Intervista di Antonella Vitelli, Torino, aprile 2019
Mancano pochi giorni alle Elezione Europee. Per saperne di più sulla genesi di questo grande e discusso progetto sono andata a trovare il Professor Pompeo della Posta, autore del libro L'integrazione monetaria in Europa. Origini, crisi, istituzioni e teorie economiche edito dall'Università di Pisa.
Professor Della Posta lei è autore di un interessante libro sull’integrazione monetaria in Europa. Come è nato il processo di integrazione europea di cui parla nel suo libro? In altre parole, perché e come si è arrivati all’euro?
Per parlare a ragion veduta dell’euro di oggi, per capirne le ragioni e averne quindi una visione completa, credo che si debba partire da lontano. Non era ancora finita la Seconda Guerra Mondiale quando, nel 1944, i paesi che ne sarebbero usciti vincitori si riunirono a Bretton Woods, una località sciistica del New Hampshire, a nord di New York e rifondarono il sistema economico e finanziario mondiale. Fu stabilito un sistema di cambi fissi fra le monete e fu deciso che una sola valuta, il dollaro, potesse essere convertita in oro: gli Stati Uniti sostituivano ufficialmente, così l’ex-Impero britannico, che con la sterlina era stato fino ad allora alla guida dell’economia e della politica mondiale.
Il sistema di Bretton Woods (al quale si deve anche la creazione della triade delle istituzioni economiche internazionali, vale a dire Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e, successivamente, Organizzazione del Commercio Mondiale) assicurò la stabilità che portò al successo della ricostruzione e agli alti tassi di crescita che caratterizzarono il cosiddetto “miracolo economico italiano” degli anni Sessanta del secolo scorso, un miracolo economico che in realtà fu anche europeo.
E poi cosa è accaduto al sistema a cambi fissi di Bretton Woods?
Nel 1971 prima e nel 1972 definitivamente, il sistema cadde perché la conversione dei dollari in oro non poteva essere più garantita dagli americani. Questi ultimi, infatti, per finanziare la lotta al comunismo in cui si erano impegnati seguendo la cosiddetta “dottrina Truman” (che sta alla base della guerra di Corea, del Vietnam e dei vari “condor” dell’America Latina che seguirono), necessitavano di dollari, che furono stampati a profusione, fino a mettere in dubbio la loro capacità di onorare l’impegno alla convertibilità in oro che avevano assunto. Il resto lo fecero l’instabilità che si stava accumulando a livello mondiale e le ambizioni politiche francesi, che con il Generale De Gaulle misero fine al “privilegio esorbitante” (quello di stampare una moneta domandata a livello mondiale) degli Stati Uniti chiedendo la conversione in oro dei tanti dollari che detenevano. Ma le riserve auree americane non erano in grado di garantire tale conversione e il sistema crollò.
E che accadde in Europa e all’Europa dopo la caduta del sistema di Bretton Woods?
Accadde che i cambi fissi che fino ad allora avevano assicurato la stabilità delle relazioni commerciali in Europa furono abbandonati e le valute europee cominciarono ad oscillare fra loro in maniera eccessiva, mostrando fenomeni di overshooting, cioè di allontanamenti marcati dai valori di equilibrio dettati dalle relazioni commerciali, per esempio. Tutto questo danneggiava fortemente il commercio intra-europeo, che a sua volta era – e lo è ancora - fondamentale per allontanare lo spettro di nuovi conflitti in Europa (spesso si dimentica che l’autarchia economica a cui tanti sembrano anelare oggi, in Italia l’abbiamo già avuta e caratterizzò il ventennio fascista!). Da lì cominciarono tensioni e contrasti, alimentati dal sospetto che ognuno volesse favorire le proprie esportazioni nette manovrando ad arte il tasso di cambio della propria valuta rispetto alle altre.
Come si risolse il problema delle oscillazioni dei tassi di cambio fra i paesi europei?
Si risolse con la creazione del Sistema monetario europeo (SME), nel 1979. Ma negli anni 1970 altre instabilità si erano manifestate: nel 1973 ci fu la guerra dello Yom Kippur, in cui gli arabi provarono per l’ennesima volta ad attaccare militarmente lo stato di Israele, e nel 1979 la rivoluzione in Iran portò Khomeini a capo del nuovo Stato islamico. Entrambi questi fatti condussero alle domeniche di “austerità” e alla elevata inflazione che chi ha i capelli bianchi ben si ricorda… L’inflazione era del 20% nel 1979! Ce ne siamo dimenticati, ma era così.
E tutto questo fu condito dalla instabilità politica e dal terrorismo, non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei, di cui l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta nel maggio 1978 rappresenta forse l’apice.
E’ in quel contesto che fu creato lo SME, il predecessore dell’euro, che ristabilì i cambi fissi e coincise con il ritorno a condizioni di stabilità in Europa.
Non si dovrebbe ignorare quel contesto, quando valutiamo la situazione attuale.
Ma allora, una volta creato lo SME tutto ha funzionato a dovere?
Non proprio. Le cose hanno funzionato relativamente bene per alcuni anni, beneficiando anche della flessibilità iniziale dello SME (i paesi che avevano tassi di inflazione più elevata potevano recuperare la competitività perduta svalutando la loro moneta). Quando però il Sistema si è irrigidito – e quando il movimento dei capitali è stato reso possibile e con esso la possibilità di avere attacchi speculativi sulle attività finanziarie, incluse le monete – le residue divergenze inflazionistiche e il risultante peggioramento delle bilance commerciali dei paesi a più elevata inflazione hanno condotto alla crisi – accompagnata da Tangentopoli e dagli attacchi mafiosi al cuore dello stato – culminata nella svalutazione della lira del 14 settembre 1992. Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio Italiano, aveva dichiarato al telegiornale della sera del giorno precedente che, nonostante le tensioni che da tempo mettevano sotto pressione la lira, non sarebbe stata permessa una sua svalutazione, ma la mattina seguente la nostra moneta perse un primo 7% del proprio valore rispetto al marco tedesco e altre svalutazione seguirono poi. Alla crisi valutaria si associò quella del debito pubblico, la cui sostenibilità fu messa fortemente in dubbio dai mercati internazionali, con tassi di interesse che schizzarono alle stelle. Si trattò di una crisi gravissima.
Ma tutto questo accadde proprio nel 1992? Quando il Trattato di Maastricht era stato firmato e si era deciso di adottare l’euro entro il 1999 al più tardi?
Eh sì, sembra paradossale, ma è così. Con il Trattato di Maastricht si era stabilito che l’Unione economica e monetaria europea sarebbe iniziata nel 1997 o, al più tardi, nel 1999 e subito dopo lo SME, che avrebbe dovuto rappresentarne la tappa intermedia, crollò.
Fra le ragioni di questo crollo vi è anche il ruolo giocato da quella che mi piace chiamare la Grande Storia e in particolare la caduta del comunismo nel 1989-90, con la cosiddetta “rivoluzione di velluto”, definita così perché non produsse quasi alcuna violenza, come nessuno avrebbe mai potuto pensare negli anni precedenti. La riunificazione delle due Germanie, quella dell’Est con quella dell’Ovest, in effetti, ne fu una conseguenza inevitabile, ma fu proprio la riunificazione a contribuire alla crisi dello SME, a causa della definizione di un tasso di cambio fra vecchio marco dell’Est e marco dell’Ovest molto generoso verso i tedeschi orientali. La sopravvalutazione del marco dell’Est, infatti, assegnava ai suoi detentori un potere di acquisto molto elevato (dieci volte superiore a quello che avevano in precedenza, una decisione presa anche per evitare il rischio di migrazioni eccessive da est a ovest). Per evitare i rischi inflazionistici che il risultante eccesso di domanda di beni avrebbe potuto comportare, la Bundesbank fu però costretta ad aumentare i tassi di interesse, troppo alti per paesi come l’Italia, che aveva un elevato debito pubblico, il Regno Unito, con un sistema finanziario di tipo “americano” molto esposto ai rischi delle fluttuazioni dei tassi di interesse, o la Francia, con una disoccupazione che stava crescendo. Da qui l’impossibilità di continuare con lo SME di cui i mercati finanziari si resero ben conto e che scatenò l’attacco alle valute partecipanti, prime fra tutte la lira italiana e la sterlina britannica.
Però, scusi, facciamo un passo indietro: perché a un certo punto si decise di passare all’euro? Di abbandonare le valute che ogni paese aveva e di aderire alla Unione economica e monetaria europea (UME)?
Anche in questo caso bisogna riferirsi alla Grande Storia, alla caduta del comunismo. A torto o a ragione, si ritenne che costringere i tedeschi ad abbandonare il loro amato marco e a condividere la moneta, fra gli altri, con i paesi dell’Europa del Sud (se fosse stato indetto un referendum non lo avrebbero mai accettato), avrebbe significato l’abbandono di quelle politiche egemoniche che avevano fortemente contribuito alla Prima e Seconda Guerra mondiale. Ci sono state certamente molte ragioni economiche dietro la decisione di adottare l’euro (aumentare la trasparenza dei prezzi e ridurre i costi di transazione, avere “una sola moneta per un solo mercato” - one market, one money - evitare l’instabilità intrinseca dei cambi fissi, sempre soggetti a sfide da parte del mercato). Altre ragioni, di strategia internazionale possono essere identificate, come quella di tentare di sfidare il dollaro come valuta di rango internazionale, utilizzata per la quotazione nei mercati internazionali del petrolio, delle altre materie prime e delle merci. Non si deve dimenticare, poi, che si veniva da un periodo in cui l’integrazione europea stava procedendo speditamente. Non ce lo ricordiamo più, anzi forse ce lo ricorda ora la Brexit, ma fino al 1987 non avevamo il diritto di decidere dove vivere in Europa. A partire dal 1987, invece, noi italiani così come tutti gli altri cittadini di paesi aderenti all’Unione europea, possiamo spostarci come e dove vogliamo all’interno dell’Europa. Ci sembra una cosa da poco? Non si ha questa possibilità in nessuna altra parte del mondo. Bene, quella fase sembrò suggerire che i tempi fossero buoni per procedere ulteriormente verso l’integrazione europea, quella integrazione nata per rinnegare ed evitare le guerre del passato, per fronteggiare il comunismo sovietico e anche per permettere ai paesi europei uniti di avere una voce autorevole nel consesso mondiale, fatto di giganti economici e politici, come gli USA, la Cina, la Russia e l’India, tanto per citarne solo alcuni.
Allora torniamo a dopo il 1992. Lo SME era crollato ma si era deciso di fare l’euro. Che successe poi?
Successe che l’Europa si guardava intorno smarrita, senza sapere bene cosa fare. Circolava l’idea di fare partire con l’euro il solo drappello dei paesi di testa dell’Europa, quelli del Nord più ricco e forte economicamente e di lasciare in “serie B” i paesi della periferia, in particolare di quella del Sud dell’Europa.
Gli spagnoli, però, ruppero il fronte degli esitanti, dichiarando che avrebbero aderito all’euro fin da subito, insieme ai tedeschi e agli altri paesi del cuore dell’Europa. L’Italia, uno dei sei paesi fondatori della Comunità economica europea (oggi Unione europea) non poteva restarne fuori, o almeno così si pensò, pena un forte indebolimento della nostra immagine e del nostro prestigio. Così ci mettemmo a lavorare per soddisfare i requisiti previsti per l’ammissione e con il classico “colpo di reni” finale nel quale noi italiani siamo maestri, fummo ammessi (ma non esserlo, del resto, avrebbe comportato per i paesi aderenti il rischio di una concorrenza valutaria da parte nostra, almeno nel breve termine, quindi questi ultimi furono ben contenti di farci entrare…).
D’accordo, l’euro alla fine è stato adottato dal punto di vista contabile nel 1999. Poi nel 2002 ha cominciato a circolare fisicamente con le banconote e le monete che noi tutti oggi utilizziamo. Ma dopo qualche anno si è avuta una crisi molto seria, dalla quale in Italia, non siamo ancora usciti… Perché si sono avute queste difficoltà e cosa ha determinato quella crisi? E che cosa ci aspetta nel prossimo futuro, secondo lei?
Prima di parlare della crisi, dovremmo forse ricordare il grande vantaggio avuto dall’Italia in termini di tassi di interessi. Troppo spesso guardiamo agli aspetti negativi e assegniamo un peso troppo basso a quelli positivi (o addirittura li ignoriamo del tutto). Il tasso di interesse sull’intera economia italiana, sul debito pubblico come su quello privato, cadde a livelli mai visti da anni in Italia, permettendo, per esempio, risparmi notevoli di finanza pubblica, di cui avremmo dovuto approfittare per risanare le nostre finanze.
Il rapporto debito pubblico/PIL, in effetti, si stava abbassando verso il 100% quando nel 2007-08 arrivò la crisi dei mutui sub-prime dagli Stati Uniti. Inizialmente pensammo che fossero affari loro, felicitandoci del fatto che la relativa arretratezza del nostro sistema finanziario ci avesse risparmiato una crisi simile. Ma l’economia e la finanza hanno molto in comune con quello che succede fra gli umani e la malattia americana ci contagiò. L’Europa rispose in maniera esitante, seguendo però alla fine quello che gli stessi USA e il Regno Unito avevano fatto, vale a dire riducendo i tassi di interesse e permettendo un aumento dei deficit fiscali.
Quindi questo avrebbe dovuto aiutare l’Europa ad uscire subito dalla crisi dei mutui sub-prime…
Sì, se alla fine del 2009 non ci fosse caduta sulla testa la tegola della Grecia, il cui debito pubblico risultò essere ben più alto di quello fino ad allora dichiarato. Nel resto dei paesi europei il rapporto debito pubblico/PIL si stava riducendo ovunque. Se aumentò di nuovo, fu solo perché i governi erano dovuti intervenire in precedenza – per rispondere alla crisi del mercato immobiliare irlandese o spagnolo, per esempio - a rilevare il debito privato e a salvare le banche. Altro che crisi del debito sovrano, quella dell’area dell’euro è una crisi che ha origine negli squilibri del settore privato, oltre che una crisi di fiducia. Comunque sia, tutto questo ci ha portato, nel mezzo della crisi economica, a prendere misure assolutamente opposte a quelle prese da USA e Regno Unito e che anche noi avremmo dovuto continuare ad adottare.
Quali misure abbiamo adottato? E quali avremmo dovuto adottare invece?
Abbiamo adottato quelle ben note di “austerità fiscale”, dettate dal timore tedesco e nord europeo in generale, che i paesi del Sud Europa alla fine andassero a chiedere ai paesi ricchi del Nord Europa di pagare il conto dei loro debiti.
Quelle misure, prese nel bel mezzo del ristagno di domanda per consumi e investimenti, hanno peggiorato ulteriormente le cose, rendendo la crisi ancora più profonda.
Non è stato così negli USA o nel Regno Unito. Noi paesi dell’area dell’euro, invece, siamo stati più realisti dello stesso re, restringendo i cordoni fiscali quando già le cose stavano andando male e avrebbero richiesto invece che fossero aperti.
E come se ne è usciti dalla crisi?
Ne siamo usciti (ma ce ne portiamo ancora dietro le ferite, ben profonde) grazie allo “sceriffo” Draghi, il quale, in una conferenza a Londra nel luglio 2012, come se fosse stato John Wayne in uno dei suoi film western, ha guardato in faccia gli operatori sui mercati finanziari e, scandendo bene le parole e con tono fermo ha detto che avrebbe fatto “tutto quello che era necessario fare” (“whatever it takes”) per salvare l’euro e poi, dopo aver fatto una pausa teatrale, me lo lasci raccontare così ha concluso con fare perentorio e quasi minaccioso: “E credetemi, sarà sufficiente…”.
Dopo queste parole, immediatamente i tassi di interesse sono crollati, e con loro si sono allentate le tensioni sui mercati finanziari. In Italia non ne siamo ancora usciti definitivamente, ma grazie a quel discorso (accompagnato da misure concrete, comprese quelle cosiddette “non convenzionali”, necessarie a rendere credibile la sua posizione), la situazione si è stabilizzata ed è migliorata.
Ma allora cosa ci insegna tutto questo? Cosa si deve concludere sull’euro? Dovremmo lasciarlo, come sostengono molti detrattori e come inizialmente sembrava che l’attuale governo fosse intenzionato a fare, perché ha prodotto più costi che benefici?
L’argomento che l’adozione dell’euro possa comportare dei vincoli ai paesi aderenti era ben noto fin dall’inizio. Con cambi flessibili, se si importano molte merci da un paese, allora si avrà una forte domanda di valuta di quel paese per pagare quelle merci, e la forte domanda di valuta ne determinerà l’apprezzamento. A sua volta, il maggiore costo di quella valuta riduce la competitività iniziale e provvede a ristabilire l’equilibrio in maniera automatica. Così, con cambi flessibili, la Grecia o il Portogallo non avrebbero deficit commerciali verso la Germania e la Germania non vanterebbe i surplus commerciali che vanta. L’idea, quindi, era che una volta stabilite le nuove regole del gioco, cioè una volta abbandonate le valute e la possibilità di svalutazioni, ogni paese si sarebbe impegnato per mantenere la propria competitività (anche grazie al fatto che la Banca centrale europea avrebbe condotto una politica monetaria unica per l’intera area dell’euro, garantendo così tassi di inflazione uguali – una conclusione che però si è rivelata troppo ottimistica perché ignorava altri aspetti) e in fin dei conti questo sarebbe andato a beneficio dei consumatori.
Resta il fatto, però, che si è rimosso ogni meccanismo di aggiustamento indolore per i cittadini (il tasso di cambio, che cambia l’unità di conto per tutti senza dovere andare a toccare i singoli prezzi o salari), per lasciare il peso di un eventuale riaggiustamento sulle spalle delle imprese e dei lavoratori. In altre parole, alle imprese è richiesto di aumentare l’efficienza produttiva, riducendo i costi di produzione attraverso i miglioramenti dei processi produttivi o la riduzione dei costi, inclusi quelli del lavoro, per mantenere la loro competitività “sul mercato” a fronte di eventuali residue divergenze inflazionistiche fra i paesi aderenti all’euro.
E che cosa c’è che non va in questo ragionamento?
L’errore che compie chi ha questa posizione, a mio modestissimo avviso, è che ignora però tutto quanto ho detto in risposta alle prime domande ricevute, cioè ignora le molteplici ragioni e finalità del processo di integrazione monetaria (ed economica) in Europa. E’ un po’ come buttare il bambino con l’acqua sporca, o come dire – naturalmente è una semplificazione e un paradosso - che siccome correre o anche solo camminare stanca, allora è bene non farlo, ignorando che in realtà camminare stanca sì, ma fa complessivamente bene alla salute.
Allo stesso tempo, però, ci tengo a sottolinearlo con molta forza, lo stesso errore viene fatto da parte tedesca e nord europea, con l’ossessione che hanno per i debiti del Sud Europa, ignorando da un lato i benefici che essi traggono dall’unificazione monetaria (che permette loro di non subire l’apprezzamento delle loro valute in seguito ad un aumento delle loro esportazioni), e dall’altro le ragioni più generali del nostro stare insieme in Europa, che potrebbero ben valere l’esercizio di un maggiore grado di solidarietà. Anche in questo caso, nell’ossessione che i paesi del Nord Europa hanno verso il debito dei paesi del Sud Europa, insomma, si guarda ad un pezzettino dalla questione, evitando di inquadrarla e valutarla nel suo insieme.
Secondo lei a cosa deve rinunciare e cosa deve conservare l’UE per essere un’istituzione avvertita vicina alla gente?
Fra le motivazioni che stanno alla base della costruzione europea, purtroppo sembra difficile ritrovare ancora oggi quelle del “Manifesto di Ventotene” di Spinelli, Colorno e Rossi che vedevano l’Unione europea come modo per evitare guerre nel nostro continente (e successivamente come protezione contro il comunismo sovietico). La guerra sembra lontanissima e la pace viene interpretata ottimisticamente come qualcosa di irreversibile (ma già qualche mese fa, quando in Italia i toni si sono alzati nei confronti della Francia per ragioni di politica internazionale, sembrava di sentire riecheggiare le parole d’ordine autarchiche proprie del ventennio fascista). Il comunismo, poi, è caduto e anche quella seconda molla è scarica. Perché, quindi, i cittadini europei dovrebbero credere nell’integrazione economica e politica del proprio continente? Forse perché, molto semplicemente, “l’unione fa la forza”, perché da soli non riusciamo a contrastare i giganti mondiali, perché insieme si riescono a piegare, per esempio, le multinazionali telefoniche e ad abolire il roaming e mostrare, quindi, tangibilmente che l’Europa conviene. Certo, se l’Europa è quella dei semi-paradisi fiscali dell’Olanda, dove la FCA va a stabilire la sua sede giuridica per beneficiare dei vantaggi concessi, del Lussemburgo, o dell’Irlanda, allora è difficile che i cittadini europei ne percepiscano e vedano gli aspetti positivi.
Ma il paradosso è che queste storture sono possibili proprio perché l‘Europa è rimasta a metà del guado, lasciando la competenza in materia fiscale in mano ai singoli stati, che poi non si dica che l’Europa si è immischiata nelle questioni interne degli stati che la compongono… L’Europa non è un’entità federale, come lo sono invece gli Stati Uniti d’America, ma una mera confederazione, governata dalle regole dell’inter-governamentalismo: nei Consigli Europei ogni capo di stato va a rappresentare e difendere gli interessi del suo stato, non quello comune dei paesi europei che compongono l’Europa.
Tra pochi giorni ci saranno le elezioni europee. Se fosse un politico e le venisse chiesto di impegnarsi in 4 punti chiave, cosa sceglierebbe? Cosa farebbe?
E’ sempre molto facile parlare e criticare e molto più difficile, invece, operare concretamente. Ma questo vale per tutti, non ultimo per il governo in carica, come mostrano gli esempi delle varie TAV, TAP, etc.… Detto questo, però, credo che dovrebbero innanzitutto essere ricordate molto di più le ragioni storiche che ci hanno portato a compiere le nostre scelte. Naturalmente, la ragione della stabilizzazione dell’inflazione non la vediamo, facciamo fatica a comprenderla, perché sono anni ormai che l’inflazione elevata non è più un nostro problema. Almeno per il momento. E le oscillazioni eccessive dei cambi, per esempio, siamo sicuri che non farebbero più la loro comparsa se ritornassimo alla lira, franco, marco e alle altre monete nazionali che pre-esistevano all’euro? Che conseguenze avrebbero sui commerci in Europa? E le turbolenze commerciali, che effetti produrrebbero nel più lungo termine? Ci ricordiamo che abbiamo volute evitarle e favorire l’integrazione commerciale proprio per allontanare il rischio di nuovi conflitti? E se l’uscita dall’euro avesse ripercussioni sulla nostra appartenenza all’Unione economica, ne sarebbe davvero valsa la pena?
Una volta fatto questo mi rivolgerei a chi dice che dovremmo lasciare l’euro, per invitarlo a non soffermarsi soltanto sul singolo aspetto, sul quale non ho difficoltà a riconoscere le loro ragioni (già il compianto Marcello De Cecco sottolineava i vantaggi per la Germania di circondarsi di “stati cuscinetto”), ma a valutare il quadro complessivo, che ho ricordato prima.
I primi due punti sono stati il ricordare le ragioni della storia, e l’invito a chi vuole lasciare l’euro a vedere le cose nella loro completezza. Poi?
Poi mi rivolgerei alle centinaia di economisti tedeschi, i quali in maniera compatta hanno firmato e firmano appelli e moniti contro il rischio che i virtuosi contribuenti loro connazionali siano costretti a pagare le generose pensioni dei greci e degli italiani. E anche a loro direi che stanno guardando solo ad una piccola parte di qualcosa di molto più grande, e che non possono ignorare che l’avere rinunciato alla indipendenza monetaria e valutaria è la causa primaria dell’indebitamento estero dei paesi del Sud Europa, e che la loro virtù neo-mercantilista (cioè di stimolare e incoraggiare in ogni modo le esportazioni) troverebbe un limite nel mercato stesso se i cambi fossero lasciati fluttuare. E ricorderei loro che se fossero intervenuti per spegnere il piccolo fuocherello che si era acceso in Grecia (una immagine che prendo in prestito dall’economista belga Paul De Grauwe), forse quella sarebbe solo una piccola restituzione dei vantaggi che hanno avuto in passato e continuano ad avere ancora oggi.
Direi loro anche che il gioco si sta facendo pericoloso e che anche se nella prossima tornata elettorale europea forse non ci saranno sconvolgimenti epocali, l’ondata populista non può che alimentare e essere alimentata da atteggiamenti neo-nazionalistici.
E alla fine, nel tentativo da un lato di evitare di pagare i debiti del Sud Europa e dall’altro di evitare i vantaggi commerciali dei paesi del nord, rischiamo di ritrovarci tutti più isolati e impotenti, il terreno ideale per le tensioni, i conflitti, le guerre.
E l’ultima cosa che farebbe o che vorrebbe dire, quale è?
L’ultima cosa, la cosa più importante che vorrei dire è che l’Europa deve rendere ben visibili le sue ragioni di esistenza attuali, da un lato sottolineando con forza i vantaggi che ci ha permesso di ottenere nel recente passato e che non è detto che manterremmo in una situazione diversa (basta pensare ai possibili effetti della Brexit sui viaggi aerei, con il rischio di assistere, per esempio, ad un forte rialzo delle tariffe), dall’altro mantenendo la sua promessa di protezione dei propri cittadini per il futuro, dimostrando nei fatti che l’unione fa davvero la forza e che, per esempio, uniti si può meglio dialogare, da pari a pari, con le altre potenze mondiali e si possono meglio affrontare le tante sfide che ancora ci attendono, da quella della globalizzazione alle tante altre legate alle rivoluzioni tecnologiche. Se i cittadini europei non hanno percezione di questo, ma vedono soltanto il parlare bene e razzolare male dei paradisi fiscali all’interno dell’Europa, permessi proprio quando invece si impongono le politiche di austerità ai paesi che restano indietro – e non sempre per colpa loro, come ho argomentato sopra – allora le possibilità di progresso verso un aumento del grado di integrazione economica e politica si assottiglieranno ulteriormente e i neo-nazionalismi e populismi avranno molte più possibilità di prevalere.