Intervista di Gioconda Fappiano, 15 novembre 2020
Perché il secondo lockdown fa più paura del primo? Cos’è cambiato dalla scorsa primavera ad oggi e soprattutto, quali saranno gli effetti psicologici del secondo confinamento che ci apprestiamo a vivere? Ne parliamo con il Dottor Enrico Maria Troisi, psichiatra clinico e forense, criminologo, neuropsichiatra presso l’A.O. “G. Moscati “di Avellino.
Dottor Troisi, quali sono stati i problemi psichici più frequenti emersi dopo il primo lockdown?
Credo che le patologie più comuni siano il disturbo dell’adattamento ed il disturbo post-traumatico da stress. Il primo prevede ansia, malumore e deterioramento del funzionamento personale, sociale e lavorativo; più tardivo e talora drammatico è il secondo, che somiglia a quello patito dalle persone esposte ad una aggressione brutale e improvvisa in guerra. A pericolo scampato, resta in loro una eco profondissima di quanto si possa essere esposti e vulnerabili a un tremendo insulto, fisico e morale, ed è allora che l’allerta, lo shock e le reazione iniziali lasciano il posto alla risoluzione. E la risoluzione può essere molto patologica. In pratica in guerra si cerca di sopravvivere, e non si ha, diciamo, tempo da sottrarre all’autotutela, dopodiché scatta la presa di coscienza piena del dramma vissuto. Durante la guerra dei Balcani, la gente di Sarajevo usava la paura come stimolo, e mentre usciva allo scoperto per approvvigionarsi di beni di prima necessità era più occupata a schivare le pallottole dei cecchini serbi che farsi prendere dal panico. E per farlo doveva muoversi di continuo. Del resto, in situazioni di pericolo l’atto di muoversi, geneticamente programmato, favorisce la salvezza, mentre il confinamento no, e quindi il restare chiusi e confinati, in guerra come durante un lockdown, evoca di per sé forti sentimenti di angoscia e smarrimento.
In guerra poi c’è un nemico tangibile, visibile, del quale puoi vendicarti o col quale potrai fare la pace. In pandemia no. Il nemico è il virus, la cui minaccia è vissuta per esperienza diretta o poco mediata mentre la pace non la si può negoziare in quanto la controparte è un “coso” di pochi micron.
Lo sa che lo spessore di un capello è 1125 volte maggiore di un virione di covid-19? Una causa di insorgenza tardiva del disturbo post-traumatico, come si è visto nei mesi della prima ondata, è stata l’assunzione autonoma di tranquillanti e antidepressivi, i quali non hanno fatto altro che ricacciare nel profondo immagini e ricordi terribili della pandemia, che però, in taluni, soprattutto operatori sanitari, sono riemersi dopo ed hanno occupato tutto lo spazio mentale. Anche in queste persone il disturbo si è presentato in forma completa come flashes di immagini e sensazioni sgradevoli con un fortissimo stato di panico, ma più spesso in forma frustra, frammentata (ansia, depressione, condotte pericolose, fobie ed ossessioni parcellari). I più colpiti sono stati i contagiati o quelli che hanno avuto contatti più o meno stretti con i positivi; la situazione di un nuovo lockdown quindi non può che abbassare ulteriormente la soglia di sopportabilità individuale e spingere sempre più persone verso una vera e propria malattia invalidante. Cioè non transitoria.
Però questo rischio, nella seconda ondata, dovrebbe essere in parte mitigato dalla esperienza fatta all’epoca delle prime zone rosse. Allora, i cittadini lombardi dovettero fronteggiare una situazione sconosciuta ed improvvisa, mentre oggi si sa e si può fare molto di più.
Come si può fronteggiare emotivamente una seconda fase di confinamento?
Razionalizzando il più possibile. Veda, nella prima fase s’ era già delineato uno scontro fra rischio percepito e rischio reale, per cui la gente oscillava fra il panico e la rimozione senza razionalizzare il problema. In vista dei lockdown chirurgici o reversibili della seconda ondata, purtroppo questo scontro potrebbe subire una radicalizzazione, in cui i negazionisti, cioè i “pazzi” che hanno neutralizzato l’angoscia col diniego (se una finestra è rossa, non puoi dire che è gialla, no?), combatteranno contro gli iper-realisti ortodossi, che sopportano passivamente e praticano ottusamente qualsiasi forma di restrizione. Comunque, l’unica risorsa da mettere in campo per fronteggiare emotivamente un nuovo lockdown è la stessa di prima e di sempre, cioè rendere ragionevole la paura. Preciso che la paura è cosa diversa dall’angoscia, cioè la paura è un fiume ingrossato mentre l’angoscia è un torrente di fango impazzito. La paura ha un oggetto, l’angoscia no. Per intenderci. l’angoscia la prova un bambino rimasto solo al buio, mentre la paura scatta di fronte ad un incendio. I negazionisti sostengono che il virus non c’è perché se no sarebbero travolti dall’angoscia. Detto ciò, bisogna riportare la paura al centro della propria azione ed anche del dibattito pubblico, perché fra le emozioni primarie la paura è lo stimolo più efficace all’ attuazione di strategie autoconservative; la paura razionale spinge all’adozione di distanziamento, mascherine e igiene per interrompere la catena di contagio, e consentirebbe alla gente anche di reclamare a gran voce che venga fatto l’impossibile per eseguire il tamponamento, il tracciamento ed il trattamento degli individui. Tutto qui, e non è poco, perché le misure da adottare sono fondamentali per correggere gli squilibri sanitari ma anche quelli economici provocati dalla pandemia; la pandemia, oltre al rischio sanitario, ha messo più della metà della popolazione di fronte al pericolo concreto di contrazione delle opportunità e perdita del diritto alla libertà di spostamento e di impresa, diritti inalienabili, impliciti e ormai interiorizzati. Fronteggiare emotivamente gli eventi con la paura è dunque la cosa più saggia che l’individuo riunito in collettività possa fare. Nel primo lockdown la gente ha dovuto sperimentare per molto tempo una situazione del tutto inusitata? Bene! Perché doverci arrivare di nuovo? Coabitazione forzata delle persone fra loro in spazi talora del tutto inadeguati che prima erano protesizzati dalla scuola, dalla strada, dall’assetto urbano con le relative reti e comunità; la solitudine, l’avvizzimento dei rapporti sentimentali, talora l’isolamento sensoriale; poi ritrovarsi accanto ad insicuri, dipendenti, violenti, antisociali, narcisisti, richiedenti, e provvedere al sostentamento, alla sicurezza, ed alla tutela proprie e dell’altro. Emotivamente questo è emerso dal primo lockdown e nel secondo (e successivi…) potrebbe andare addirittura peggio; il prossimo lockdown è sempre peggio del primo- che non si scorda mai…- e potrebbe sucitare nella collettività rabbia, perplessità, disgusto, impotenza, abbandono e soprattutto rivendicazioni ed azioni violente contro gli altri. Al posto di queste emozioni, anche nelle forme più sfumate o complesse, è bene provare paura. La paura, estesa universalmente, condivisa, sembra ciò che unisce in luogo di ciò che divide, e indirizza il singolo e la collettività verso comportamenti virtuosi.
Tra i fattori di stress può essere inclusa l’informazione inadeguata sulla pandemia?
Assolutamente sì! Tenga conto che molto di ciò che sappiamo arriva dai Social, e con FB e Google che stanno assorbendo tutte le infrastrutture di messaggistica istantanea tipo Whatsapp, si può immaginare come il prodotto che questi mostri vendono agli inserzionisti non può che essere la prevedibilità del nostro comportamento; gli utenti vengono selezionati da un algoritmo, sulla base dei dati che forniscono per lo più involontariamente, per poi essere aggregati in gruppi omogenei sulla base di interessi, convinzioni, elementi anagrafici, tasso e modalità di utilizzo dei media, orientamento politico, emotività etc..
Cioè l’informazione mediata si è data lo scopo di generare paure, sconforto, allarme, prevalentemente a scopo di profitto, e favorendo la dipendenza da smartphone rende gli utenti disponibili all’acquisto di beni e servizi. Poi diciamocela tutta: la gente sa leggere ma non capisce granché di quello che legge, ed alla fin fine gli restano appiccicati slogan, immagini e titoloni che si vanno a sedimentare inconsciamente nella mente e poco a poco, cambiano la percezione della realtà.
Ciò avviene specialmente con il ricorso alle metafore, strumento della comunicazione che, è ormai dimostrato, sono in grado di modificare il subconscio delle persone attivando schemi neuronali profondi non soggetti a critica, cioè al riparo dalla consapevolezza, per cui una persona può convincersi intimamente ed istintivamente che una affermazione ascoltata o letta sui media sia veritiera perché coincide con il proprio convincimento profondo. Sui social, questo gli algoritmi lo sanno, e propongono alla gente sempre gli stessi contenuti, cioè quelli che rafforzano i convincimenti indotti. Terrificante e geniale!
I pazienti già affetti da disturbi psichiatrici come sono seguiti durante questo periodo? Anche i reparti ospedalieri di psichiatria sono stati riconvertiti in reparti Covid?
Il Covid-19 ha di fatto interrotto i servizi di salute mentale in quasi tutti i paesi del mondo, servizi che già spendevano meno del 2% di budget prima della pandemia, mentre proprio la domanda di salute mentale è aumentata. Sono calati a picco l’accesso ai farmaci ed ai servizi di urgenza ed emergenza, le consulenze, la psicoterapia, mentre è aumentato il ricorso ad alcool e stupefacenti. Le patologie mentali pre-esistenti si sono esacerbate o o se ne sono affermate di specifiche, come dicevamo. L’Italia non sta messa meglio. Nei Dipartimenti di Salute Mentale sono state applicate linee di indirizzo stilate in massima parte dalla Società Italiana di Psichiatria, che raccomandano di migliorare l’accessibilità dei pazienti alle cure favorendo al massimo il teleconsulto. Non ho informazioni sulla possibilità di ospitare pazienti psichiatrici in sub-articolazioni di reparti Covid! Per loro c’è stata l’esperienza capofila del Niguarda, con un servizio ospedaliero interamente dedicato, ma per il resto all’attivo non c’è altro di organico e strutturale che io conosca. Però diciamo una cosa: le regioni e le ATS cui spetta l’implementazione delle linee guida si attivano sulla base delle risorse disponibili, e alla fine, in un paese con 21 sanità non omogeneamente finanziate ha prevalso la creatività e la farsa a svantaggio del rigore e della tragicità. Il discorso è lungo, ma vale la pena sottolineare che la pandemia e le restrizioni di accesso potrebbero costituire invece una occasione irripetibile per rilanciare i servizi e variegare l’offerta attiva. Invece i pazienti psichiatrici sono quelli fra i più sfortunati e che più subiscono gli effetti del sottofinanziamento, dei commissariamenti, e in genere della scarsità di personale. Qua e là sono stati attivati moduli di teleconsulto, hot-lines telefoniche, reti di supporto, servizi di consulenza, con l’implementazione di procedure per la prevenzione del suicidio, ma resta il dramma dei posti letto per pazienti psichiatrici e positivi al Covid. Non voglio né posso aggiungere altro, se non che gli operatori sono pochi, male attrezzati e peggio tutelati o motivati, e che la miopia ci alcune direzioni di dipartimento e delle ATS in cui operano, determina super esposizione e super responsabilizzazione civile e penale del singolo operatore. Questo, per inciso, è ulteriore motivo di burnout,.
La salute mentale degli operatori sanitari, soprattutto quelli ospedalieri, è messa ultimamente a dura prova. Come pensa si possa resistere a ritmi di lavoro stressanti e quali misure bisognerebbe secondo lei mettere in campo per evitare il rischio di burnout?
Mah, sicuramente il disturbo da stress ha colpito moltissimi operatori sanitari, tra l’altro trasformati da eroi a manutengoli nel volgere di pochi mesi. Questo anche grazie alla retorica dei social, che cambiano metafore come una top model ad una sfilata. La prevenzione stava e sta nell’organizzazione, nel numero di persone coinvolte, nelle rotazioni. Il resto è sangue e sudore, sì, ma ancora tollerabili se nel range della professionalità e della best-practice. Per cui, per usare una metafora efficace, Il burnout è più la conseguenza degli organici esausti e spolpati che del rischio di farsela addosso in una tuta da biocontenimento.
Però il dramma vissuto da alcuni, i più esposti, è epocale. L’impatto delle morti in solitudine, delle fami d’aria, e dell’altissimo turnover di posti letto, lascia tracce indelebili nell’emozionalità degli operatori coinvolti.
E’ necessario dunque un supporto di counselling e monitoraggio psicologico di gruppo, con supervisore, del tipo di quello attivo presso alcuni centri trapianto, in cui potrebbero essere utilmente impiegati gli psichiatri e gli psicologi dei dipartimenti. E temo che i nuovi lockdown rendano questa strategia non più rinviabile. Ma viene comunque rinviata per via, lo ripeto, del sottofinanziamento della spesa sanitaria ma anche di una certa miopia.
Quali sono secondo lei le ricadute sulla vita relazionale dovute al distanziamento? Quando tutto questo sarà finito potremo tornare alla vita di prima senza troppe ripercussioni negative?
Bella domanda. Le linee di frattura o di tenuta dei rapporti sono già date. Molto dipenderà dalle specifiche di ciascuna persona quanto a temperamento, carattere e personalità. A occhio e croce direi però che sta aumentando ovunque il livello di sensibilità verso il tema delle sfere vitali degli individui (mai superare l’ultima, a 45 cm dall’ombelico, no?), per cui sembra sempre più chiaro che è buona cosa non invadere gli spazi della gente se non quando ciò risulti inevitabile, come in situazioni di affollamento. E si sa, la modernità è molto affollata… Dunque ci sarà più sensibilità per il mantenimento della giusta distanza fisica ed emozionale fra le persone, una sorta di scandinavizzazione dei rapporti interpersonali, e d’altro canto si dovrà ricorrere sempre di più alla dematerializzazione, alla digitalizzazione ed al lavoro agile. Io credo però che In linea di massima diffidenza e precauzione produrranno sia un difetto che, per contrasto, un eccesso di richiesta di prossimità, anche sul piano emozionale ed etico. Cioè saranno all’origine solo di eccessi.
Discorso a parte meriterebbe il rischio dell’incremento delle differenze e dell’esplosione collettiva del razzismo, anche nella sua forma “untoriale”, da colonna infame per intenderci, con la creazione di tante nuove streghe di razza, religione, cultura, aspetto, diversi.
Ma, ripeto, il tema è molto complesso
Quella degli anziani è una delle categorie che presenta maggiori fragilità, ma si riscontrano problemi anche nei bambini e nei giovanissimi sempre più costretti a vivere “virtualmente” davanti ad un monitor. Come si può riempire il vuoto di realtà che si è creato? Pensa che le nuove generazioni ne usciranno più forti oppure indebolite da questa esperienza eccezionale?
Al centro del dibattito pubblico dovrebbe entrare la mutazione antropologica subita dai bambini durante il primo lockdown e gli interventi psico-pedagogici da attuare. Alla fine di qualsiasi lockdown, al momento del rientro, si dovrebbe cominciare per esempio ad accogliere gli alunni senza riferimenti diretti a ciò che è accaduto, perché i ragazzini sono stati tutti esposti alla quintessenza di un inedito assoluto, la pandemia, che solo un riesame graduale e progressivo delle privazioni patite potrebbe far digerire.
E in funzione di ciò gli insegnanti dovrebbero ricordare che più della metà degli alunni sono figli unici, ed hanno reagito al “coprifuoco” in maniera disomogenea; i più non potevano contare sulla mini-comunità dei compagni, vivevano stipati anche in luoghi angusti o in famiglie problematiche, erano eccitati dalla clausura gadget-assistita o languivano sopraffatti da adulti spaventati e ondivaghi. Ciò ha sfasciato le certezze del loro immaginario ha e portato alla ribalta i temi della fine, della morte, della separazione e dell’assenza. Dunque sarebbe questo il momento di far capire quanto siano importanti la scienza, lo studio, la solidarietà per cacciarsi fuori dai guai, e quanto conti nella vita non avere certezze ma assumere invece un atteggiamento curioso, speculativo, aperto al cambiamento ed al miglioramento. Questo è inoltre il momento per impedire che si inceppi definitivamente il meccanismo di integrazione promosso dalla Scuola in favore della convivenza civile, dal momento che oggi è massimo il rischio che i ragazzini vedano l’altro, specie se extracomunitario, come portatore sia di diversità che di virus.
Per gli anziani il tema è ancora più scottante. Sono improduttivi, consumano risorse, e non servono più a trasferire conoscenze (tanto c’è Google…!). Questo è ciò che pensano i beati costruttori di post-modernità: gli anziani (come le donne, i bambini, gli LGBT, i portatori di handicap) sono un problema!
Lo dico con profondo dispiacere ma non voglio cadere nella retorica dei buoni sentimenti e dire che gli anziani vanno tutelati al pari e più degli altri: qui il problema dei problemi è l’idea sbieca di “bene comune” che alloggia nei residences del potere,
Ha avuto modo di seguire pazienti che sono usciti dal tunnel del Covid? Quali strascichi lascia con più frequenza questa malattia su chi si è trovato ad affrontarla?
Poche persone, in verità. La mia esperienza si basa più che altro sull’aneddotica dei colleghi che hanno lavorato durante la prima ondata in aree maggiormente esposte. Posso dire solo che la salute mentale di chi è fuori dal tunnel è funzione di quella fisica. Covid 19 lascia brutti “ricordi”, di tipo respiratorio, circolatorio e neurologico, per cui se l’individuo ha riportato danni permanenti, più o meno gravi, nella sua unità bio-psico-sociale, ne uscirà sempre piuttosto menomato Qualcuno ha individuato nella “Sindrome Psiconeoplastica”, descritta da Guarino nel 1994, il prototipo delle sequele psico-comportamentali da covid. Sarebbe un mix di (cito testualmente) precipitoso senso di immanenza della morte, caduta della propria immagine, spiacevole alterazione del vissuto corporeo, angoscia di disgregazione, modificazioni imposte dello stile di vita, perdita del ruolo familiare, riduzione delle capacità lavorative, dubbi sulla capacità di mantenere un ruolo attivo nei legami affettivi e sessuali, senso di perdita del gruppo di appartenenza sociale, ostilità e aggressività verso l’ ambiente circostante.
Lei dottore pensa che i disturbi legati alla salute mentale in questo periodo emergenziale possano essere considerati socialmente invalidanti?
Se transitori no. O meglio, più individualmente invalidanti che socialmente, ma l’incremento della domanda di interventi a tutela della salute mentale indica che il corpo della collettività ha reagito non benissimo alla pandemia mostrando una insospettata vulnerabilità.
Il virus ha infettato il sistema emopoietico, il midollo osseo della società, creando i presupposti per una anemia sociale e psichica aplastica.
E proprio l’insufficiente produzione di tutte le cellule necessarie, di tutti gli agenti del processo, sarebbe la causa ultima della depressione, dell’ansia, del pallore, della debolezza, della sensibilità alle infezioni e delle emorragie che vediamo in atto nella società (P. Calamandrei cit. da F. Lorenzoni).
Per cui Io credo che solo avendo un’idea di bene comune forte, basata sulla rivalorizzazione di principi umanissimi quali equità, solidarietà, responsabilità e unità, la politica potrà agire in modo da contenere gli effetti dell’anemizzazione psico-sociale sul lungo periodo. Se no, al prossimo lockdown…tutti giù per terra.