Tempo pieno: la rivoluzione mancata della scuola italiana

Tempo pieno: la rivoluzione mancata della scuola italiana

a cura di Antonella Vitelli, Benedetta Musso e Silvia Sardi con i contributi di Christina Salmivalli, Professoressa finlandese di psicologia e ideatrice del programma KiVa contro il bullismo, Irene Manzi, Responsabile scuola del Partito democratico e Francesca e Sarah di Mammadimerda.

Il recente dibattito parlamentare sull’educazione sessuale nelle scuole secondarie di primo grado ha riportato al centro una questione che va ben oltre il tema della sessualità: che tipo di scuola vogliamo per le nostre ragazze e ragazzi? La domanda è urgente, perché oggi alle donne è richiesto un doppio ruolo impossibile: lavorare come se non avessero figli e crescere figli come se non lavorassero. Mentre lo Stato arretra e il mercato occupa gli spazi lasciati vuoti, la scuola rimane immobile, ancora ancorata a un modello pensato per un’Italia che non c’è più. Così, nei pomeriggi, la società digitale prende il posto della comunità educativa, diventando la presenza quotidiana accanto ai giovanissimi.

Ed è un paradosso evidente, perché avviene esattamente il contrario di ciò che le comunità scolastiche stanno cercando di costruire: relazioni, cooperazione, partecipazione, esperienze condivise. Mentre scuole e insegnanti provano a ricucire legami e a restituire senso al tempo educativo, quel tempo si disperde nello spazio digitale, dove prevalgono solitudine, consumo e algoritmi che intrattengono ma non formano. A questo punto, la domanda inevitabile è:

cosa dovrebbe offrire la scuola quando la famiglia non può più sostenere da sola il carico educativo?

Quali spazi, quali tempi, quali esperienze devono essere garantiti a tutti i ragazzi, indipendentemente dal censo? Ripensare la scuola non significa solo aggiungere ore, significa restituirle una missione ben più ampia. Attività pomeridiane strutturate come arte, musica, theater, volontariato, sport, laboratori creativi non sono un semplice complemento, sono competenze di vita: cittadinanza, empatia, cooperazione, creatività. Sono queste le competenze che contrastano isolamento, disagio e devianza. Ma c’è un punto ancora più decisivo. Il tempo pieno è uno degli strumenti più efficaci per ridurre le disuguaglianze economiche e sociali. Le famiglie con più risorse possono permettersi corsi privati, sport, musica, tutor e doposcuola; le altre no. Senza un’offerta pubblica che accompagni studenti e studentesse per l’intera giornata, ciò che per alcuni è apprendimento diventa, per altri, assenza di stimoli. E da qui nasce un divario educativo che non solo si apre, ma si allarga.

Il nodo non concerne solo cosa insegnare, ma quanto tempo la scuola dedica, insieme alla famiglia, alla crescita umana e sociale degli studenti. 

La scuola media italiana nasce nel 1962, in un Paese dove le madri erano a casa e i padri in fabbrica. Quel modello, con giornate brevi e nessuna mensa, funzionava in una società domestica e lenta. Sessant’anni dopo, con entrambi i genitori al lavoro e i nonni spesso troppo anziani per occuparsi dei nipoti, i pomeriggi sono diventati spazi di solitudine digitale.

Nel vuoto lasciato da scuola e adulti crescono ore di schermo, isolamento e sfide online. In questa logica, una scuola che chiude all’una non è più un presidio educativo, ma un abbandono. O si sceglie di far lavorare meno i genitori, oppure si devono mettere le famiglie in condizione di sapere che un bambino di undici anni non resta solo a casa per più di cinque ore al giorno.

Non si può pretendere una società di genitori iperproduttivi e, allo stesso tempo, lasciare i figli soli alle tredici. 

“È un equilibrio impossibile, e lo pagano i più giovani” dicono Francesca Fiore e Sarah Malnerich di Mammadimerda che nella petizione RISTUDIAMO IL CALENDARIO! Un nuovo tempo scuola NON è più RIMANDABILE evidenziano una serie di punti incluso quello che prevede di:

"Ripensare la didattica” attraverso intrecci tra educazione formale e informale.

Nelle scuole aperte al pubblico sia al mattino sia al pomeriggio potrebbe prendere forma un ecosistema educativo più ricco, capace di far dialogare apprendimenti formali e informali e di aprirsi a collaborazioni strutturate con realtà del terzo settore e del volontariato. L’obiettivo non sarebbe semplicemente prolungare l’orario scolastico, ma ripensare in chiave flessibile l’intera offerta formativa, trasformando gli istituti in veri presìdi culturali del territorio.

In questo quadro, accanto allo studio tradizionale, troverebbero spazio proposte diversificate — anche opzionali — che puntano a sviluppare la conoscenza di sé e l’esplorazione del mondo attraverso linguaggi espressivi come musica, arti plastiche, teatro e produzione video. Attività che intercettano capacità e interessi già diffusi tra i più giovani e che contribuirebbero a rafforzare la dimensione culturale e creativa della scuola.

L’apertura a soggetti educativi esterni, senza ricadute ulteriori sul carico di lavoro degli insegnanti, permetterebbe inoltre di offrire iniziative ludiche e ricreative radicate nel territorio. Un’opportunità particolarmente preziosa per studenti che provengono da contesti socioeconomici fragili, per i quali la scuola può diventare il primo luogo di accesso a esperienze culturali e relazionali altrimenti poco raggiungibili.

Ma non solo. C’è un dato che raramente entra nel dibattito pubblico: il tempo pieno non è solo una questione educativa, ma ha a che fare anche con il lavoro e il welfare.  

Una analisi di Banca d’Italia mostra che quando i figli frequentano scuole a tempo pieno, l’occupazione delle madri cresce in modo misurabile. In seconda elementare l’aumento è di circa un 1%, in terza media supera il 2%. Significa che una scuola capace di accompagnare i ragazzi anche nel pomeriggio permette alle famiglie di organizzare il lavoro senza sacrificare la presenza adulta.

Il tempo pieno si presenta come un elemento potentissimo di politica sociale e di conciliazione lavoro–famiglia.

In un paese come l’Italia con bassa partecipazione femminile al lavoro, garantire tempo scuola e doposcuola significa rendere concreto il diritto al lavoro per molti genitori. Se cosi fosse,. sappiamo però che così non è. Ad oggi in Italia solo il 2,9% degli istituti offre un vero tempo pieno fino a 40 ore settimanali. Per la maggioranza, la giornata finisce quando altrove inizia davvero l’educazione alla vita. Le famiglie si arrangiano come possono: doposcuola privati per chi può permetterselo, solitudine per chi non può. Una scuola che si ferma a metà giornata produce inevitabilmente disuguaglianza.

Ma come funziona nel resto d’Europa?

In Francia il collège termina alle 16:30, con mensa e laboratori. In Spagna e Portogallo le lezioni arrivano fino alle 17, spesso con moduli di cittadinanza e volontariato. In Finlandia e Svezia il pomeriggio è dedicato a musica, orti, attività pratiche e cooperative. Nel Regno Unito, gli after-school clubs offrono sport e teatro per insegnare collaborazione e competenze di vita.

“La scuola del pomeriggio serve a prevenire disagio e solitudine”, spiega Christina Salmivalli, Professoressa finlandese di psicologia e ideatrice del programma KiVa contro il bullismo. “È in quel tempo non accademico che si costruiscono relazioni positive. Dove manca la presenza degli adulti cresce il rischio di isolamento e violenza.” In Germania, le Ganztagsschulen hanno rivoluzionato il modello scolastico, estendendo la giornata a laboratori artistici, sportivi e sociali. “Oggi più della metà delle scuole secondarie offre pomeriggi educativi e mensa”, spiega Eckhard Klieme, del Leibniz Institute for Research and Information in Education. “È stato un passo decisivo verso l’equità.” Dalla metà degli anni Duemila, Klieme ha teorizzato la quality-oriented full-day schooling: il tempo prolungato non ha valore in sé, ma solo se viene usato per ampliare le opportunità educative. Le attività pomeridiane devono integrare la didattica con esperienze cooperative, artistiche e sociali, trasformando la scuola in un laboratorio educativo. Una scuola lunga solo se diventa una scuola “profonda”. Anche in Italia qualche esperimento resiste: il Giacich di Monfalcone, il P. S. Mancini di Cardito, il Pontano di Napoli e l’Istituto Santa Maria-Battisti di Moncalieri, che dal 2019 ha introdotto il tempo pieno obbligatorio per tutte le scuole dell’obbligo. Il problema italiano non è solo educativo, ma culturale. Il sistema si regge ancora sull’idea che qualcuno, a casa, possa occuparsi dei figli, ma quella figura non esiste più.

Offrire pomeriggi educativi di qualità significa dare le stesse opportunità di esperienza e crescita a chi altrimenti non le avrebbe. 

Il tempo pieno non è un privilegio né una misura da guardare con sospetto, come se implicasse una rinuncia da parte delle famiglie al loro ruolo educativo. Non è un “di più”; è una politica di equità, uno degli strumenti più efficaci per fare in modo che il percorso scolastico di un ragazzo non sia determinato dal reddito della sua famiglia. Ed è proprio qui che si innesta una rivoluzione scolastica, ed è proprio qui che si innesca la vera uguaglianza.

Una visione condivisa anche da chi, nelle istituzioni, sta tentando di riportare il tema al centro dell’agenda politica. La deputata e responsabile scuola del Partito Democratico, Irene Manzi, definisce il tempo pieno “la più potente politica educativa e sociale che il nostro Paese non può più rimandare”. Per Manzi serve “una strategia nazionale per rafforzare organici, spazi e servizi” e occorre “valorizzare i patti educativi di comunità, strumenti preziosi per integrare scuola, terzo settore, associazioni sportive e culturali, e rendere il pomeriggio un territorio condiviso di apprendimento e crescita”. La parlamentare sottolinea inoltre che il tempo pieno è una leva essenziale per ridurre la dispersione scolastica, sostenere le famiglie, favorire l’occupazione femminile e garantire pari opportunità: 

Scelta educativa, ma anche ricaduta economica.

L’estensione del tempo pieno nella scuola media non è soltanto una scelta educativa, ma avrebbe un impatto profondo anche sul lavoro e sugli organici del sistema scolastico. Oggi una scuola media italiana funziona su un modello di circa 30 ore settimanali. Un tempo pieno autentico ne richiederebbe almeno 40. Quel salto di 10 ore per ogni classe non rappresenta un dettaglio organizzativo, ma un cambio di scala:

più ore significa più insegnanti, più educatori, più figure di supporto. E significa, concretamente, lavoro.

Se si guarda a una scuola media di dimensioni medie, con dieci classi, l’estensione del tempo scuola comporterebbe cento ore aggiuntive da coprire ogni settimana. Una cattedra ne copre 18. Il semplice calcolo porta a un risultato sorprendente nella sua chiarezza: una scuola di queste dimensioni avrebbe bisogno di 5 o 6 docenti in più, senza contare quanto occorre per garantire anche laboratori artistici, attività motorie, musica, teatro, momenti cooperativi e presidi educativi del pomeriggio. Accanto ai docenti servirebbero almeno 2 educatori dedicati, una figura responsabile del coordinamento e un ampliamento del personale ATA, perché una scuola che resta aperta fino al pomeriggio non è solo più lunga: è più abitata, più attraversata, più complessa. Significa garantirne la sorveglianza, la mensa, la logistica, gli spazi.

Moltiplicando questi numeri per la realtà italiana la prospettiva diventa ancora più evidente. Le scuole secondarie di primo grado sono 5.300. Se anche soltanto la metà adottasse un tempo pieno strutturato, si creerebbero nell’immediato circa 21 mila nuovi posti di lavoro. Se il modello fosse esteso all’intero sistema, la stima sfiorerebbe le 42 mila unità. Non è un’ipotesi ottimistica: è un riflesso matematico di ciò che significa prendere sul serio l’idea che la scuola sia un luogo del giorno intero, non della mezza giornata.

In altre parole, il tempo pieno non è un costo: è un investimento. Significa rafforzare le opportunità educative di chi ha meno accesso a stimoli e attività extrascolastiche, significa sostenere l’occupazione femminile, perché è dimostrato che le madri lavorano di più quando i figli frequentano una scuola che li accompagna anche di pomeriggio, e significa creare lavoro qualificato in uno dei settori più strategici per il futuro del paese. Una riforma del genere avrebbe un impatto simile a quello che le Ganztagsschulen hanno avuto in Germania, dove la scuola “del giorno intero” ha generato decine di migliaia di posti tra docenti, educatori, operatori culturali e sportivi.

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