandemia si sta reindirizzando verso l’estero, c’è stato un calo delle presenze ovunque.
Michael Perlik nell'articolo "Alpine gentrification: il villaggio di montagna come quartiere metropolitano", pubblicato nel 2011 sulla rivista Revue de géographie alpine esamina il fenomeno della gentrificazione alpina, analizzando come i villaggi di montagna stiano subendo trasformazioni simili a quelle dei quartieri urbani soggetti alla gentrificazione. L'autore esplora il processo attraverso cui i villaggi montani vengono progressivamente trasformati in destinazioni di residenza per una classe sociale più benestante, proveniente dalle aree metropolitane. Questo fenomeno porta a cambiamenti significativi nella composizione sociale, economica e culturale dei villaggi alpini, alterando la loro identità tradizionale e spesso causando la marginalizzazione delle popolazioni locali. Perlik mette in luce le dinamiche che spingono questi processi, come l'incremento del turismo di lusso e la crescente domanda di seconde case da parte di residenti urbani, e riflette sulle implicazioni per la sostenibilità economica e sociale delle comunità alpine.
Una delle immagini più toccanti del tuo libro è quella della signora del Cilento, che lascia la porta di casa aperta affinché i vicini possano verificare il suo stato di salute. Questa immagine ci fa riflettere su come gli anziani siano i più colpiti dalla mancanza di servizi. È proprio questa fascia di età a vivere maggiormente le diseguaglianze di accesso ai servizi?
Gli anziani rimasti soli sono spesso abbandonati dalle istituzioni. Se ne fanno carico le famiglie, i figli e i nipoti, oppure il vicinato e le reti di solidarietà del paese, che però non riescono sempre a soddisfare le esigenze primarie. Mancano presidi medici, farmacie, fisioterapisti, e le infrastrutture per spostarsi sono inadeguate. Chi ha una pensione sociale fatica a riscaldare la casa d’inverno o a nutrirsi adeguatamente.
Scrivi: “I paesi stanno diventando degli obitori di un mondo che non ci appartiene più, che osserviamo nei tavoli anatomici, negli aliti cimiteriali di chi ce li racconta”. Quindi, è tutto destinato a finire così? Esiste un futuro per i borghi italiani o sono condannati all’abbandono definitivo?
Non è una visione escatologica, ma quel mondo, per come ce l’hanno raccontato, è finito nel Novecento. Stiamo assistendo a una trasformazione sociale e demografica: molti paesi, nei prossimi vent’anni, non esisteranno più. È un processo naturale: le persone si spostano dove possono vivere e lavorare dignitosamente. Lo spopolamento dei paesi non è una priorità nelle agende istituzionali.
L'argomento non è centrale politicamente, ma ciò nonostante arrivano dei piccoli segnali dall'Europa. Ad esempio l’eurodeputato socialista Sergio Gutiérrez Prieto chiede di trattare lo spopolamento come “problema di Stato”. Prieto ha recentemente presentato al Parlamento europeo un rapporto in cui si sottolinea la necessità di investire nelle aree spopolate per garantire pari opportunità, occupazione e qualità della vita.
Ma come si riattiva un borgo?
Anna non ha dubbi, per riattivare un borgo ci vogliono giovani, comunità locali e anche cultura. I luoghi vanno studiati, visti da vicino a tal punto da entrarci dentro, solo così si possono elaborare modelli credibili per il riabitare.
Compartecipare è la parola chiave, compartecipare luoghi e anime, arte e persone.
Come è accaduto a Pietraroja per questa bandiera bianca realizzata, collettivamente attraverso la pratica del ricamo, mediante un laboratorio di Irene Macalli con gli abitanti del borgo matesino per simboleggiare memoria, resistenza e voglia di preservarsi dal vortice lento dell'oblio.