Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri. Intervista ad Antonio Funiciello

Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri. Intervista ad Antonio Funiciello

Intervista di Gioconda Fappiano.

Campano, 45 anni, laureato in filosofia alla Federico II, da poche ore è il capo di gabinetto del Governo di Mario Draghi. E’ stato dal 2016 al 2018 Capo staff dell’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il suo braccio destro, il più vicino al leader, chiamato a consigliarlo e a criticarlo restando nell’anonimato. Il suo ultimo libro, edito da Rizzoli, si chiama Il metodo Machiavelli racconta proprio la sua esperienza con il Governo Gentiloni. 

Antonio Funiciello, partiamo dalla decisione di scrivere un libro, Il metodo Machiavelli, (Rizzoli, settembre 2019 ) che è stato definito “un atto d’amore per la politica”. Una scelta controcorrente di questi tempi, oggi che la politica “consiste nel pregiudizio verso la politica” come scrisse Hannah Arendt.

Mi sembrava interessante raccontare la politica da un punto di vista poco considerato, quello di chi lavora all’ombra dei leader. Mostrare come l’ambiente di lavoro di uno staff politico non sia affatto dissimile da quello di altri ambienti di lavoro. E descrivere come chi fa il mestiere di assistere e consigliare un leader interviene nel processo di formazione della decisione democratica. Dando conto così di un aspetto della democrazia di cui si parla poco.

Lai apre il suo saggio con un intero capitolo dedicato al primo staff della storia: gli apostoli. Scrive anche che Pietro , scelto come chief of staff, era incredibilmente imperfetto . Tra l’altro rinnegherà il suo maestro per ben tre volte , ma nella narrazione religiosa il traditore per eccellenza per tutti è Giuda. Perché allora tra i suoi discepoli Gesù sceglie proprio Pietro per fondare la sua Chiesa? 

La mia è una lettura molto laica e secolare dei vangeli canonici. Quelle per cui Gesù sceglie Pietro per fondare la sua Chiesa sono ragioni religiose assai complesse, sulle quali io non ho adeguati strumenti per indugiare. Leggendo i vangeli come il resoconto di tre anni di predicazione in giro per la Palestina, con tutte le difficoltà legate all’organizzazione di questa impresa, non c’è dubbio che Pietro sia stato scelto come capo dei Dodici perché  aveva spiccate qualità di leadership. Tra coloro che lavorano in uno staff, chi lo dirige deve avere questo tipo di qualità.  

Machiavelli, l’ispiratore del metodo illustrato in questo saggio, dedica due interi capitoli del “Principe” ai consiglieri, delineando le regole del perfetto consigliere. La prima regola sembra essere quella del “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”; ne vengono poi  altre come la conoscenza puntuale delle situazioni e dei fenomeni politici, la capacità di suscitare consenso, la passione per l’anonimato. Tra gli Chief of staff di altri governi stranieri che lei ha conosciuto, quale si avvicinava di più al modello machiavellico?

Tutti. Quello che si avvicina meno al modello machiavelliano è paradossalmente lo staff all’italiana.

Perché in Italia abbiamo un capo del governo più debole dei suoi corrispettivi occidentali e un potere esecutivo più fragile e contraddittorio.

E nessuno pensa ormai più a ridefinire in maniera più intelligente ed efficace i rapporti tra esecutivo e legislativo. Uno dei modi migliori di avere un capo del governo debole è rendergli più complicato dotarsi di uno staff di consiglieri organizzato come lo intendeva Niccolò Machiavelli. 

Lei è stato capo staff di Paolo Gentiloni tra il 2016 e il 2018, premier dopo il governo Renzi, in un periodo complicato durante il quale il capo del governo era bersagliato in gran parte dal “fuoco amico”. Infatti ricorda nel suo  libro che  i giornali cominciarono a riferirsi alla presidenza del Consiglio con le espressioni Chigi 1 (il premier Gentiloni, e lo staff che lei dirigeva) e Chigi 2 ( il controcanto di Renzi, cioè la Boschi e i suoi assistenti). Come si gestiscono rapporti così conflittuali e qual è in merito il primo consiglio che lei si è sentito di dare al capo del governo?

La macchina amministrativa dell’esecutivo si compone di vari elementi. L’ideale è che tutti questi elementi si muovano sincronicamente secondo le direttive politiche del Presidente del Consiglio, a cui la nostra Costituzione attribuisce il compito di dirigere la politica generale del governo, mantenendo l’unità di indirizzo politico ed amministrativo e coordinando l’attività dei ministri. Se una tessera del puzzle non si incastra bene, se ne può fare anche a meno. Quando il puzzle sarà concluso, incorniciato e appeso alla parete, dell’assenza di quella singola tessera si accorgeranno solo in pochi.

Uno dei danni maggiori per un leader è formare uno staff di adulatori, un inner circle la cui unica funzione è compiacere il capo. Nel suo libro si dice anche che il pregio maggiore per un consigliere politico più che la fedeltà è la lealtà verso il leader. Nella sua esperienza personale, si è mai trovato a dissentire con Gentiloni?

È capitato, certo. E non ha mai rappresentato un problema. In parte perché il Presidente Gentiloni è un uomo molto equilibrato e sicuro di sé, e le persone sicure di se stesse non temono il dissenso. In parte perché amava lavorare coi suoi collaboratori, forse perché ha cominciato a fare politica ad alti livelli collaborando con un altro leader, era il portavoce di Francesco Rutelli quando fu eletto per la prima volta sindaco di Roma.

Mi vuole indicare un pregio e un difetto di Paolo Gentiloni? Secondo lei è stato un leader più “tecnico” o più spiccatamente “machiavellico”?

È un leader squisitamente politico. Quindi rigorosamente machiavelliano. È uno degli ultimi professionisti della politica, con un eccezionale culto dello stato e un profondo amore per la cosa pubblica. Ha tutti i pregi e i difetti dei leader di questo genere. 

Mac Alpine, consigliere della Thatcher che lei cita più volte nel libro, dice che non c’è alcun riconoscimento che il consigliere possa ricavare dalle sue mansioni se non quello dell’esercizio del suo ruolo funzionale. Jonathan Powell, capo staff di Tony Blair, aggiunge inoltre che è indispensabile tenere a bada il proprio ego e non travalicare mai lo spazio del leader.  Quale forte motivazione spinge dunque  un consigliere politico a lavorare nell’ombra e nel perpetuo anonimato in un mondo in cui non si esiste se non si appare?

In effetti il consigliere politico, che vive nell’ombra, rappresenta la leale opposizione di un mondo siffatto.

Al di là delle battute, stare nell’ombra consente di lavorare meglio. Permette di muoversi con maggiore libertà mentre si istruisce una qualsiasi pratica per il proprio leader. È un’opportunità eccezionale potersi muovere in questo modo.

In una parte del suo libro lei parla dei leader che vanno soggetti a profonde depressioni e parla dell’impegno profuso da Zanda, consigliere di Cossiga, quando il presidente fu vittima di un periodo di crisi depressiva. E’ compito di un consigliere anche proteggere un leader dalla propria fragilità?

I leader sono uomini e donne in carne e ossa, con i loro difetti, i loro limiti, le loro debolezze. E sono persone molto sole.

Non c’è momento più solitario nella vita sociale di quello che sperimenta un leader quando deve assumere una qualsiasi decisione.

La solitudine è forse l’attributo più specifico della leadership. Se tutto questo è vero - e, mi creda, è molto vero - ovvio che un leader abbia bisogno di persone accanto a sé che lo proteggano. Anche perché un leader che mostri in pubblico i propri difetti, i propri limiti e le proprie debolezze, si espone agli attacchi degli avversari, rischiando di perdere la sua posizione di leadership. E se un leader smette di essere leader, il consigliere, che vive in sua funzione, smette di essere consigliere. 

Nel confronto tra politica e burocrazia lei sostiene che è la politica che ne esce peggio spezzando una lancia a favore dei funzionari. Come mai?

La mia esperienza mi ha portato a collaborare con molti esponenti dell’alta amministrazione dello stato italiano. Ho incontrato uomini e donne di eccezionale valore, da cui ho imparato moltissimo.

La qualità media di un parlamentare è incommensurabilmente più bassa di quella di un qualunque membro della nostra burocrazia.

Questo è un fatto drammatico. Spiace dirlo. Ma è un fatto.

Funiciello, lei ha incontrato i principali leader del mondo da Donald Trump a Xi Jinping, da Theresa May a Emmanuel Macron durante il G7 di Taormina, un Consiglio europeo e l’Assemblea generale dell’Onu nell’anno in cui l’Italia è stato membro del Consiglio di sicurezza. C’è un aneddoto particolare che vuole raccontarci su uno di questi leader?

Nel libro provo qua e là a raccontare come lavorano. Gli aneddoti li tengo per me. Ormai il racconto della politica è tutto aneddotico e retroscenista. È uno dei motivi per cui la gente detesta i politici e non crede più nella funzione della politica. E io amo la politica. 

Nell’ultimo capitolo del suo libro, Anime salve, lei dice che la verità e il coraggio sono i compagni di strada di un potere che voglia restare mezzo della politica e non scopo di se stesso. Quale personalità politica italiana degli ultimi due secoli ha esercitato secondo lei questa forma di potere?

Se facciamo riferimento a un arco temporale così ampio, mi vengono in mente due personaggi, pur diversissimi tra loro, che non hanno mai avuto paura della verità e del coraggio: Giuseppe Garibaldi e Alcide De Gasperi.  

Nel giugno del 2018 lei esce da palazzo Chigi con l’insediamento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Racconta di essere andato via a bordo del suo scooter portando con sé il distintivo d’appartenenza del Commissariato per le onoranze ai caduti, il berretto da baseball del servizio di sicurezza presidenziale, l’ultimo volume de la “Disquisizione sul governo” di John Calhoun e infine il poster di Lyndon Johnson delle presidenziali del 1964. Sono la verità e il coraggio a suggerirle di viaggiare sempre con un bagaglio leggero? 

Quando le domande sono così ben congegnate e serbano in sé la migliore risposta possibile, replicare è davvero superfluo.

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