L'Italia spaccata dall'autonomia differenziata

L'Italia spaccata dall'autonomia differenziata

Intervista a Francesco Sinopoli, Presidente della Fondazione “Di Vittorio” di Gioconda Fappiano

"Una nuova geografia dei servizi e dei diritti tra regioni ricche e povere" con queste parole da più parti viene sintetizzata la proposta di Autonomia differenziata che fa capo al Ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli. L'idea di base concerne una potenziale svolta nel modo in cui le competenze amministrative vengono distribuite tra lo Stato centrale e le regioni con l'obiettivo di incrementare l'efficienza amministrativa e avvicinare le decisioni alle necessità specifiche dei cittadini. Ambiti quali la sanità, l'istruzione e le infrastrutture sono al centro di questa riforma, che intende permettere una gestione più diretta e personalizzata, basata sulle peculiarità territoriali e sulle esigenze locali. Ma al di là delle intenzioni appare chiaro che uno degli aspetti più controversi della proposta riguarda le sue implicazioni economiche e sociali, in particolare il rischio di accrescere il divario tra Nord e Sud. La preoccupazione principale è che l'assegnazione di maggiori autonomie senza un corrispondente meccanismo di perequazione finanziaria possa favorire le regioni più ricche a discapito di quelle più povere, che rischiano di veder erodere ulteriormente la qualità dell'offerta ai cittadini. Senza considerare l'aspetto cruciale delle possibilità. Le regioni più ricche avrebbero maggiori risorse per retribuire operatori sanitari, insegnanti così attraendo tutte le migliori professionalità. 

Per mitigare tali rischi sarebbe fondamentale che la proposta legislativa includa meccanismi di perequazione che garantiscano l'equità tra le regioni, ma nella realtà a che punto siamo? Ne ha  parlato su Lentiapois.it Francesco Sinopoli, Presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

Sinopoli il disegno di legge sull'Autonomia Differenziata per le Regioni a statuto ordinario è uno strumento per migliorare l'efficienza e il controllo della spesa pubblica o uno strumento per aumentare le disuguaglianze tra le regioni?

In realtà, l’autonomia differenziata, così come prevista dal ministro Calderoli, è uno strumento che cristallizza le disuguaglianze già presenti sul nostro territorio. E lo fa costruendo una sorta di federalismo finto nel quale saranno legittimate venti Regioni a statuto speciale, ciascuna delle quali potrà (o dovrà) aprire vertenze col governo centrale di Roma su alcune o su tutte le 23 competenze previste dalla legge, oggi in discussione in Parlamento. Dal punto di vista politico, si tratta di uno scambio maldestro e miserabile tra la Lega e Fratelli d’Italia, in relazione all’altro aspetto della riforma, quello del cosiddetto premierato. Così avremo uno Stato arlecchino dal punto di vista dei poteri regionali, e uno Stato semi-totalitario dal punto di vista della divisione e del bilanciamento dei poteri istituzionali. Con l’elezione diretta del presidente del Consiglio scomparirà, di fatto, la Repubblica parlamentare e le stesse funzioni del Presidente della Repubblica saranno ritoccate e sminuite. Quindi, l’autonomia differenziata non è certo uno strumento per migliorare l’efficienza della spesa pubblica né per eliminare le disuguaglianze, come d’altro canto dimostra il fallimento della commissione Cassese, il quale non ha tenuto conto dei rilievi critici mossi dai suoi stessi “saggi” al provvedimento legislativo. La scuola, la sanità, la giustizia, ad esempio, non possono essere considerate come merce di scambio tra Regioni e Stato, altrimenti verrebbe meno il dettato costituzionale e sarebbe una orrenda legittimazione di trattamenti “differenziati” di servizi e diritti universali a seconda del luogo in cui si nasce o si vive. Insomma, il giudizio sul disegno di legge Calderoli è oltremodo negativo proprio perché pericoloso dal punto di vista costituzionale, istituzionale e sociale. E bene ha fatto la Cgil a intraprendere una stagione di lotta contro lo scempio della Repubblica, fino a immaginare un referendum, dal momento che non si tratta di legge costituzionale.

 La riforma del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nel novembre del 2001, secondo lei ha aperto la strada all'attuale disegno di legge sull'autonomia differenziata?

Fu sicuramente un errore del governo di centrosinistra guidato allora da Giuliano Amato. Si volle inseguire la Lega sul suo stesso terreno, quello del federalismo, e ne nacque un ibrido costituzionale, per lo più incomprensibile. Di certo non è nata una nuova Repubblica federale sul modello tedesco o americano, né furono previste correzioni in corso d’opera. La responsabilità politica di quella riforma costituzionale risiede non tanto nelle competenze, ma nell’aver concesso politicamente alle Regioni di eleggere direttamente il presidente, stabilendo così una prima frattura tra la legittimazione popolare dei cosiddetti “governatori” e il parlamentarismo. Da questa frattura nascono i maggiori problemi nel rapporto tra Regioni e istituzioni centrali, governo e parlamento, come abbiamo visto nel corso della gestione della pandemia. Da questa trasformazione, anche lessicale, dei presidenti di Regione in “governatori” derivano tutti gli equivoci e le anomalie della autonomia differenziata. Un errore politico che stiamo pagando a caro prezzo. 

Una delle battaglie da sostenere riguarda i LEP, cioè i livelli essenziali di prestazione, che vanno garantiti sul territorio nazionale e sui quali il confronto tra alcuni presidenti di regione e il Governo si preannuncia molto aspro. Cosa pensa lei a proposito?

Sui livelli essenziali delle prestazioni va fatta una duplice considerazione. Intanto, sarebbe opportuno stabilire una metodologia certa nelle cifre: a cosa ci si riferisce, alla spesa pro capite o alla spesa storica? Facciamo riferimento a contesti specifici, o i contesti socio-economici spariscono magicamente come è accaduto nella commissione Cassese? Se non diamo risposte di metodo, i Lep sono solamente alibi per nascondere la realtà dei contesti sociali sui quali l’autonomia differenziata peserà. Ecco perché già oggi nascono conflitti tra alcune regioni del sud e il governo centrale proprio sul tema dei trasferimenti finanziari e sulla efficienza burocratica. 

Ultimamente in Italia si sta assistendo ad una retrocessione sul tema dei diritti. Secondo lei, il disegno di legge Calderoli si prefigura come un atto di violazione del principio di solidarietà economica e sociale  o queste sono solo considerazioni strumentali e catastrofiste di una parte politica?

La retrocessione in tema di diritti sociali e costituzionali è in atto da tempo. L’autonomia differenziata non fa che cristallizzare la situazione e infilarsi in quella ideologia del “si salvi chi può” tipica dell’individualismo neoliberista. L’autonomia differenziata è la figlia matura di quella ideologia neocapitalistica che punta a uscire dalla sua crisi strutturale sacrificando il destino di intere popolazioni, ovviamente del Mezzogiorno. Ecco perché è oggi necessario un rinnovato pensiero meridionalista.

Sanità e Scuola sono due nodi centrali sui quali si gioca il destino del Paese. Come influirebbe l'autonomia differenziata su queste materie?

La salute e l’istruzione, come la giustizia e il lavoro, sono diritti umani fondamentali e universali protetti dalla nostra Costituzione. Non si possono frammentare a seconda dei gradi di ricchezza dei territori, o a seconda delle scelte neoliberiste. Non si tratta di aziende, come qualcuno ha voluto farci intendere nel passato. L’aziendalizzazione della sanità e dell’istruzione sono un male assoluto per l’affermazione dei diritti universali, creano disuguaglianze, favoriscono la scelta individuale e di censo. Chi può permetterselo sceglie oggi l’ospedale migliore o l’istruzione migliore. Dobbiamo uscire da questa tragedia.

Riguardo al tema del Lavoro? C'è il rischio del ricorso a sistemi di reclutamento esclusivamente territoriali?

Ovviamente parliamo dei sistemi di reclutamento dell’apparato pubblico. La Costituzione è chiara, basta applicarla. Si accede per concorso pubblico e i concorsi sono nazionali.

Alcuni pensano che alla fine il disegno di legge Calderoli non passerà e che tutto questo non sia altro che uno stratagemma politico per barattare il premierato con la Lega. Lei cosa ne pensa?

Mi pare evidente che la volontà della Lega sia oggi quella di giungere alle elezioni europee con lo scalpo del Mezzogiorno definito dalla Autonomia differenziata. Lo dico con amarezza e rabbia, da meridionalista e costituzionalista convinto: il gioco politico miope non può ridurre la nostra Repubblica in una barzelletta propagandistica per favorire i piccoli interessi della Lega.

 La Fondazione Di Vittorio è un luogo privilegiato di osservazione per misurare i cambiamenti sociali ed economici del Paese. Alla luce di quanto sta accadendo, lei avverte preoccupazione per un processo separatista dell'Italia che porterebbe ad ulteriori fratture tra Nord e Sud e che indebolirebbe ulteriormente un processo unitario del Paese forse ancora non del tutto realizzato?

Sul tema della frammentazione tra nord e sud, sull’autonomia autentica, a partire dal racconto storico dei grandi dirigenti della Cgil e dei meridionalisti, da Foa a Carlo Levi passando da Rossi Doria e Scotellaro, ad esempio, abbiamo già impostato una serie di seminari di studio, proprio perché preoccupati dalla banalizzazione propagandistica che si è fatta dell’autonomia differenziata. Noi riteniamo che sia indispensabile un ripensamento storico, filosofico, politico e sociale del termine autonomia, per evitare di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Una cosa è la rivendicazione neoliberista dell’autonomia differenziata del “si salvi chi può”, altra cosa è il riferimento ai movimenti dal basso, autogestiti che nel corso della storia, anche recente, hanno proposto modelli diversi di solidarietà e di autonomia, dai quali occorre ripartire, per recuperare una storia positiva. L’interrogativo al quale cerchiamo di rispondere è come si esce dalla crisi di legittimazione politica e sociale di questo nostro Ventunesimo secolo. Le destre stanno proponendo vie d’uscita facili neo-totalitarie, noi cerchiamo riferimenti culturali forti sul piano dell’allargamento delle forme di partecipazione democratica.  

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