Come essere keynesiani senza sfasciare i conti. Intervista a Luigi Marattin

Come essere keynesiani senza sfasciare i conti. Intervista a Luigi Marattin

Intervista di Antonella Vitelli, 21 agosto 2019

Chi era Keynes? Cosa aveva compreso il pensatore inglese sulla modernità e sull'economia? Come si fa ad essere keynesiani senza sfasciare i conti? L'ho chiesto in questa intervista a Luigi Marattin, politico ed economista italiano, che dal 2014 al 2018 è stato primo consigliere economico del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e poi del successore Paolo Gentiloni.

Marattin è laureato in Economia delle amministrazioni pubbliche e istituzioni internazionali all'Università degli Studi di Ferrara nel 2001. Nel 2002 ha conseguito un Master of Economics all’Università di Warwick, nel Regno Unito. Nel 2005 ha vinto la borsa di studio Fulbright e ha trascorso sei mesi da junior visiting researcher negli USA presso la New School, la Columbia University e la New York University. Nel 2007 ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia politica all’Università di Siena. Dal 2008 è ricercatore a tempo indeterminato di Economia politica presso l'Università di Bologna, ed è docente di vari corsi, alcuni dei quali tenuti in lingua inglese

La «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ha definito Keynes il più potente economista del XX secolo. Qual è la sua grandezza e peculiarità nell’ambito della storia del pensiero economico?

Keynes è stato un gigante del pensiero economico. I suoi contributi sono stati molteplici e tutti rivoluzionari, con intuizioni che ancor oggi forniscono strumenti per comprendere e modificare la realtà, sebbene in un contesto radicalmente diverso da quello di un secolo fa. La sua produzione teorica è immensa, e non del tutto codificata (Keynes non usò quasi mai la matematica, e questo - contrariamente a quanto si possa credere - non ha aiutato nel dissipare completamente spazi di ambiguità nelle interpretazioni del suo pensiero). Se devo scegliere un aspetto, vado su quello più “commerciale”: aver fatto comprendere, dopo un secolo e mezzo di disciplina economica classica, il ruolo fondamentale del lato della domanda nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici.

Una lezione poi spesso fraintesa nei decenni successivi da chi voleva far credere (e vuole tuttora) che conti solo la domanda e mai l’offerta, ma che cionondimeno ha rivoluzionato la scienza economica.

Ma ce ne sarebbero molti altri, penso all’introduzione del ruolo delle aspettative, o i contributi sul mercato della moneta. Sul lato di policy, invece, scelgo di ricordare che fu l’unico a comprendere, dopo la fine della Prima Guerra mondiale, che l’imposizione di risarcimenti di guerra così pesanti alla Germania avrebbe provocato guai peggiori dopo poco tempo. Ed ebbe tragicamente ragione. 

Il biografo Robert Skidelsky scrive che Keynes vedeva le questioni economiche in un'ottica completamente diversa rispetto agli economisti della scuola classica. Pensava più in categorie sociali e psicologiche. Vedeva che gli istinti, i sentimenti e il comportamento collettivo esercitavano un forte influsso sulla vita economica e sulla politica. Marattin cosa direbbe oggi Keynes guardando l’Europa?

E’ una domanda affascinante, ma impossibile rispondere. Un intellettuale come Keynes avrebbe sicuramente utilizzato gli eventi dei decenni successivi alla sua scomparsa (decenni gravidi di novità - sia teoriche che empiriche - che hanno modificato il quadro storico-economico che lui aveva di fronte a inizio Novecento) per far evolvere il suo pensiero di pari passo con la trasformazione profonda dei sistemi economici. Mi limito a dire questo. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale Keynes fu tra i più attivi sostenitori del ruolo delle organizzazioni economiche internazionali, che infatti videro la luce a Bretton Woods nel 1944 sotto i suoi saggi consigli.

Oggi Keynes probabilmente sarebbe in prima fila nel processo in corso di ripensamento delle principali istituzioni economiche dell’integrazione europea.

Ma lo farebbe con l’equilibrio e la saggezza che lo hanno reso un gigante del pensiero economico. Non certo con gli slogan e l’incompetenza che spesso osserviamo nella politica italiana e non solo.

Prodi una volta riferendosi a Keynes disse che in economia non esistono leggi ferree, ma è necessaria una “discrezione intelligente” orientata al bene comune. Quindi espansivi, ma non troppo? Per citarti “come si fa ad essere keynesiani senza sfasciare i conti?”

A volte basterebbe semplicemente rileggere Keynes, piuttosto che interpretarlo liberamente come tanti fanno (non certo il Presidente Prodi, ovviamente).  Oggi, per bocca di qualcuno, lo si vuole far passare per quello che propugnava spesa e deficit illimitati, sempre e comunque. Ma Keynes ci ha insegnato che la politica fiscale è efficace per sopperire a carenze di domanda aggregata, ma non è la panacea di tutti i mali, la medicina da usare sempre e comunque, ogni volta che riteniamo che la crescita del Pil sia insoddisfacente. Altrimenti si rischiano guai peggiori, come lui stesso evidenziava molto chiaramente. E tornando alla sua domanda, per essere in grado di utilizzare lo stimolo fiscale quando serve, bisogna essersi guadagnato lo spazio fiscale necessario, e questo avviene solo conducendo una politica fiscale saggia e prudente quando il ciclo economico è favorevole. Cosa che in Italia non abbiamo mai fatto: per decenni tendevamo a spendere sempre, sia che il ciclo fosse favorevole che sfavorevole. E questo, assieme ad una crescita nulla della produttività negli ultimi due decenni, ci ha tolto ogni margine di azione per usare la politica fiscale in senso keynesiano senza parallelamente deteriorare le nostre condizioni di finanziamento. 

Il Reddito di cittadinanza preso così com’è è definibile come misura espansiva di matrice keynesiana? 

La mia critica fondamentale al Reddito di Cittadinanza è che sia uno strumento che vuol essere troppe cose tutte insieme. Strumento di lotta alla povertà (come era il vecchio reddito di inclusione, ma con più risorse); strumento di politica attiva del mercato del lavoro, e strumento per alzare i salari più bassi. Ma raramente accade che un solo strumento possa simultaneamente cogliere più di un solo obiettivo, figuriamoci poi tre.

Io credo che il reddito di cittadinanza andrebbe ripensato unicamente come strumento di lotta alla povertà, su cui probabilmente sta funzionando bene. E credo che si debbano lasciare gli altri due nobili obiettivi a strumenti diversi: la riforma del sistema di formazione professionale e l’abbassamento delle tasse sul lavoro.

Altrimenti si rischia di fare solo una grossa confusione. 

Nel Trattato sulla moneta Keynes scrive che nelle economie capitalistiche, caratterizzate dal conflitto di interessi più che dalla cooperazione tra gli  agenti macroeconomici la moneta e le banche svolgono un ruolo imprescindibile. Diversi economisti, non annoverabili alla tua “fazione”, evocano spesso argomentazioni relative alla “necessità di essere sovrani stampando moneta”. Questo topos è o no un grande equivoco? 

Non conosco economisti che sostengano la necessità di essere sovrani stampando moneta. Conosco individui spesso completamente a digiuno di ogni formazione o esperienza economica - erroneamente presentati come economisti - che lo affermano.

Nel mondo globalizzato, la “sovranità” non la si ottiene stampando moneta, ma evitando di dipendere in modo cruciale dal debito.

Perché anche se hai la tua moneta ma poi ogni anno devi chiedere 400 miliardi di euro (o l’equivalente nella tua moneta) in prestito ai risparmiatori di tutto il mondo per “tenere aperta la saracinesca” del paese, vi assicuro che non sei “padrone a casa tua” proprio per nulla. Del resto per comprendere quanto illusoria sia questa posizione, basta osservare quello che stanno vivendo paesi come l’Argentina o la Turchia. Ma spesso coloro che parlano a sproposito su questi temi non hanno neanche gli strumenti per comprendere quegli eventi e quelle situazioni. 

Destre illiberali, un mercato che cambia e che soffia favorevole in altre direzioni, la crisi della fabbrica e del lavoro così come l’abbiamo inteso fino ad ora. I partiti progressisti europei cosa devono conservare e cosa devono superare della teoria di Keynes per affrontare le enormi sfide economiche e sociale che ci troviamo di fronte? Che fare? 

Come ho già detto, non ha senso prendere a prestito le argomentazioni di Keynes e adattarle sic et simpliciter al contesto attuale. Sarebbe lo stesso Keynes il primo a non volerlo fare, sapendo benissimo che ogni pensiero - sebbene avente impatto duraturo - è indissolubilmente legato al proprio tempo. Penso che l’offerta politica che si oppone al sovranismo populista (se e quando ne avremo una, unificata e forte) debba partire dal gridare a pieni polmoni che il mondo globalizzato presenta molte più opportunità che rischi. Ma che tali opportunità (eccolo l’errore compiuto da tanti, negli ultimi 30 anni) non si materializzano da sole, e soprattutto non sono distribuite ugualmente a tutti, in modo automatico. Allora compito della politica è assicurarsi che esse sia appannaggio non di molti, ma di tutti.

Accompagnando gli individui al cambiamento necessario per poter vivere, lavorare, studiare e competere nel mondo globalizzato (che non è il mondo degli Anni Trenta del secolo scorso, ma neanche degli Anni 80 o 90), senza lasciare indietro nessuno e fornendo a tutti l’occasione per la “ricerca della felicità”.

Mi piace pensare che un vecchio - e grandissimo - liberale come Keynes sarebbe d’accordo.

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