Cosa non abbiamo imparato dall'economia. Intervista a Francesco Saraceno

Cosa non abbiamo imparato dall'economia. Intervista a Francesco Saraceno

Intervista di Antonella Vitelli, Roma, giugno 2019

La scienza economica è il risultato di oltre tre secoli di interazione tra teoria e dati, di idee dominanti finite in un vicolo cieco, di teorie considerate bizzarre divenute poi mainstream, e di studi costantemente messi a dura prova da nuovi fatti… Capire come siamo arrivati al punto in cui siamo è essenziale per capire perché ci siamo arrivati, e il libro di Francesco Saraceno mostra in modo eccellente la strada fatta. Queste le parole di Olivier Blanchard del MIT su La scienza inutile del Professor Francesco Saraceno, membro del consiglio scientifico della LUISS School of European Political Economy e Direttore del Dipartimento di Ricerca dell’OFCE Sciences-Po di Parigi.

Il libro di Saraceno mostra proprio come la negligenza dei policy makers e persino degli stessi economisti nello studio delle vicende economiche mondiali sia uno dei fattori dell’aggravarsi dei momenti di crisi. 

Professore cosa non abbiamo imparato dall’economia?

La cosa principale che colpisce se si studia la storia dell’economia e della politica economica, è un ricorrente rinchiudersi delle dottrine di volta in volta dominanti in schemi autoreferenziali e impermeabili ai fatti. 

Lungo tutto il ventesimo secolo si sono alternate teorie economiche che una volta dominanti diventavano incapaci di aprirsi alla contaminazione e all’evoluzione che sono necessarie per qualunque scienza sociale. Per questo nel mio libro parlo di Scienza inutile. L’applicazione dogmatica della teoria economica la rende inadatta a comprendere le sfide del presente, e ad adattarsi per trovare le risposte adeguate

Qual è la teoria economica dominante grazie alla quale leggiamo la realtà e quali sono i suoi limiti?

Fino al 2008, e oltre, la teoria economica che ha dominato incontrastata (che nel libro definisco “Nuovo Consenso”) postulava la cosiddetta efficienza dei mercati. Per ottenere crescita e benessere bastava liberare le forze vive dei mercati e limitare l’azione pubblica (il più delle volte perniciosa). Basti pensare a come sia stata “curata” la Grecia dopo la crisi, con un mix di riforme e austerità. Il problema è che questa teoria, cristallizzata in precetti dogmatici, si è rivelata incapace di valutare adeguatamente l’accumularsi di squilibri nell’economia mondiale (e su scala ridotta nell’eurozona), e quindi di prepararci alla crisi. E basta guardare a quello che è successo in Grecia per vedere come le ricette di questo “Consenso” fossero inadeguate.

Qual è stata la grandezza di Keynes?

Keynes è famoso anche tra i non economisti per la sua insistenza sulla politica di bilancio per tirare l’economia fuori dalle secche delle crisi. È ovvio che i suoi contributi in questo campo siano fondamentali. Ma a me piace pensare che la sua grandezza risieda soprattutto nell’approccio alla teoria economica. Keynes, da uomo pratico, comprendeva bene che non esistono istituzioni perfette. Non sono certo perfetti i mercati, che lasciati a se stessi producono fluttuazioni, crisi violente, e disuguaglianze inaccettabili. Ma non è perfetta nemmeno l’istituzione “Stato”, che raramente è gestito in modo da non cedere ad interessi particolari e inefficienze organizzative. Ecco, Keynes vedeva proprio nell’intersezione di queste due istituzioni imperfette, Stato e mercato, lo spazio in cui si deve muovere il policy maker. Uno spazio in cui la complessità la fa da padrona e in cui non c’è spazio per ideologia e ricette sempliciste. In questo senso io mi sento profondamente keynesiano.

Le politiche keynesiane sono compatibili con un progetto come l’euro?

Certo. La teoria economica ci mostra come l’adozione di una moneta unica elimini la possibilità per governi di utilizzare uno strumento di stabilizzazione. Occorre quindi che si mettano in campo altri strumenti per evitare che i paesi membri della moneta unica (come l’euro) divergano in seguito agli inevitabili shock a cui sono sottoposte le economie moderne. Nel progetto dell’euro, in ossequio al Nuovo Consenso di cui parlavo sopra,  si è messo l’accento sulla flessibilità di mercato (il binomio riforme-austerità). Ma non era inevitabile. Altre politiche e istituzioni potrebbero tranquillamente essere messe in campo, come ad esempio strumenti di coordinamento delle politiche di bilancio nazionali, un bilancio comune (di cui si discute in questi mesi), o dei sistemi di trasferimenti. Tutti questi strumenti potrebbero consentire di contenere le spinte centrifughe tramite le politiche pubbliche, e quindi in modo “keynesiano” senza contare esclusivamente su mercati teoricamente efficienti, in realtà molto imperfetti. 


Nel libro parli degli Stati Uniti come del paese più keynesiano tra quelli avanzati! In che senso? Perché?

Questa cosa colpisce molto i lettori e i commentatori, ed è un apparente paradosso, che però consente di spiegare bene cosa sia la teoria keynesiana, sottraendola alla parzialità del dibattito politico non solo nostrano. Si tratta di distinguere tra due dimensioni dell’intervento pubblico in economia. La prima è quella dello spazio che il pubblico deve avere in un’economia di mercato. Quanta parte di settori come la sanità, l’istruzione, la ricerca, etc, dovrebbero essere affidati alla mano pubblica. Questa scelta dipende da fattori culturali, storici, sociali, da un contratto sociale insomma, che può differire grandemente da paese a paese. In Europa il ruolo dello Stato è più importante che negli Stati Uniti, dove a sua volta è più importante che per esempio a Singapore. Però indipendentemente da dove il contratto sociale ha messo il cursore, esiste poi un secondo ruolo per lo Stato, che è quello di interventi temporanei nel sistema economico, volti a stabilizzare il ciclo (per esempio sostenendo la domanda di beni quando imprese e consumatori smettono di spendere). Si può avere uno Stato “piccolo” ma attivo, o viceversa uno Stato “grande” ma poco interventista. Negli ultimi 30 anni, nonostante avessero uno Stato meno presente nell’economia, gli Stati Uniti hanno utilizzato le politiche di bilancio e monetaria in maniera molto più attiva di quanto non abbiano fatto i paesi europei, spesso schiavi dell’ideologia per cui meno lo Stato interviene meglio è.

Quali sono stati i fattori scatenanti nella crisi del paradigma keynesiano?

Negli anni settanta il paradigma keynesiano è stato vittima di quella hubrys di cui parlavo sopra. Contrariamente allo spirito originario di Keynes, i suoi emuli si sono progressivamente convinti che la spesa pubblica e l’espansione monetaria fossero le risposte a qualunque tipo di problema e  hanno quindi reagito in maniera semplicista, quindi non "keynesiana". Ora, la crisi degli anni Settanta era dovuta allo shock petrolifero, e quello che mancava non era la domanda di beni, ma l’offerta. Le politiche di sostegno alla domanda si sono rivelate non solo inutili ma dannose, portando quindi alla rovina del paradigma “keynesiano” e, come spiego nel libro, al ritorno della vecchia teoria dei mercati efficienti che ha poi dominato incontrastata fino al 2008.


Quali sono le differenze e le similitudini tra la crisi del 1929 e quella del 2008?

Sono entrambe crisi che seguono ad un boom speculativo del settore privato e che, quando la bolla scoppia, portano ad un crollo della domanda privata (di imprese e famiglie). La differenza è che nel 2008 avevamo già vissuto la crisi del 1929, e avevamo gli strumenti forniti da Keynes, per cui le politiche monetarie e di bilancio hanno reagito prontamente, sostenendo l’economia invece di affondarla come era successo nel 1929. Poi, una volta che l’economia mondiale sembrava avviata ad una sia pur timida ripresa, i policy makers europei hanno deciso di regalarci una seconda recessione.


Cosa ha generato la politica di austerity messa in piedi dall’Europa in questi anni?

Come spiegavo prima, la teoria dominante al momento dello scoppio della crisi ha reagito ad una crisi che era sostanzialmente una crisi da debito privato, imputandola invece all’onnipresenza di uno Stato inefficiente.

La cura è stata quindi il binomio austerità più riforme che ha ulteriormente indebolito il settore privato, togliendo anche all’economia il sostegno della domanda pubblica.

Il risultato è stato quello di soffocare, in Europa, una ripresa che era appena iniziata e che andava invece nutrita e fatta crescere. Non dobbiamo dimenticare che la zona euro è stata la sola grande economia mondiale ad avere il “privilegio” di una seconda recessione nel 2012-13. 

L’ultimo capitolo del tuo libro si intitola “Che fare”. Che fare?

Questo non lo so. So cosa bisogna non fare. Bisogna evitare, una volta che il periodo di transizione sarà terminato, e un nuovo paradigma avrà inevitabilmente preso il sopravvento, che la nuova teoria dominante si cristallizzi in una visione del mondo manicheo: “lo Stato, (o il mercato) è la risposta a tutto”. Mi piacerebbe che il vecchio insegnamento di Keynes tornasse d’attualità, e che economisti e policy makers riconoscessero la complessità come caratteristica ineliminabile del mondo in cui operano, rifuggendo quindi dalla tentazione di risposte semplicistiche. Come recita un aforisma che circola su internet, di cui non conosco l’origine,

per ogni problema complesso esiste una risposta semplice, immediata ed erronea.

Ecco, nel mio mondo ideale, quella risposta sarebbe scartata, e i venditori di ricette miracolistiche sarebbero confinati alle televendite. Se così fosse la crisi non sarebbe passata invano.

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