Covid e Italia: perchè il problema dell'alta mortalità arriva da lontano?

Covid e Italia: perchè il problema dell'alta mortalità arriva da lontano?

Intervista di Antonella Vitelli, Torino, 8 dicembre 2020

Il Covid in Italia fa paura, soprattutto per l'alto numero di morti. Ieri, 10 dicembre, gli 887 decessi hanno ribadito ancora una volta la sensazione di un evento più che terrificante. Guardandola su un panorama molto più ampio, avere dati comparabili a livello internazionale è difficile, ma certo è che il divario sul numero di decessi da Covid-19 tra l’Occidente e i Paesi dell’Est Asia è più che evidente.

I morti ufficialmente attribuiti al Covid dall’inizio della pandemia al 6 dicembre 2020 sono stati nel mondo oltre un milione e mezzo, l’Italia, dopo il Belgio ed il Peru, è il paese che è andato peggio nel mondo, e questo è successo sia nella prima che nella seconda ondata della pandemia. Cosa è accaduto? Dove abbiamo sbagliato e quanto ha inciso il problematico rapporto tra Stato e Regioni in questo brutto risultato? Certo è che un decentramento pasticciato” ha mostrato limiti e confusione, soprattutto nel campo della sanità. A spiegarci cosa è accaduto c'è Vittorio ValliProfessore emerito di Politica economica dell'Università di Torino.  

Professore dopo mesi siamo ancora qui a parlare di contenimento del Covid.  Secondo lei cosa non abbiamo imparato dalle esperienze di altri paesi? E cosa non hanno imparato gli altri dalla nostra?

Abbiamo faticosamente imparato qualcosa sul COVID e su come si diffonde, ma poco su come si può affrontarlo con successo fino a quando non saremo in grado di distribuire vaccini efficaci alla grande maggioranza della popolazione. L'Italia e pressoché tutti i paesi occidentali (Europa occidentale, il Nord America e l’ America Latina)  hanno avuto danni assai più gravi, sia in termini di morti, sia in termini di perdite economiche e sociali, rispetto a quanto sia avvenuto nell’Asia del Nord-Est e nel resto del mondo. Quindi anche gli altri paesi occidentali ben poco hanno imparato dalla nostra penosa esperienza.

Questa seconda ondata lascia tanto amaro in bocca per via dell’alto numero di morti. Un mistero che non è semplicemente assimilabile ad una questione anagrafica. Professore lei che idea ha al riguardo?

I morti ufficialmente attribuiti al Covid dall’inizio della pandemia al 6 dicembre 2020 sono stati nel mondo oltre un milione e mezzo: quasi 289 mila  negli USA e 177mila in Brasile, oltre 109 mila in Messico e 61 mila nel Regno Unito, oltre 60 mila in Italia, circa 55 mila in Francia e 50 mila in Iran, oltre 46 mila in Spagna, e così via. Ma, naturalmente, per valutare il fenomeno  si deve tener conto delle grandi differenze nelle dimensioni della popolazione di questi paesi. Trascurando gli stati con popolazione inferiore ai 5 milioni, i decessi Covid-19 per milione di abitanti sono stati 1486 in Belgio, 1094 in Peru, 994 in Italia, 989 in Spagna, 900 nel Regno Unito, 876 in Argentina, 871 negli Stati Uniti, 845  in Messico, 844 in Francia e così via. Come si vede, l’Italia, dopo il Belgio ed il Peru, è il paese che è andato peggio nel mondo, e questo è successo sia nella prima che nella seconda ondata della pandemia. 

Per regione, la Val D’Aosta e la Lombardia, sono tra le prime al mondo di questa triste classifica,  rispettivamente con circa 2670 e 2280  morti  per milione di abitanti. 

Le due regioni italiane hanno fatto perfino  peggio dei due stati americani più colpiti dalla pandemia: New Jersey (1965) e stato di New York (1798).        


Tutto questo non è un mistero. E’ la combinazione, per il Belgio, l’Italia e molti paesi occidentali, di scarsa prevenzione, reazione troppo lenta, cattiva organizzazione e molta arroganza.

 Il problema anagrafico ha senz’altro in parte influito, poiché l’Italia è il secondo paese del mondo, dopo il Giappone, e appena sopra la Germania, per quota di anziani (dai 65 anni di età in su) e gli anziani sono più fragili se attaccati dalla pandemia.  Ma allora perché  la Germania ha fatto assai meglio di noi e il Giappone enormemente meglio della stessa Germania?

Lei scrive: “L’Italia, come altri Paesi occidentali, non ha saputo trarre profitto dalle esperienze di Corea del Sud, Giappone e Taiwan”. Qual è stata la radice di questo limite? 

Come un albero malato ha tante radici marce, così le radici di questo fenomeno sono molteplici, ma strettamente intrecciate. Vi è un abisso tra la nostra performance e quella delle tre grandi democrazie del Nord-est dell’ Asia. Al 6 dicembre 2020 i morti Covid-19 cumulati sono stati 2315 in Giappone, 545 in Corea, 7 in Taiwan. Per milione di abitanti essi sono stati 18 in Giappone, 11 in Sud Corea, 0,3 in Taiwan. Tra i grandi paesi europei, il meglio organizzato, la Germania, aveva avuto oltre 19mila decessi Covid totali, 228 per milione di abitanti. L’Italia, come sappiamo, aveva fatto nettamente peggio della Germania. 

Quali i principali motivi di queste enormi differenze dei paesi occidentali rispetto a Giappone, Corea del sud e Taiwan?   In estrema sintesi sono tre: A)  atteggiamento, valori e cultura; B) politiche C) istituzioni. 

Vi è  stato l’atteggiamento arrogante di leader politici come Trump, Boris Johnson e Bolsonaro e all’inizio anche di Macron  e di esponenti politici italiani come Salvini, Fontana e Sala. Vi è stato l’atteggiamento di esperti che ignoravano o sottovalutavano l’esperienza dell’Est-Asia abbeverandosi quasi solamente alle grandi riviste scientifiche anglo-sassoni che forzatamente giungevano in ritardo sui grandi temi della pandemia, che era  iniziata in Occidente con ritardo rispetto all’Est Asia. Vi è stata la sudditanza rispetto ai grandi gruppi di interesse economico che contribuirono a far ritardare l’azione di contrasto e contenimento della pandemia. Vi è stata soprattutto la cultura profondamente individualistica di noi occidentali, che poco o mal volentieri rispettava le esigenze della collettività, e l’ottica di breve periodo di molti nostri politici, manager e  imprenditori.  Quanto alle politiche, mancando la prevenzione, esse sono da noi state colpevolmente tardive, e poi di stop and go (lockdown generalizzati  e poi nell’estate quasi un  “liberi tutti”, come è accaduto in Italia, Francia, Spagna, Regno Unito; poi altri lockdown per contenere la conseguente seconda ondata). 

In Giappone, Corea del sud e Taiwan, sia pure con modalità differenti, vi è stata maggiore prevenzione, maggiore prontezza di reazione ai primi segni della pandemia, e poi severe, continue,  rigide e ben organizzate misure di contenimento basate soprattutto  su stretti controlli alle frontiere, test, tracciamento e isolamento dei positivi o sospetti tali e su lockdown parziali e non generalizzati. 

In diversi paesi occidentali le lacune delle istituzioni, quali la scarsa efficienza della burocrazia e il difficile rapporto tra stato e regioni hanno contribuito ad aggravare le conseguenze della pandemia.            

Nell’aggravarsi di questa pandemia quanto hanno inciso le problematicità tipiche del sistema italiano. Due su tutte: federalismo monco e privatizzazione della sanità. 

In Italia il rapporto tra stato e regione è stato particolarmente problematico. Più che “federalismo monco” noi abbiamo un “decentramento pasticciato”, un rapporto tra Stato e regioni opaco e confuso, soprattutto nel campo della sanità. 

La sanità è il settore in cui le regioni hanno maggiori poteri e a cui destinano gran parte delle proprie risorse. 

Da decenni abbiamo continuamente tagliato i posti-letto in ospedale e la medicina territoriale e assunto troppo pochi giovani, sia tra i medici, che soprattutto tra gli infermieri e i tecnici.  In alcune regioni, quali Lombardia, Lazio e Campania, abbiamo progressivamente dato sempre più spazio alla sanità privata a scapito di quella pubblica, e la sanità privata bada per sua natura più ai profitti e all’efficienza di breve periodo che alla prevenzione, al servizio universale e alla copertura di eventuali rischi pandemici. Nell’emergenza vi è stato un continuo balletto di responsabilità tra Stato, Regioni, Protezione civile, Croce Rossa, etc. che ha contribuito a ritardare l’acquisto o produzione e la distribuzione delle protezioni individuali e dei test e a determinare il collasso delle RSA, con relativa strage di anziani e alta mortalità del personale sanitario.      

A parte la questione sanitaria il Covid è ed è stato un enorme problema per le nostre economie. Cosa dovremo fare da qui ai prossimi 10 anni come Europa? Guardare al mercato interno asiatico può essere un buon  punto di partenza?

Peggiori politiche di prevenzione e contenimento della pandemia hanno generato maggiori cadute del PIL reale, degli investimenti, dei consumi e dell’occupazione, e maggiore innalzamento dell’indebitamento pubblico e privato, nella maggior parte dei paesi occidentali rispetto a Cina, Taiwan, Corea del sud, Giappone. 

In un’ottica di medio-lungo periodo il rischio maggiore dell’Unione europea è di rimanere divisa e di essere quindi sempre più schiacciata dalla morsa delle due grandi potenze economiche mondiali, Stati Uniti e Cina, e della seconda potenza del mondo per armamenti, la Russia

Stati Uniti e Cina già ora si dividono il predominio nei nuovi prodotti e servizi tecnologicamente più avanzati per cui occorrono grandi risorse finanziarie e enormi  economie di scala e di rete (cellulari, reti 5G, chips, motori di ricerca, big data,  e-commerce, auto e batterie elettriche, impianti per energia rinnovabile,  vaccini, e così via). In alcuni comparti avanzati anche il Giappone, la Corea del sud e per il software l’India, hanno superato i maggiori campioni europei. L’Europa, vecchia, stanca e divisa, e che nella sua parte meridionale e orientale  fa poca ricerca e non sa utilizzare una parte importante dei propri giovani, non ha saputo reagire e dovrà pensare a come attrezzarsi per poter competere nei maggiori mercati mondiali, incluso il proprio.        

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