Intervista di Antonella Vitelli, Bologna, gennaio 2020
Sono passati più di 80 anni dalla morte di Antonio Gramsci, ma siamo ancora qui ad invocarlo, soprattutto quando dobbiamo ritrovare il baricentro di ciò che siamo e di ciò che il mondo non ha capito della nostra visione.
Fondatore del Partito Comunista d'Italia, Gramsci è considerato ad oggi uno dei più importanti pensatori del XX secolo oltre che l'ideatore degli scritti più originali della tradizione filosofica marxista.
Gramsci è politico, sociale, intellettuale e operaio, ma prima di tutto è un pensatore globale. Ma questo cosa vuol dire? Come applichiamo al presente il concetto di "egenomia"? Ma soprattutto cosa non ha compreso la sinistra di questo grande pensatore? L'ho chiesto a Michele Filippini, Ricercatore dell'Università di Bologna. I suoi studi riguardano la storia del marxismo, la nascita del canone sociologico tra 800 e 900, le forme della legittimazione e del potere politico. È autore di articoli e volumi sul pensiero e la fortuna internazionale di Antonio Gramsci, sull'operaismo italiano e la figura di Mario Tronti, sulla teoria politica di Ernesto Laclau. Tra le sue recenti pubblicazioni: Using Gramsci: A New Approach (Pluto Press, 2017); Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società (Carocci, 2015) e in co-curatela Mario Tronti, Il demone della politica (il Mulino, 2017).
Michele qual è la grande lezione che Gramsci ha dato al 900 e al pensiero di sinistra?
Direi che ha dato due lezioni diverse. Al 900 ha dato una delle prime riflessioni sul passaggio a una politica di massa, sul come la politica cambia radicalmente con il protagonismo di masse di contadini e di operai che fino alla prima guerra mondiale erano ai margini del sistema politico. Questa è una lezione epocale, che in quegli anni ha davvero pochi epigoni.
I Quaderni non sono altro che una lunga e faticosa riflessione sul perché i socialisti italiani, e poi i comunisti, non sono riusciti a capire questo passaggio, mentre il fascismo l’ha fatto.
Al pensiero di sinistra, parlo del contesto italiano, ha invece dato praticamente tutto. Nel senso che da Gramsci si dipana una storia, fatta di continuità e discontinuità, che porta fino ai giorni nostri. Anche per questo è sempre difficile identificare un contributo specifico del pensiero gramsciano al pensiero di sinistra, trattandosi della matrice stessa di questo pensiero. Ci sono stati certamente dei filoni del pensiero di sinistra anti-gramsciani (come l’operaismo), ma anche questi hanno dovuto ripiegare sulla critica all’“uso” del pensiero gramsciano, fatta dal Pci, più che sulla critica a Gramsci stesso.
Questo fa di Gramsci un classico. E se è vero che i classici è sempre difficile criticarli direttamente, è anche vero che dalla loro continua reinterpretazione può sempre emergere una novità.
Nel libro Gramsci globale. Guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo parli di visioni cosmopolite, metropolitane, profetiche, cinematografiche che compongono un Gramsci globale. Cosa rende Gramsci un “fenomeno” globale?
Quando ho scelto questo titolo, ormai quasi 10 anni fa, l’ho fatto con un pizzico di gusto per il paradosso. La “rinascita” degli studi gramsciani nel mondo era appena iniziata dopo almeno tre decenni di oblio, mentre in Italia gli studi su Gramsci riproponevano una lettura tutta centrata sulla tradizione culturale italiana e sulla storia del Pci. Le presunte “rivelazioni” giornalistiche su conversioni religiose in punto di morte, su fantomatici quaderni scomparsi e altre sciocchezze del genere chiudevano il cerchio di un dibattito ancora molto provinciale, che riproduceva stancamente i propri riflessi anticomunisti. Fuori dall’Italia stava invece succedendo qualcosa di importante, o almeno a me sembrava stesse succedendo. Non solo nelle università, ma soprattutto in quel mondo che stava a cavallo tra cultura popolare, letteratura e politica. Gramsci era letto, usato, stravolto, scomposto e ricomposto. Non stavano cercando una sua nuova interpretazione, non avevano scoperte filologiche da comunicare al mondo, lo usavano invece come cassetta degli attrezzi per mobilitarsi politicamente, o per svecchiare la strumentazione concettuale dei campi disciplinari più diversi.
Michele chi detiene oggi l’egemonia culturale? Cosa direbbe Gramsci delle sardine?
L’analisi gramsciana sull’egemonia (definirla culturale è una nostra semplificazione) conteneva due aspetti diversi. Il primo era l’attenzione al lato “consensuale” della politica, ovvero al piano delle convinzioni, della loro formazione, del senso comune, dell’ideologia, ecc.
Capire come funzionano i meccanismi del consenso, non solo in politica ma generalmente nella società, è da allora un fattore imprescindibile per ogni teoria politica.
Il secondo aspetto era invece una precisa strategia politica, di origine leniniana, di alleanza tra operai e contadini. Questo secondo aspetto può sembrare il più distante dal nostro contesto attuale, ma secondo me non lo è. Qual era lo scopo dell’egemonia in questa seconda accezione? Nientemeno che il tentativo di costruire una volontà politica unitaria a fronte di una pluralità sociale. Mi sembra che, 100 anni più tardi, pur avendo diversi e più numerosi soggetti sociali, il problema rimanga in gran parte lo stesso. Ovviamente non ho idea cosa avrebbe pensato Gramsci delle sardine, posso solo supporre che sarebbero state al centro della sua attenzione perché, come Machiavelli, tendeva a confrontarsi sempre con la verità effettuale della cosa.
Gramsci scriveva "Ogni movimento rivoluzionario è romantico, per definizione". Secondo te cosa avrebbe scritto sui populisti, europei e di oltreoceano, anche partendo dal presupposto che l’associazione tra populismo e destra resta errata! Giusto?
Questo è un terreno scivoloso, perché ormai la parola “populismo” si porta dietro un carico politico molto forte, dal quale è difficile prescindere anche volendo definirlo in maniera più accurata. Se evitiamo di equiparare populismo e sovranismo, populismo e razzismo, populismo e autoritarismo, allora secondo me possiamo anche sostenere che il populismo non è altro che un modo di fare politica, la cui caratteristica principale è quella di tracciare un frontiera tra un “noi” e un “loro”, di creare un antagonismo. Nei “momenti populisti” c’è la possibilità che questa frontiera si sposti e venga tracciata nuovamente, come sta avvenendo oggi: da destra tra “nativi” e migranti (le nuove destre europee), da sinistra su un piano di classe (la bellissima campagna di Bernie Sanders negli Usa). Secondo me Gramsci ci ha lasciato un ottimo strumento concettuale per capire questa “temporalità” della politica, e quindi anche questi rivolgimenti: la distinzione tra guerra di movimento e guerra di posizione.
Il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi in un articolo su Huffingtonpost parla del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica Mattarella come di un discorso di evocazione gramsciana. Rossi scrive: «Se non sbaglio tutta la riflessione di Gramsci ruota proprio intorno a queste questioni. Dalla sua elaborazione, dal suo linguaggio e dalle sue teorie la sinistra può e deve ripartire per cercare le categorie e gli strumenti che la facciano uscire dalla crisi. Pare che in gran parte del mondo questo avvenga e che la sinistra studi Antonio Gramsci per interrogarsi e darsi risposte sul presente. Forse, per noi in Italia, è ora di augurarci anche di superare il nostro provincialismo e la nostra ansia iconoclasta». Cosa ne pensi? Da quale concetto gramsciano dovremmo ripartire per riaffermare la centralità della sinistra o di qualcosa che gli somigli il più possibile?
La sinistra italiana ha una certa fama, direi meritata, di essere alla costante ricerca di un ripensamento delle proprie categorie.
Ma il ripensamento in politica si attua, non si teorizza, e non è certo un caso che chi più parla di innovazione, ripensamento, aggiornamento, finisca quasi sempre per schiacciare ogni proprio pensiero e ogni propria azione sul presente, dando prova di una subalternità culturale a un “modello unico” di pensiero, che per comodità possiamo chiamare neoliberale. Da questa parte non se ne esce, cioè da quella generazione che ha avuto il ruolo storico di rappresentare il tradimento della tradizione di cui anche Gramsci fa parte. Preferisco pensare che il paese che ha dato i natali a Gramsci, che ha avuto il più forte partito comunista in Occidente, che ha vissuto la più grande stagione di mobilitazione negli anni ’60 e ’70, sia destinato ad esperire gli eccessi, e che dietro la più grande sconfitta politica e culturale della sinistra in Europa ci possa essere una generazione che, partendo dal nulla, sia in grado di praticare nuove vie, saltando a piè pari gli ultimi decenni, magari riconnettendosi in maniera creativa proprio ad Antonio Gramsci.