Fammi stare bene. Il benessere in tre atti

Fammi stare bene. Il benessere in tre atti

Intervista a Fabrizio Cerusico a cura di Antonella Vitelli

C’è un momento, nella vita di ciascuno, in cui “stare bene” smette di essere un concetto marginale e diventa un’urgenza concreta. È da questa consapevolezza che nasce Fammi stare bene. Il benessere in tre atti (Ribalta Edizioni, 2025), il nuovo libro di Fabrizio Cerusico, medico e divulgatore che affronta la salute non come una condizione statica, ma come un’evoluzione continua dell’essere in tutta la sua complessità.

La sua visione si muove come una pièce teatrale e insieme come un processo filosofico: tre atti che corrispondono a una dialettica hegeliana in cui ogni tesi incontra la propria antitesi per poi fondersi in una sintesi più alta. Nel primo atto, l’individuo osserva il proprio mondo, i ruoli che interpreta, le relazioni, il lavoro, i desideri: è la tesi, il punto di partenza. Nel secondo atto, il corpo entra in scena e con esso la crisi, l’antitesi che mette in discussione l’equilibrio precedente. Nel terzo, infine, arriva la sintesi: la conquista dell’armonia tra corpo, mente e anima, dove il benessere diventa una forma di conoscenza di sé e del mondo.

Tra medicina, psicologia e spiritualità, Cerusico propone una nuova idea di salute: un cammino circolare, non più gerarchico, che sostituisce alla vecchia piramide di Maslow la “ruota del benessere”, in cui ogni dimensione dell’esistenza si alimenta e si riflette nelle altre. Lo abbiamo incontrato per parlare di questa visione e per capire come il benessere possa diventare una forma d’arte, un atto di consapevolezza quotidiana.

Ha scelto di raccontare il benessere come un “dramma in tre atti”, seguendo una struttura teatrale che ricorda la dialettica hegeliana. È una metafora o un metodo? In che modo questa scansione aiuta a comprendere la trasformazione interiore dell’individuo?

Non è solo una metafora, è un metodo. La struttura in tre atti è certamente ispirata al linguaggio teatrale e alla dialettica hegeliana, ma nel libro diventa uno strumento concreto per accompagnare il lettore in un percorso di trasformazione. Ho scelto questa forma perché il benessere, secondo me, non è un punto d'arrivo né una condizione da mantenere a tutti i costi, ma un processo vivo, in continua evoluzione proprio come accade in una rappresentazione teatrale.

Nel testo lei sostituisce la piramide di Maslow con una “ruota del benessere”. In un mondo dominato dalla velocità e dalla performance, cosa significa rimettere tutti i bisogni sullo stesso piano?

Non è’ un sostituire la piramide di Maslow ma intercettare una nuova forma con una ruota del benessere,per me significa cambiare radicalmente prospettiva: da un modello gerarchico, lineare, che ci dice cosa "viene prima" e cosa "dopo", a un modello circolare, dove ogni bisogno è interconnesso agli altri.

La piramide suggerisce che possiamo occuparci della realizzazione di noi stessi solo dopo aver soddisfatto bisogni più "basilari", come il cibo o la sicurezza. Ma nella vita reale non funziona così.

Quante volte abbiamo avuto tutto lavoro, stabilità, salute eppure ci siamo sentiti vuoti, disorientati, in disequilibrio?

La ruota, al contrario, ci invita a vedere ogni dimensione - fisica, emotiva, mentale, spirituale, relazionale - come parte integrante di un unico organismo. Se trascuriamo una sola di queste aree, la ruota si deforma, e il nostro benessere ne risente. In un mondo ossessionato dalla performance e dalla produttività, rimettere tutti i bisogni sullo stesso piano significa anche recuperare l'idea che sentire è importante quanto fare, che prendersi cura del proprio mondo interiore non è un lusso, ma una necessità. Significa concedersi il diritto di fermarsi, di ascoltarsi, di non dover sempre "scalare" qualcosa per sentirsi validi. La ruota non si scala, si fa girare. E questo gesto circolare ci riporta al centro, lì dove il benessere può finalmente diventare un equilibrio vissuto, non solo immaginato.

Scrive che “meno avere, più essere” è la chiave per un benessere autentico. Da medico e da uomo, come si impara a passare dal desiderio di avere al bisogno di essere?

È una transizione che non avviene dall'oggi al domani, ma si impara,spesso attraverso la fatica, le crisi, i momenti in cui quello che abbiamo non basta più a farci sentire vivi. Come medico, vedo ogni giorno quanto l'"avere" sia diventato una forma di anestesia: avere successo, avere controllo, avere tempo, avere il corpo perfetto. Ma quando il corpo si ammala o la mente si inceppa, ci rendiamo conto che tutto ciò che possediamo non può sostituire ciò che siamo. Come uomo, ho imparato sulla mia pelle che il vero benessere nasce quando smetti di inseguire l'immagine di te che vuoi mostrare, e cominci a riconoscere chi sei, anche nelle tue fragilità. Passare dal desiderio di avere al bisogno di essere significa fare un salto di qualità interiore: smettere di identificarti con ciò che possiedi o realizzi, e iniziare a coltivare una relazione autentica con te stesso. E questo non vuol dire rinunciare all'ambizione o ai progetti, ma dare loro un fondamento più profondo. Perché quando l'essere guida l'avere, anche ciò che facciamo o costruiamo si carica di significato.

È lì che il benessere diventa reale: non più una meta da raggiungere, ma uno stato da vivere, momento per momento.

Nel suo percorso lega la fede e la scienza, due mondi che spesso si percepiscono come distanti. In che modo convivono nella sua idea di benessere?

Per me, fede e scienza non sono opposti, ma linguaggi diversi che parlano dello stesso mistero: la vita. La scienza osserva, misura, spiega. La fede accoglie, ascolta, dà senso. Sono due prospettive che, quando dialogano,arricchiscono la nostra comprensione dell'essere umano. Nel mio percorso di medico e di uomo, ho imparato che non basta conoscere il corpo per aiutare davvero una persona.

Bisogna ascoltare anche la sua anima, il suo silenzio, la sua ricerca di significato. La scienza può dirci come funzioniamo, ma è la fede intesa non solo come religione, ma come fiducia profonda nella vita, nell'invisibile, nella relazione con qualcosa di più grande che ci aiuta a rispondere al perché. Nel mio modello di benessere, questi due mondi convivono perché l'essere umano è complesso: non è solo un sistema biologico, né solo uno spirito incarnato. È entrambe le cose. Un approccio esclusivamente tecnico rischia di ridurre la persona a un insieme di sintomi. Un approccio solo spirituale può ignorare i segnali concreti del corpo. Quando fede e scienza si incontrano, invece, nasce un'alleanza potente. Non si escludono, si completano. E ci ricordano che guarire o meglio, stare bene, non significa solo eliminare un sintomo, ma riscoprire un'unità profonda dentro di sé.

Se dovesse scegliere una sola parola per riassumere il senso di questo libro, e del suo messaggio ai lettori, quale sarebbe e perché?

Se dovessi scegliere una sola parola per riassumere il senso di questo libro, sarebbe questa. Perché "presenza" è molto più che stare in un luogo o in un momento: è esserci davvero, con tutto se stessi - nel corpo, nella mente, nell'anima. In un mondo che ci spinge continuamente a proiettarci nel futuro, a rincorrere obiettivi, a distrarci da ciò che sentiamo, la presenza è un atto rivoluzionario. È ascoltarsi.

È sentire il corpo prima che gridi. È riconoscere le emozioni, anche quelle scomode. È scegliere con consapevolezza. Essere presenti significa non vivere per inerzia, ma con intenzione e autenticità. E credo che il benessere autentico cominci proprio lì: nel momento in cui smettiamo di fuggire da noi stessi e iniziamo a stare  nel vero senso del termine dove siamo.

È questo il messaggio che vorrei lasciare ai lettori: non serve essere perfetti per stare bene, serve essere presenti.




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