Reportage | settembre 2023 | All'interno interviste a: Natalia Coppolino; Flaminia Bolzan Mariotti Posocco; Carlo Ratti e Renzo Riboldazzi a cura di Antonella Vitelli in collaborazione con Silvia Sardi e Benedetta Musso
E’ stato definito controllo straordinario ad “alto impatto” quello che ha coinvolto più di 400 operatori delle diverse forze dell’ordine. Una vasta operazione che ha visto Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza nel quartiere “Parco Verde” di Caivano, una vasta area, nonostante il nome, completamente coperta di cemento ove appare complesso, come spesso accade in aree di questo tipo, conciliare la crescita urbana con la conservazione della qualità ambientale. In origine il complesso è stato pensato come un quartiere popolare destinato al trasferimento di sfollati dal centro di Napoli all'hinterland a seguito del tragico terremoto dell'Irpinia del 1980. Per la precisione 6000 persone. Tutte provenienti da zone complesse come Forcella, Quartiere Sanità e Pignasecca.
Photo di Gianni Cipriano
L'idea, in origine, era quella di creare nuove abitazioni, scuole e strutture sportive, con l'obiettivo di favorire una reintegrazione sociale che purtroppo non si è mai concretizzata. Scampia ha insegnato che anche un piccolo errore di misurazione quando si edifica può trasformare una potenziale area comune di convivialità tra vicini in uno stretto e angusto corridoio che invita delinquenza e illeciti. Infatti tra gli edifici anonimi, affollati e sprovvisti di servizi si è perpetuata per anni una logica di coercizione e disagio.
L'orribile notizia delle violenze subite da due cuginette di 10 e 12 anni ha suscitato ampie discussioni e riflessioni riguardo alle responsabilità dello Stato, della scuola e della comunità. Una triade nella quale non ha mai trovato collocazione un tema tutt'altro che tecnico quale quello relativo al peso dell'urbanistica nella vita quotidiana di un quartiere. Perché disporre gli edifici in un certo modo, progettare aree con o senza spazi verdi, favorire connettività o disconnessione dei trasporti pubblici e distribuire bene o male spazi residenziali e commerciali ha una valenza, ha impatto diretto sulla qualità della vita delle persone. Caivano é un esempio, non il primo, non l'ultimo.
Ma gli spazi influiscono davvero così tanto nella qualità della nostra vita?
Il professor Renzo Riboldazzi - che insegna Urbanistica al Politecnico di Milano e che per la Casa della Cultura di Milano cura l’ambito di dibattito Città Bene Comune - risponde così:
Non c’è dubbio: la qualità dei contesti condiziona la qualità della vita. Non solo: ci sono spazi urbani che favoriscono la socialità e il senso di appartenenza, altri che invece tendono a negare questi aspetti importanti per tutti noi. La lezione della città storica italiana ed europea è quella di uno spazio pubblico bello e ospitale in cui i cittadini e le comunità si identificano e di cui più facilmente si appropriano: prendendosene cura, presidiandolo e rendendolo sicuro. Al contrario, la città moderna e contemporanea ha spesso prodotto luoghi privi di quella tensione tra architettura, spazio e società che dà luogo all’urbanità dei contesti.
Non a caso, nei territori poveri di uno spazio pubblico di qualità, caratterizzati da una frantumazione delle forme architettoniche e delle funzioni urbane, se non dal degrado e dall’abbandono, anche la coesione sociale ne risulta compromessa.
E con essa la qualità della vita nella sua dimensione pubblica.
Ripensare lo spazio pubblico come bene comune è dunque un passaggio importante, dal significativo impatto sulla vita dei cittadini e delle comunità?
Sì, perché l’abitare civile non è solo quello riferibile alla casa - questione che, come nel Novecento, deve ritornare al centro delle politiche urbane perché l’accesso a questo bene primario per l’esistenza è, soprattutto nelle grandi città come Milano, messo pesantemente in discussione - ma riguarda anche lo spazio collettivo, che è la scena della vita pubblica e persino della democrazia. Questo, quindi, non può essere pensato solo in termini di infrastruttura per la mobilità veicolare. Così come le logiche insediative e le trasformazioni urbane non possono essere condizionate esclusivamente da ragioni economiche. Ce lo chiede la società. Ce lo chiedono i giovani di oggi e di domani. Ce lo chiede l’ambiente, bistrattato oltremisura. E ce lo chiedono quei contesti dove tali logiche hanno determinato disastri urbanistici, sociali e ambientali.
La spazialità urbana di Venezia, San Gimignano, Verona, Mantova, Ferrara, Siena… ha ancora molto da insegnarci.
Così come quella di altre moltissime città soprattutto del vecchio continente, note e meno note, in molti casi amate nel mondo non solo per i loro monumenti o i loro musei ma anche, spesso soprattutto, per i loro spazi pubblici. Che sanno accogliere. Che dicono dell’armonia delle cose e della vita. Che esprimono un’idea di futuro radicata nel passato.
Quindi situazioni come quella che si creata a Caivano possono essere considerate un problema urbanistico?
Non conosco Caivano, se non attraverso le cronache tristissime di questi giorni. Tuttavia, pur riconoscendo gli errori dell’urbanistica nel Novecento, dubito fortemente e tendo a escludere che il problema sia solo riconducibile a questa disciplina. Non dobbiamo dimenticare che la massiccia risposta che è stata data alla questione della casa nel secondo dopoguerra è stata spesso compromessa dalla mancata realizzazione di molti di quei servizi o di quegli spazi pubblici che i piani urbanistici invece prevedevano; da una gestione degli immobili, delle strade, delle aree verdi spesso del tutto inadeguata che in molti casi ha determinato un diffuso degrado; da meccanismi amministrativi di assegnazione degli alloggi che hanno fatto sì che in luoghi circoscritti si concentrassero le persone che hanno più difficoltà a stare al mondo trasformandoli in ghetti. Ecco, in questo senso, agendo in direzione opposta, l’urbanistica - intesa in tutte le sue dimensioni e attraverso tutti i suoi attori che non sono solo gli urbanisti ma anche gli amministratori pubblici, gli operatori immobiliari, ecc. direi la società nel suo insieme - potrebbe/dovrebbe dare un contributo significativo. Ma dovrebbe farlo umilmente, senza protagonismi, muovendo dai contesti fisici e sociali e predisponendosi all’ascolto di ciò che i luoghi sanno dirci.
Ma concretamente in che modo si creano spazi che sfociano in delinquenza in una comunità urbana?
La psicologa e criminologa Flaminia Bolzan Mariotti Posocco sostiene che per rispondere in maniera esaustiva a questa domanda è necessario analizzare dati sulla progettazione spaziale e urbanistica di un ambiente, ad esempio relativa alla struttura di una città o alla visibilità delle entrate e delle uscite degli edifici in alcune aree urbane, o all’illuminazione all’interno di cortili o giardini.
Le teorie ecologiche sono state concepite e sono utilizzate in criminologia per spiegare come il degrado o alcune variabili legate all’aspetto urbanistico “determinino” la commissione di reati, ma è evidente che non siano di per sé esaustive o per lo meno, che quelle spaziali e progettuali non siano le uniche variabili da considerare.
Ad esempio, la cosiddetta teoria delle finestre rotte di Wilson e Kelling spiega come se in un edificio sono presenti dei vetri rotti e non vengano riparati, i vandali potrebbero sentirsi legittimati a romperne altri, fino a danneggiare l’intero edificio.
Questo accadrebbe in quanto le finestre rotte si rappresenterebbero come una indisponibilità o una scarsa attenzione dei residenti a “difendere” il proprio quartiere ed i beni situati in esso.
L'idea è conosciuta come la teoria della “finestra rotta” e risale a un saggio che Wilson scrisse su The Atlantic Monthly nel 1982 con George Kelling. Gli autori sostenevano che prestare attenzione alle piccole cose – lo spaccio di droga agli angoli delle strade, le prostitute, i piccoli atti vandalici, il vizio dei biglietti – potrebbe avere un effetto sproporzionato anche sulle grandi cose
Il deterioramento dell’ambiente urbano, infatti, secondo uno studio di Shaw e McKay evidenzia il collegamento con aree in cui sono presenti alti tassi di delinquenza. In questo senso è deducibile che una progettazione di spazi con determinate caratteristiche e ben manutenuti, possa essere un fattore che “riduce” il rischio di criminalità.
Dottoressa quali misure aggiuntive o approcci complementari potrebbero essere adottati per massimizzare l'efficacia di tali teorie nella prevenzione del crimine?
La prevenzione del crimine passa attraverso l’individuazione di diverse possibilità applicative, alcune delle quali prevedono ad esempio l’utilizzo di strumenti in cui nell’ambito dei territori sussista una proposta di attività aggregative e socializzanti con finalitá educative o l’uso di mediatori quali le proposte di attività sportive in contesti con elevato disagio sociale, il supporto psicologico nelle scuole ecc., ma per rimanere sul tema della “progettazione” e dell’urbanistica possiamo anche individuare alcune forme di “protezione” delle abitazioni o dei centri residenziali come elementi deterrenti, ad esempio:
l’utilizzo delle grate alle finestre, la “cura” dei propri spazi o la presenza di videosorveglianza con l’impiego di telecamere.
La ratio è che ogni intervento volto alla prevenzione poggi su teorie valide e preveda uno sviluppo che tenga conto delle variabili che sono sempre contesto-specifiche.
Considerando l'importanza della manipolazione dell'ambiente urbano e dell'incidenza sulla percezione di insicurezza delle persone, quali consigli potrebbe fornire per una progettazione urbana più efficace che tenga conto di questi fattori?
Un’adeguata illuminazione delle aree pubbliche favorisce la percezione di sicurezza del singolo, così come la presenza di personale anche durante l’orario notturno nelle aree di parcheggio sotterranee delle città. La presenza di ingressi e uscite dagli edifici che siano ben visibili, la manutenzione, la cura delle strade e degli spazi comuni nei palazzi o nei contesti residenziali e i sistemi di videosorveglianza sono poi elementi ambientali che fungono da “deterrenti”.
Da questi studi appare sempre più evidente che lo spazio è una dimensione, "quarta dimensione" diceva Brantinghams.
Da qui l’idea di un architetto come Oscar Newman che sviluppò una teoria basata sulla creazione di spazi difendibili per prevenire il crimine. L'idea centrale era che una progettazione architettonica accurata potesse eliminare le "zone neutre" e promuovere spazi che la comunità poteva difendere spontaneamente.
Insomma la vitalità di un quartiere è importantissima per la sicurezza urbana.
L'antropologa Jane Jacobs ha introdotto il concetto di "occhio sulla strada", suggerendo che il coinvolgimento attivo degli abitanti nel loro ambiente fosse cruciale per la sicurezza. Ha individuato tre elementi chiave per la sicurezza urbana: l'attività, la chiara separazione tra spazi pubblici e privati e la capacità degli abitanti di esercitare il controllo sul territorio.
Queste teorie ecologiche hanno coniugato la criminologia e l'urbanistica, aprendo nuove possibilità per la formulazione di politiche volte a ridurre la criminalità. Tuttavia, l'efficacia di queste teorie è spesso legata all'effettiva riduzione dei tassi di criminalità e alla percezione della sicurezza delle persone.
Il degrado urbano, ad esempio, può spingere le persone a distaccarsi dai propri territori, riducendo l'integrazione sociale e le opportunità di controllo sociale informale.
Inoltre, la presenza di spazi poco accessibili può contribuire ad una maggiore percezione di insicurezza e ad una maggiore suscettibilità ai comportamenti devianti.
Come si crea una città sicura. Esistono delle tecniche di sicurezza urbana?
Ci dice Natalia Coppolino del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia dell’Università degli Studi di Bologna:
In linea generale sarebbe opportuno evitare angoli ciechi, cortili interni, scale, ascensori, uscite laterali poco sorvegliate
favorendo invece la costruzione di abitazioni con finestre ampie che si affaccino sulla strada sottostante, una illuminazione pubblica funzionale, attività commerciali che favoriscano il passaggio di soggetti differenti in orari diversi, luoghi di ritrovo intergenerazionale quali giardini e parchi.
Il primo obiettivo delle politiche di prevenzione del crimine legate al design ambientale è la progettazione di quartieri esteticamente gradevoli in cui il controllo naturale degli accessi sia favorito dalla presenza di barriere fisiche e “simboliche” quali portici, marciapiedi, strade, recinzioni, cancelli, diversificazione del manto stradale, illuminazione etc.
L’utilizzo di markers fisici scoraggia l’accesso a zone private da parte dei non-abitanti; la progettazione di finestre che permettono agli utenti di essere visti e di osservare a loro volta fa sì che eventuali intrusi siano immediatamente riconoscibili. Gli accorgimenti proposti, fortemente orientati ai fattori di contesto tra i quali le caratteristiche fisiche dell’ambiente e l’assenza di controlli hanno portato allo sviluppo della prevenzione situazionale che mira principalmente ad aumentare difficoltà e rischi per il potenziale criminale, riducendone i vantaggi. Rientrano in questa categoria interventi quali:
il controllo degli accessi; l’utilizzo di sistemi di allarme e videosorveglianza; controllo formale da parte degli operatori delle forze dell’ordine; sorveglianza naturale incentivata dalla presenza di “occhi sulla strada” (persone che frequentano il quartiere, finestre ampie che si affacciano sulle strade, etc).
Questi aspetti sono centrali nelle riflessioni degli autori appartenenti al filone di studi della CPTED – Crime Prevention Throught Environmental Design, affermatosi a partire dagli anni ’70.
Un luogo abbandonato o poco curato può diventare la cornice perfetta per la commissione di un crimine.
L'indifferenza dei soggetti verso la vivibilità del quartiere di residenza potrebbe legittimare l'azione del potenziale vandalo o criminale, seguendo il continuum che dell'inciviltà porta alla criminalità in una escalation di violenza, in breve tempo il luogo potrebbe diventare inospitale e insicuro.
Occorre dunque lavorare sul senso di appartenenza dei cittadini ai luoghi.
L’obiettivo principale è favorire il benessere delle comunità locali attraverso l’attuazione di progetti che: contrastino il disagio giovanile e permettano il reinserimento di ex detenuti; favoriscano la mediazione di conflitti negli spazi pubblici e privati; si rivolgano alle vittime di reato.
Le tecniche di sicurezza urbana contemporanea rientrano nella più ampia prevenzione comunitaria che comprende strategie volte ad incentivare la partecipazione dei cittadini singoli e associati nelle attività di prevenzione. Queste tecniche si concentrano in modo particolare sul fattore umano.
Il community policing cerca di rivedere il rapporto tra cittadini ed operatori delle forze dell’ordine, andando ad instaurare una collaborazione attiva attraverso un canale di comunicazione diretto. Gli agenti sono infatti invitati a vivere quotidianamente il quartiere nel quale si trovano ad operare, creando relazioni significative con abitanti e commercianti, prendendo parte alle riunioni ed agli eventi organizzati dalla comunità.
Il neighborhood watch coinvolge direttamente i cittadini in un controllo appiedato e non armato delle vie del quartiere, il cui obiettivo principale è fungere da deterrente alla commissione di crimini.
Le social street cercano di intervenire sui rapporti umani, proponendo eventi, manifestazioni, attività culturali lungo le vie del quartiere così da connettere luoghi e persone per migliorare il senso di appartenenza territoriale ed incrementare la socializzazione.
La partecipazione dei cittadini alla cura dei luoghi può essere incentivata attraverso la sottoscrizione di patti di collaborazione con le amministrazioni locali, a sottolineare quanto la cura degli ambienti comuni non sia esclusivo appannaggio di una sola componente sociale. Si tratta di accordi scritti stipulati tra Comune e cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di cura, rigenerazione, gestione di uno spazio o bene pubblico in modo da valorizzarne l’uso collettivo.
Investire in una progettazione attenta alle persone è il mantra per eccellenza per un buon progettista. Un impegno costante che permette a tutti di beneficiare di ambienti urbani che ispirano il benessere collettivo e rendono la vita nelle città un'esperienza gratificante e sostenibile. Carlo Ratti, architetto e direttore presso il Senseable City Lab del MIT di Boston non a caso parla di "Senseable city" indicando con il termine "senseable" una città sensibile alle esigenze umane e, allo stesso tempo, capace di percepire il mondo che la circonda.
Professor Ratti la nostra contemporaneità evidenzia sempre più la presenza di costruzioni che “scollegano” chi le abita. Per anni ci si è focalizzati sul modello delle “città intelligenti” dimenticando, forse, che in questa definizione non possono essere racchiuse tutte le dimensioni umane. In tal senso qual è il surplus che possono apportare le “Senseable cities”?
Quando abbiamo proposto l’idea della "Senseable City” volevamo evolvere la riflessione sulla “Smart City” spostando il focus dalla tecnologia alle persone. Nella città sensibile, le persone sono al centro di un uso consapevole e generativo della tecnologia. Internet è diventato l’Internet of Things – in italiano potremmo dire l’Internet delle Cose e l’Internet delle Case. Tutti i nostri dispositivi, dagli smartphone ai frigoriferi fino alle automobili sono ormai connessi in rete e generano una grandissima quantità di dati. Leggendo quei dati – con “sensori” che raccolgono informazioni e “attuatori” che rispondo a quell’analisi – possiamo disegnare città più connesse, certo, ma soprattutto dove le persone tornano a connettersi.
Questi temi sono anche al centro di un editoriale che abbiamo pubblicato sul New York Times insieme al mio amico e collega Edward Glaeser – direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Harvard.
Abbiamo riflettuto attorno al concetto di “Playground City”: partendo dal bisogno di ripensare l’ufficio, abbiamo disegnato una nuova visione urbana che parte proprio dal creare nuovi collegamenti tra le persone.
In “Urbanità” parla di città come luoghi di scambio, confronti di idee e Geoffrey West di posti che vanno pensati come una sorta di "'acceleratore umano”. Da qualche parte abbiamo disatteso questa premessa? Se sì, quando?
Non penso che la premessa sia stata disattesa – se guardiamo ai numeri le città funzionano da acceleratori umani oggi così come all’inizio della loro storia, circa 10,000 anni fa. Ma proprio questa accelerazione crea altri problemi. Ambientali innanzitutto: le città si consumano circa il 75% di tutta l’energia utilizzata sulla terra e sono responsabili dell’80% delle emissioni. Potremmo dire che il futuro del pianeta si gioca nelle nostre città.
Pensare ad una progettazione che tenga assieme digitale e sostenibilità ambientale e sociale sembra una grande sfida. Cosa dovremmo “conservare” e cosa dovremmo “superare” del modello delle vecchie civitas?
Partiamo dai dati.
Quattro numeri fondamentali: 3, 55, 75, 80.
Le città occupano il 3% della superficie globale, ma ospitano il 55% della popolazione globale e, come dicevamo, sono responsabili del 75% del consumo globale di energia e dell’80% delle emissioni di CO2. È chiaro che rendere le nostre città più sostenibili è una sfida cruciale. Per far questo bisogna agire su due fronti: urbs, la città fisica, e civitas, la comunità dei cittadini che la abitano. La civitas può giocare un ruolo fondamentale: i cittadini, cambiando i loro comportamenti (anche grazie ai dati e al digitale) possono trasformare il funzionamento della città. Pensiamo ad esempio a come il digitale ha cambiato il nostro modo di lavorare a distanza negli ultimi anni – e come questo cambiamento, a sua volta, sta avendo un impatto su tutte le aree urbane del pianeta.
Un ultimo punto per quanto riguarda la civitas. Credo che tutti i processi di trasformazioni urbana debbano essere gestiti in maniera aperta e trasparente, innescando un dibattito costruttivo tra amministratori, professionisti e cittadini. Si tratta di meccanismi di feedback molto simili a quelli che avvengono in natura. A noi piace molto contribuire ad essi sia con i nostri progetti – che cerchiamo sempre di condividere con un pubblico ampio proprio per riceverne riscontri. Ma anche con proposte provocatorie, come abbiamo fatto nei mesi scorsi sia a Torino (sul Corriere della Sera, sostenendo che il futuro dell’antica capitale sabauda dovrebbe essere Milano) sia a Venezia (proponendo sul Domenicale del Sole 24 Ore di lasciarla affondare trasformandola in un parco a tema sottomarino). Entrambe queste provocazioni hanno innescato un bel dibattito – e un bel dibattito è importante: è il sale del “fare città”.
"Fare città" è un pò come scrivere storie. Esistono luoghi che salvano e luoghi che dannano. Luoghi che redimono e luoghi che condannano. L'urbanistica non è dunque solo un'arte dell'edificare spazi, bensì una sorta di alchimia capace di plasmare in maniera pericolosamente straordinaria le esperienze umane e la vita di una comunità nel suo complesso. Chi la pratica progetta e guida non solo le forme tangibili di uno spazio, ma anche il suo spirito e il suo sviluppo, con la stessa responsabilità e influenza di un insegnante.
Foto Caivano: Gianni Cipriano
Altre foto: Foto in creative commons Unplash