La politica estera russa e il Medio Oriente: interessi e strategie nello scacchiere geopolitico

La politica estera russa e il Medio Oriente: interessi e strategie nello scacchiere geopolitico

Intervista di Antonella Vitelli, aprile 2019

Com'è cambiata la politica della Russia negli ultimi vent'anni? Come siamo passati da una politica del disengagement ad un deciso interventismo? Quali i rapporti con la Siria e il Medio Oriente? L'ho chiesto a Chiara Lovotti, Associate Research Fellow presso l'Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa dell'ISPI (Istituto italiano per gli studi di politica internazionale). Diversi viaggi studio l'hanno portata a studiare il russo presso l'Università Statale Lomonosov di Mosca e l'arabo presso la scuola Ahlan di Amman, dove cerca di tornare appena può. 


Professoressa com’è cambiata la politica estera della Russia negli ultimi anni. Siamo passati da un sostanziale disengagement a un deciso interventismo soprattutto nel Medio Oriente. Cos’è successo? E cos’ha spinto Mosca all’interventismo?

Senza dubbio, la politica estera russa verso la regione mediorientale è cambiata molto nell’ultimo decennio. Abbiamo visto Mosca passare da un sostanziale disimpegno dal Medio Oriente, che di fatto era coinciso con il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta e si era protratto fino almeno a metà degli anni 2000, a una politica di graduale riavvicinamento all’area. Sono state però le rivolte arabe del 2011, e in particolare la rivolta siriana sfociata in quella guerra atroce che ancora non si è conclusa, a fornire a Mosca il pretesto per intervenire attivamente negli affari mediorientali. Ma se proviamo a leggere gli eventi attuali in una prospettiva storica più ampia, forse il cambio di rotta del Cremlino ci sembra meno sconvolgente. La presenza russa in Medio Oriente non è certamente una novità degli ultimi anni. Storicamente, il Medio Oriente ha sempre rappresentato un’area cruciale per la proiezione estera russa; pensiamo all’Impero Ottomano, agli anni del Grande Gioco degli imperi coloniali britannico e zarista, e poi a quello che il Medio Oriente ha rappresentato per l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, un’area nella quale confrontare gli Stati Uniti e, ancora più importante, un laboratorio per i dirigenti sovietici che cercavano di esportare il modello comunista di sviluppo politico, istituzionale ed economico. Il crollo dell’Unione Sovietica ha relegato Mosca in una situazione di marginalità a livello globale che si è protratta fino agli anni 2000, quando la Russia di Putin ha cominciato lentamente a riaffacciarsi al palcoscenico della politica globale. Quindi, è certamente vero, come dice lei, che Mosca è passata da un sostanziale disengagement a una spiccata presenza in Medio Oriente, ma alla luce della storia questa sembra piuttosto la ripresa di un rapporto naturale, che la fine della Guerra fredda aveva semplicemente fatto dimenticare.

Quello che ha spinto Mosca a tornare in questa regione è semplicemente l’importanza strategica che la stessa ha sempre rivestito: un vicinato dove è sempre stato importante per Mosca avere alleati stabili e un teatro cruciale di confronto con gli Stati Uniti.

Dov’è cresciuta di più l’influenza della Russia?

È difficile identificare un Paese specifico in cui il peso politico della Russia, in altri termini la sua influenza, sia cresciuto maggiormente. Certo, se pensiamo alla Siria, non possiamo esimerci da notare come Mosca sia divenuta uno degli attori esterni principali – assieme alla Turchia, all’Iran e agli Stati Uniti – e forse quello che al momento gode di maggiore leverage su Damasco. Eppure persino nel caso dell’influenza russa in Siria vi sono almeno due specifiche che vale la pena sottolineare. La prima, e ancora una volta dobbiamo ricorrere alla storia, per quanto si possa senz’altro parlare di una accresciuta influenza russa nel Paese arabo negli ultimi anni, bisogna ammettere che Mosca partiva da una posizione di grande vantaggio: i russi godevano già di un rapporto privilegiato con Damasco, con i dirigenti del partito Baath e in particolare con la famiglia Assad, ancora oggi al potere. Anzi, è proprio in virtù di questo legame storico che si è andata rafforzando la convergenza attuale. La seconda, dovuta specifica riguarda la fattività stessa, o meglio l’efficacia, dell’influenza russa in Siria: Assad ha cercato l’appoggio di Putin nel momento del bisogno ma, ben lontano da comportarsi come un burattino nelle mani del patrono russo, ha sempre dimostrato di non essere disposto a fare concessioni in campo politico, né sembra disposto a farne in futuro. Questo è problematico soprattutto ora che il conflitto armato sembra vivere le sue ultime fasi e che comincia a delinearsi uno scenario “post-conflitto”, in cui Mosca è consapevole che riforme politiche da parte di Damasco siano necessarie per una auspicata stabilità futura, e che Assad non sembra voler muovere alcun passo in questo senso.

Alla luce di ciò, possiamo semmai dire che l’influenza russa è cresciuta in generale in tutta la regione mediorientale, muovendo dalla crisi siriana.

È cresciuta in Nord Africa, pensiamo a quello che sta succedendo proprio in questi giorni in Libia, dove sembra esserci un coinvolgimento russo dietro le azioni del Generale Haftar. È cresciuta senz’altro nei paesi arabi del Golfo, che durante la competizione bipolare della Guerra fredda erano supportati dal campo occidentale, Washington, e i cui mercati erano chiusi all’Unione Sovietica. E poi, non da ultimo, forse meno evidente ma non per questo meno importante, la politica estera di Putin in Medio Oriente ha incontrato un gradimento sempre crescente da parte degli stessi russi. L’intervento militare in Siria (2015) è stato presentato dai dirigenti russi come una necessità “domestica”: bisognava dare una sferzata all’estremismo islamico, arginare il fenomeno del terrorismo transnazionale, difendere i cristiani ortodossi nella regione, portare stabilità nel Vicino Oriente, in difesa dell’interesse nazionale russo.

Cos’ha rappresentato la vendita delle armi nel consolidamento delle relazioni geopolitiche russe?

Uno strumento, uno strumento di politica estera.

Una delle prime riforme a cui si dedicò Putin quando venne eletto Presidente nel 2000 fu proprio quella che riguardò proprio il settore della Difesa, e consistette nel riunire diverse aziende private sotto un’unica grande azienda statale delle armi, il colosso Rosoboronexport.

In questo modo, l’industria della Difesa veniva messa, di fatto, a piena disposizione dello stato, e quindi anche della sua politica estera. Da allora la Russia di Putin, che già progettava un graduale ritorno al palcoscenico della politica globale, si è servita anche della vendita delle armi per raggiungere i suoi obiettivi geopolitici; prima ancora che servire gli interessi economici di Mosca, l’arms export ha rappresentato uno strumento infallibile per costruire solide relazioni con i partner acquirenti. Non a caso, con riferimento all’arms export russo alcuni autori hanno parlato proprio di “diplomazia delle armi”; una diplomazia che, certamente, in Medio Oriente è stata facilitata dai legami storici fra questi Paesi e l’industria militare sovietica che, soprattutto dalla metà degli anni Cinquanta, aveva creato un vero e proprio network di clienti – dalla Siria all’Iraq, dallo Yemen all’Afghanistan, dall’Algeria all’Iran – rimasti a lungo dipendenti dall’approvvigionamento russo.

Da quale paese è partito il grande ritorno russo?

È difficile dire da quale Paese esattamente sia partito il ritorno della Russia, ammesso si possa identificare con un Paese specifico. Prima ancora che scoppiasse la crisi siriana o che si palesassero le nuove opportunità economiche, la Russia di Putin aveva già cominciato a riaffacciarsi al Medio Oriente, in cerca di nuove occasioni di riscatto. Il ritorno della Russia è partito principalmente da Mosca, dai palazzi di governo dove è stato attentamente studiato. Da un certo punto di vista, è stato l’Egitto che ha permesso alla Russia di fare il suo grande ritorno dapprima nel mercato regionale delle armi; nel settembre 2014, Mosca e l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi firmarono un accordo per la compravendita di armi russe per un ammontare di 3,5 miliardi di dollari. A questo ha fatto seguito, l’anno successivo (2015), l’accordo per la costruzione della centrale nucleare egiziana di el-Dabaa, a ovest di Alessandria, che dovrà realizzarsi entro il 2017 e vedrà Mosca – rappresentata dal colosso dell’energia atomica Rosatom – impegnata nella costruzione del più grande progetto infrastrutturale russo in Egitto dopo la diga di Assuan. Da un punto di vista più prettamente geopolitico, invece, il grande ritorno della Russia è cominciato dalla Siria, unico Paese dove Mosca ha dispiegato le proprie truppe nella strenua difesa del protetto siriano e dove si trova a combattere accanto alle forze leali ad Assad da ormai tre anni e mezzo. La Siria è stato il Paese che ha permesso alla Russia di risedersi ai tavoli della politica globale: il vertice di Astana, in particolare, coordinato da Mosca assieme a Turchia e Iran, ha avuto il merito di superare lo stallo in cui versavano i colloqui di pace a guida ONU e creare una nuova cornice negoziale. Da qui, Mosca ha acquisito un peso diplomatico sempre maggiore, che le ha dato la forza e la credibilità necessarie per provare a proporsi come mediatrice anche in altri contesti di crisi, ad esempio in Yemen o in Libia.

In un certo senso, poi, potremmo dire che buona parte del ritorno della Russia in Medio Oriente sia stato favorito non da un attore mediorientale, ma da un attore esterno: gli Stati Uniti.

La politica di graduale disimpegno americano, cominciata da Obama e nel solco della quale si è inserito l’attuale Presidente Trump (si pensi ad esempio al congelamento degli aiuti all’Egitto nel 2014, o alla decisione di Obama di non intervenire in Siria, o all’annuncio di Trump dello scorso dicembre 2018 circa il ritiro del contingente USA da Siria e Afghanistan), ha fornito a Mosca la situazione ideale per tornare in Medio Oriente, quella cioè di un vuoto di potere che aspettava solo di essere colmato.

Qual è la relazione tra la Russia e la Siria?

Quella fra Mosca e Damasco è una relazione molto profonda, che va ben oltre le contingenze attuali.

È una relazione che si è costruita lungo tutto il corso del secolo scorso, e che si è rafforzata in particolare con l’ascesa al potere di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar al-Assad.

Ai tempi della Guerra Fredda, la Siria e la Russia erano unite da una solida collaborazione economica e soprattutto militare, ma anche da una collaborazione istituzionale. Questa relazione di lunga data e questo legame profondo sono alla base della convergenza attuale fra i due Paesi. Oggi, la Russia di Putin è scesa in campo perché il suo alleato, o meglio il suo protetto, Assad rimanga al potere e riconquisti la totalità del territorio siriano sottrattogli per mano dei ribelli, e perché questo faccia comunque parte del futuro assetto politico della Siria, una volta che si andrà definendo una qualche forma di transizione post-conflitto. Mosca però è ben consapevole che Assad dovrà fare qualche passo indietro se vorrà garantire una transizione; gli viene chiesto tanto dai siriani quanto dalla comunità internazionale, che sarà poi quella che dovrà elargire buona parte dei fondi destinati alla complessa ricostruzione del Paese. Dal canto suo, però, Assad non sembra disposto a fare alcuna concessione a riguardo, né in termini di dialogo con le opposizioni né in termini di possibili riforme. La relazione fra la Russia e la Siria è certamente solida e longeva, ma non per questo priva di ombre che gettano un manto di incertezza sul suo futuro.

Qual è la posizione della Russia sull’attacco dei turchi contro il cantone curdo di Afrin?

La posizione russa sulla cosiddetta operazione “Ramoscello d’olivo”, lanciata da Ankara il gennaio 2018 con il principale obiettivo di scacciare le milizie curde dello Ypg dalla zona, è stata quantomeno controversa.

Il fatto che le truppe russe di stanza nella zona fossero state evacuate nei giorni immediatamente precedenti l’attacco curdo aveva fatto pensare che Ankara avesse informato Mosca dell’offensiva imminente, e che quest’ultima avesse dato il proprio benestare, ordinando dunque il ritiro del proprio contingente per non rischiare venisse danneggiato.

Ufficialmente, però, i russi hanno sempre mantenuto una posizione neutrale su Afrin, un dossier che certamente li mette in imbarazzo con il Presidente siriano Assad. La relazione fra la Russia e la Turchia in effetti è estremamente delicata. Da una parte vi è Ankara, che insieme a Mosca e all’alleata Teheran fa parte del cosiddetto “trio di Astana”, il triangolo russo-turco-iraniano che conduce i dialoghi di pace sulla Siria nella capitale kazaka, a cui poi sono susseguiti diversi incontri anche in altre località. Obiettivo del triumvirato è quello di raggiungere una soluzione militare della guerra in Siria sulla base della quale discutere il nuovo assetto politico della Siria, di cui Assad farà necessariamente parte. Ciononostante, Ankara non gode di buone relazioni con il Presidente siriano e proprio le frequenti divergenze con Damasco l’hanno spesso portata a punti di frizione con Mosca, prima protettrice di Assad. Dall’altra parte c’è Mosca, che, come nel caso di Afrin, si è spesso trovata nella difficile posizione di dover scegliere dove far pendere l’ago della bilancia, se verso Damasco o verso Ankara. Da un lato, Mosca è determinata a sostenere fino in fondo il suo alleato siriano; non ha mai fatto passi indietro da questo punto di vista e c’è da aspettarsi che non ne farà. Dall’altro, non è nemmeno intenzionata a rinunciare all’alleanza con la Turchia, soprattutto ora che importanti accordi commerciali sono stati siglati con Ankara (dalla vendita di armi alla costruzione di una centrale nucleare) e che le azioni turche rappresentano una spina nel fianco alla NATO e quindi all’amministrazione americana. Per quanto riguarda gli equilibri fra potenze internazionali in Siria, è forse questa la triangolazione più delicata, i cui fragili equilibri sembrano sempre sul punto di saltare e rovesciare lo status quo (pensiamo alla fragile tregua russo-turca raggiunta a Idlib).

 

 

Chiara Lovotti è Associate Research Fellow presso l'Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa dell'ISPI (Istituto italiano per gli studi di politica internazionale). Si interessa alle relazioni internazionali del Medio Oriente, in particolare alle relazioni fra questi paesi e la Russia, e alla politica estera russa verso l'area. Chiara è anche dottoranda presso la facoltà di Storia dell'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, dove lavora a una tesi sul ruolo e l'impatto dell'Unione Sovietica e il processo di state-building nei Paesi Arabi post-coloniali, in particolare in Iraq, Siria ed Egitto. Ha conseguito una laurea triennale in Lingue per le Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano, una laurea specialistica in Development Studies all'Università di Louvain-la-Neuve e un Master in Middle Eastern Studies all'Alta Scuola di Economica e Relazioni Internazionali di Milano Diversi viaggi studio l'hanno portata a studiare il russo presso l'Università Statale Lomonosov di Mosca e l'arabo presso la scuola Ahlan di Amman, dove cerca di tornare appena può.
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