Reportage di Antonella Vitelli con i contributi tematici del Professor Rossano Pazzagli, storico e territorialista, Università del Molise, direttore della Scuola dei Piccoli Comuni e della Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni”, e di Enrico Panini, Responsabile nazionale enti locali, Sinistra Italiana.

L’Italia del 2025 sta attraversando il più intenso processo di invecchiamento demografico mai registrato. Quasi 1 persona su 4 ha più di 65 anni, e gli over 80 sono più di 4 milioni. Nel frattempo nascono sempre meno bambini: nel 2024 i nuovi nati sono stati circa 370.000, il numero più basso mai registrato. Questo cambiamento si vede soprattutto nei piccoli borghi: più di 5.500 comuni hanno meno di 2.000 abitanti e molti rischiano di svuotarsi nel giro di una sola generazione. Territori soggetti a spopolamento, privi di servizi essenziali e con un mercato del lavoro debole e instabile. Quando serve aiuto, trovare una badante, qualche ora di assistenza o un posto nelle strutture per anziani è diventato quasi impossibile.
"Non si tratta di aree marginali, ma marginalizzate", afferma il Professor Pazzagli. L’Italia è storicamente un Paese policentrico che lui definisce “un Paese di paesi”, fatto di colline e montagne che coprono quasi l'80% del territorio nazionale. Dalla metà del 900 in poi, lo spopolamento e l’invecchiamento hanno prodotto una progressiva marginalizzazione. In poche parole:
Un Paese di paesi che si è dimenticato dei paesi.
Dopo anni in cui le aree interne sono state lasciate a cavarsela da sole, serve un cambio di sguardo, un’idea diversa di sviluppo. Ed è proprio dentro questo vuoto che la cura può diventare una risposta nuova.

Ma cosa significa, davvero, ripartire dalla cura?
Significa investire in assistenza domiciliare, case della comunità, telemedicina; trasporti sociali. Significa creare lavoro stabile, competenze locali e coesione sociale, restituendo ai territori ciò che negli anni è stato sottratto.Anche l’economista Dani Rodrik della Harvard Kennedy School, sostiene che la sfida del nostro tempo non sia tornare all’industria del passato, ma valorizzare i servizi non delocalizzabili; cura, educazione, innovazione sociale.
Che ci piaccia o no i servizi resteranno il principale motore di lavoro dell’economia, scrive Rodrik.
E sappiamo bene che questa prospettiva trova un riscontro diretto anche nei territori italiani. Come ricorda Pazzagli economia della cura prima di tutto vuol dire "ristabilire una uguaglianza nei diritti", perché garantire servizi nelle aree interne è più costoso, ma non è mai una spesa a perdere: è un investimento in capitale sociale e in futuro demografico. Il contrario di ciò che è accaduto. Quando i paesi hanno iniziato a spopolarsi invece di rafforzare i servizi, li si è ridotti, alimentando un circolo vizioso. Il risultato è un mondo contraddittorio: tanti bisogni che non incontrano i tanti giovani costretti a partire per mancanza di opportunità.
Da qui la proposta: trasformare la cura in infrastruttura territoriale.

Non si tratta solo di un tema sociale, ma di una precisa strategia economica. Per capire quanto questo cambio di prospettiva sia necessario basta guardare a ciò che, negli ultimi anni, è stato spesso indicato come la soluzione unica per rilanciare i borghi: il turismo. Si è diffusa l’idea, fallace, che basti “fare turismo” per riportare vita e lavoro nelle aree interne. Ma il turismo è fragile e volatile; dipende dai trend, dalle stagioni, dall’attenzione dei media. C’è l’anno della Grecia, l’anno dell’Irpinia, l’anno in cui “siamo tutti trentini”. Poi i riflettori si spostano, ricorda Pazzagli, e con essi svanisce anche l’illusione di uno sviluppo duraturo.
La cura, altresì, non è un’attività accessoria, né una risposta da attivare solo nelle emergenze: è un bisogno costante, quotidiano, che crea lavoro, competenze e relazioni. In diversi Paesi del Nord Europa, la cosiddetta care economy vale già tra l’8 e l’11 per cento del PIL, e oltre il 10 per cento dei lavoratori è impiegato nei servizi di cura. In Italia, invece, la situazione è molto diversa, la spesa pubblica dedicata all’assistenza territoriale resta sotto il 5 % del PIL, mentre oltre il 70% dei costi della cura ricade sulle famiglie, spesso con grande fatica economica e psicologica.
Eppure, proprio qui sta l’occasione: trasformare questa fragilità in una forza. Pensare alla cura come a un settore produttivo significherebbe creare occupazione stabile, alleggerire il peso sulle famiglie e, soprattutto, tenere vivi i territori. Investire in cura, in sostanza, non servirebbe solo ad aiutare chi ne ha bisogno, ma a costruire un’economia più giusta, più radicata e capace di futuro.

Esperienze e modelli
Nel Molise, Riccia sperimenta “Borgo del Benessere”; case ristrutturate, comunità alloggio, cohousing diffuso. A Castiglione Messer Marino opera la Scuola dei Piccoli Comuni, laboratorio nazionale di rigenerazione.
In Europa, Joensuu, in Finlandia, ha sviluppato un Parco del Benessere dedicato agli over 65, dove servizi digitali e telemedicina hanno contribuito a ridurre del 30% i ricoveri ospedalieri. Modelli simili si ritrovano nei cohousing danesi e svedesi o nel programma spagnolo Cuídame, che consente agli anziani di continuare a vivere nei propri paesi grazie a reti di assistenza di prossimità.

Esperienze come queste mostrano con chiarezza che la cura non è soltanto una risposta ai bisogni individuali, ma può diventare una leva di rigenerazione sociale, economica e produttiva dei territori.
Enrico Panini, Responsabile aree interne di Sinistra italiana ci presenta una indagine commissionata a SWG sulle aree interne e segnala che più di 1/3 dei residenti teme la mancanza di lavoro e la distanza dai servizi essenziali, condizioni che alimentano lo spopolamento e rendono la vita quotidiana sempre più difficile. Per questo, spiega Panini, l’obiettivo è "uscire dalla retorica dei progettifici" e costruire strumenti concreti di intervento, capaci di incidere davvero sulla qualità della vita delle comunità.

La proposta politica punta dunque a un Fondo unico per le aree interne, così da superare la frammentazione degli interventi e garantire continuità alle politiche pubbliche. Si chiede inoltre l’attuazione della legge 221 del 2015, che riconosce il valore economico e ambientale dei servizi ecosistemici e può favorire agricoltura sostenibile, gestione dei boschi ed energia rinnovabile. Infine, un ruolo centrale viene attribuito al rafforzamento delle Comunità Montane e delle Unioni dei Comuni, trasformandole in spazi effettivi di decisione e coordinamento su sanità, scuola, trasporti e politiche sociali di prossimità.
Insomma l’Italia dei paesi non è un destino a termine, è una possibilità. Cura significa non soltanto proteggere chi è fragile, ma rigenerare economia, demografia e democrazia. Il tempo delle promesse intermittenti e delle visite in campagna sotto elezioni è finito. Non servono altri slogan sul “rilancio dei borghi” se poi mancano medici, scuole, trasporti, connessioni. La politica nazionale ha trattato per decenni le aree interne come una cartolina per brochure turistiche, ma i paesi non sono souvenir, sono energia pulita, legno, agricoltura e produzione locale.

Se davvero vogliamo un’Italia che non lasci indietro nessuno, allora il cambiamento non si misurerà dai flussi turistici estivi, bensì dal numero di giovani che non partono o decidono persino di tornare. E questo accadrà solo quando la cura smetterà di essere considerata una spesa da contenere e diventerà una scelta politica, strutturale, di coraggio.
Perché il punto non è soltanto salvare le aree interne; è capire se la politica sia ancora capace di salvarsi da sola, tornando a prendersi cura di questo Paese.