Intervista di Antonella Vitelli, maggio 2020
In un editoriale che presto sarà pubblicato sulla rivista specializzata World Psichiatry, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus ha sottolineato che la pandemia di Coronavirus sta facendo crescere in modo significativo il disagio mentale in tutto il mondo. Il rischio è un’ondata di stress post traumatico a livelli senza precedenti. Per capire gli effetti postumi di ciò che abbiamo vissuto ho intervistare Guido Veronese, Psicologo Clinico e psicoterapeuta dell’individuo della coppia e della famiglia. Laureato in Psicologia Clnica e di Comunità presso l’Università di Padova, ha ottenuto il suo dottorato in Psicologia Clinica presso l’Università di Milano-Bicocca, dove attualmente ricopre il ruolo di Professore Associato Psicologia Clinica e di Comunità. Esperto di intervento sui traumi estremi e collettivi, lavora in zone affette da violenza politica, militare e grave vilazione dei diritti umani. Oggi il Professore è responsabile dello "Sportello psicologico di ascolto e intervento per l'emergenza Covid 19" pensato per dare supporto a tutti gli operatori sanitari impiegati nell'emergenza covid 19. Promosso dall'Università degli Studi Milano-Bicocca, lo sportello si propone come spazio di ascolto e gestione dello stress per tutti coloro che ne sentano il bisogno. E' quindi aperto 24 ore su 24, al fine di garantire la massima disponibilità. Lo stesso sportello è accessibile da tutta la popolazione, grazie alla collaborazione del laboratorio He.Co.Psy., Health Conflict Psychology e Medicina Democratica con gli stessi orari e una disponibilità fino a quattro sedute.
Professore cosa fare? In che situazione ci troviamo?
Intanto dobbiamo precisare che ancora non siamo in una fase ‘post’. Certamente gli effetti del virus stanno perdendo di intensità qui da noi in Italia ma sappiamo non molto di ciò che sta accadendo per esempio a New York o in Brasile, dove la pandemia sta ancora colpendo con estrema virulenza. Siamo così, piuttosto, in una fase di trauma prolungato e continuato, ormai da due mesi e chissà ancora per quanto. Cosa fare? Dobbiamo riorganizzare le nostre vite individuali e improntare la vita collettiva a un potenziamento della resilienza. Molto concretamente, tanto a livello micro quanto a livello macro bisogna ristrutturare le nostre priorità: bisogno di sicurezza (sanitaria, economica, relazionale e, perchè no, politica e di giustizia sociale) e il bisogno di socialità che ci consenta di nutrire il nostro senso di appartenenza, di ‘guarire’ dall’esperienza di isolamento e frammentazione che viviamo da lunghi mesi tanto a livello individuale che collettivo. Migliorare la nostra capacità di comunicare con le persone a noi più vicine e all’interno della nostra comunità; comunicare apertamente e liberare le nostre emozioni può essere estremamente di aiuto in un periodo di confusione e di pervasivo senso di insicurezza e incertezza. Infine, uno spazio particolarmente dedicato servirà all’elaborazione del lutto. Lutti personali e collettivi che richiederanno rituali e commemorazioni che ci sono stati negati in periodo di contagio, quando la generazione dei nostri padri e nonni è stata decimata sotto i durissimi colpi del virus.
Professore lei è il referente di un servizio psicologico di ascolto e intervento per l'emergenza Covid 19 presso anche dall’Università degli Studi Milano-Bicocca. Ci racconta questa come nasce questa esperienza?
Fin dall’inizio, come tanti colleghi sparsi in giro per l’Italia e per il mondo (ho e sto avendo contatti con amici statunitensi, norvegesi, sudafricani, in Medioriente), abbiamo pensato con i colleghi del Dipartimento di Scienze Umane “R. Massa”, che dovevamo essere di aiuto e supporto con le nostre competenze alla nostra comunità. Abbiamo iniziato con un servizio di ascolto e supporto psicologico agli operatori sanitari, i quali ci possono contattare in ogni momento sia al nostro centralino che telematicamente per essere accompagnati e sostenuti nel loro durissimo compito per tutto il tempo della pandemia. Il servizio ha trovato immediatamente riscontro in Ateneo, che ci ha supportati e indicati come servizio dell’Università. Successivamente, abbiamo rilevato quanto alto fosse il bisogno nella comunità e in collaborazione con terapeuti volontari di Medicina Democratica che coordiniamo, abbiamo esteso come laboratorio He.Co.Psy (Health, Conflicts & Psychology), che dirigo, uno sportello analogo per la popolazione civile. Anche in questo caso veniamo contattati dalla persona in crisi attraverso il centralino e un terapeuta è pronto a intervenire se necessario anche nelle ore notturne. Abbiamo avviato collaborazioni con il comune di Milano, il Ministero della Salute, e poi, partendo dal basso, con gruppi di volontari e sindacati che sostengono le fasce di popolazione più vulnerabili, come cittadini indigenti e lavoratori che hanno perso il posto o temporaneamente sono fermi.
Quali sono le richieste che vi trovate a dover affrontare?
La tipologia di utenza è la più variegata. Tra operatori sanitari abbiamo affrontato problematiche che variano dallo stress e trauma dell’ondata improvvisa di ricoveri in unità intensiva, fino alla paura della contaminazione, dello stigma sociale, depressioni traumatiche e forti stati d’ansia. Un particolare spazio hanno avuto gli operatori di RSA sul territorio lombardo e non solo, abbandonati a se stessi o non preparati a ricevere uno tsunami di dolore così devastante.
Per quanto riguarda la popolazione abbiamo affrontato storie di indigenza, di solitudine e paura che hanno esacerbato il senso di sofferenza individuale. Separazioni da membri della famiglia, lutti dovuti a COVID, terrore e panico per un presente carico di sofferenza e un futuro incerto, dalle cupe prospettive. Una parola va spesa per la sofferenza psicologica pregressa, abbiamo sentito persone con disagio mentale completamente lasciate a se stesse, spaventate e arrabbiate che nel nostro sportello hanno potuto trovare conforto e orientamento.
Bambini e anziani sembrano i soggetti più colpiti. Questa pandemia a suo avviso porterà delle conseguenze? Se si quali saranno i problemi maggiori con cui fare i conti negli anni a venire, soprattutto legati al mondo dell’infanzia.
Assolutamente, bambini e anziani sono tra le fasce da considerarsi più vulnerabili. Se in futuro non si investirà nel supportare infanzia e ‘ageing’ correremo il pericolo di costruire una società ad alto rischio di depressione. Per quanto riguarda l’infanzia, è urgente ricostruire uno spazio di fisicità e socialità che è stato contratto al minimo, quasi a sparire. Corporeità e socializzazione sono tra i prerequisiti principi per uno sviluppo adeguato del bambino. Naturalmente, gli eventi luttuosi e catastrofici a cui i nostri bambini sono stati esposti, lo stravolgimento delle loro vite, lascerà un segno che dovrà essere rinarrato e rielaborato con il supporto dell’adulto per ricostruire uno spazio di sviluppo sicuro dove i nostri figli possano ritrovare la giusta serenità per crescere. I nostri anziani, dall’ altra parte, rischiano di essere ulteriormente ghettizzati in un mondo a rischio di contagio dove essi sono i soggetti più esposti ad ammalarsi e morire. Se, poi, rinunceremo colpevolmente ad occuparci degli anziani correremo il rischio di perdere la nostra memoria collettiva, le nostre narrazioni comunitarie e storiche. In questo caso, i rischi potrebbero essere devastanti perchè senza memoria il passato può ritornare con i suoi più tristi e pericolosi fantasmi.