Intervista di Antonella Vitelli, 10 febbraio 2021, Torino
Pochi giorni fa i dati Istat relativi al lavoro nel nostro paese hanno rilevato una battuta d'arresto preoccupante circa l'occupazione femminile. Nel solo mese di dicembre 2020 su 101mila occupati in meno, 99mila sono donne. Una forbice tutt'altro che fisiologica, della quale vanno ricercate cause e soluzioni non più procastinabili. Le cause sembrano arrivare da lontano, da una profonda diseguaglianza di genere ben piantata nelle nostre radici sociali. Il peso del lavoro, l'assistenza ai minori, agli anziani, ai malati e ai disabili grava quasi totalmente sulle spalle delle donne, ma soprattutto trattasi di attività domestiche non riconosciute né economicamente né socialmente. Come è facile immaginare senza decisi interventi di supporto sarà difficile sradicare questo conclamato squilibrio e liberare l'equazione che più donne lavorano più si genera un aumento del PIL.
Per comprendere meglio queste dinamiche abbiamo intervistato Azzurra Rinaldi, Professoressa ed economista che insegna Economia Politica presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza. Ha pubblicato articoli e libri sui temi del gender gap ed oggi è attivista nei movimenti “Giusto Mezzo”, ”Dateci Voce” e “Dalla Stessa Parte”.
Azzurra l’ultimo report Istat sul lavoro rivela dati sconcercanti sull'occupazione femminile nel nostro paese. In questo quadro quanto c’entra la pandemia e che valenza hanno assunto le diseguaglianze strutturali e di servizi che ci portiamo dietro da anni?
L’Italia ha un problema strutturale con l’occupazione femminile. In letteratura, parliamo di Modello di welfare mediterraneo: le donne della famiglia (che siano madri, zie o nonne) si fanno carico della quasi totalità del lavoro di cura non retribuito. E questo le tiene lontane dal mercato del lavoro. La pandemia non ha fatto che aggravare questi squilibri preesistenti. Da un lato perché i settori più colpiti sono stati quelli relazionali, nei quali vi è prevalenza occupazionale femminile. Dall’altro, perché le donne hanno dovuto sopportare il carico aggiuntivo di cura non retribuita legato all’emergenza sanitaria.
Nel nostro paese il gender gap è più che evidente. Una donna su due non lavora e si calcola uno scarto tra uomini e donne che lavorano di un venti per cento. Nello specifico un 48,5 contro 67,5%, a differenze dei tassi europei che si attestano rispettivamente a 66% di occupazione femminile e 78% di lavoro maschile. Come si fa a colmare questo scarto, ma soprattutto che conseguenze potrebbero generarsi sul PIL italiano?
Chiariamo un punto: il paese sta producendo in sottoutilizzazione dei fattori produttivi, proprio perché le donne non lavorano. E di conseguenza, il nostro PIL è più basso di quanto potrebbe essere. Se continuiamo su questa strada, aiutiamo la crisi, anziché contrastarla.
Occorre liberare la forza lavoro femminile, con la fornitura di servizi pubblici di supporto che consentano alle donne di rientrare o di entrare sul mercato del lavoro.
In questo modo, si avvia un meccanismo moltiplicativo sia di reddito che di occupazione. Senza considerare che aumenta il volume del gettito fiscale che entra nelle casse dello Stato.
L'appello de “Il Giusto Mezzo”, che raccoglie e amplia la petizione europea #HalfOfIt, insiste su un utilizzo più accorto della grande opportunità che può derivare dai fondi della Next Generation Eu. Assieme ad Elisabeth Klatzer, su richiesta dell’europarlamentare Alexandra Geese hai condotto uno studio sul programma di fondi per rilanciare la ripresa economica. Cosa è venuto fuori da questo lavoro?
Sfortunatamente, che la struttura di Next Generation EU rischia di aggravare gli squilibri di genere, anziché attenuarli.
I settori più colpiti dalla crisi sono quelli in cui sono occupate le donne, ma i settori nei quali si concentrano i fondi NextGen sono quelli in cui lavorano prevalentemente gli uomini.
Anche le due linee della transizione verde e di quella digitale (sulle quali non possiamo che concordare) devono essere gestite in una prospettiva di genere, poiché sono rarissime sia le donne occupate che quelle che fanno impresa in tali settori. È necessario sviluppare un set di misure volte a controbilanciare le disuguaglianze di genere, che altrimenti aumenteranno senza dubbio.
Un punto di connessione fondamentale per affrontare la questione delle politiche di genere ha a che fare senza dubbio con l’istruzione. Asili nidi e università come fa notare Claudia Pratelli “rappresentano le polarità di un sistema educativo in cui non è previsto né garantito il diritto all’accesso”. Ma soprattutto nei lockdown soft da zona rossa abbiamo visto una forte scalata delle scuola nella gerarchia delle attività essenziali. Questo è emerso soprattutto nei paesi in cui c’è una maggiore occupazione femminile. Ci vorrebbe qualcosa di più di un bonus babysitter. Secondo te da quali paesi dovremmo copiare qualcosa?
Banalmente, dai paesi del Nord Europa: abbiamo visto tutte e tutti (personalmente lo confesso, con grande invidia) le lezioni tenute all’aperto in paesi come la Danimarca durante il lockdown italiano. Dobbiamo passare dal modello mediterraneo del maschio breadwinner (in cui è il solo papà a lavorare) a quello nordeuropeo del double earner (in cui entrambi i genitori lavorano). Nuovamente, in non solo perchè è giusto, ma perché questi paesi hanno un PIL pro capite più alto rispetto al nostro, quindi maggiore gettito fiscale, quindi più servizi forniti dallo Stato.
La tematica delle disparità sociali come sappiamo è ampia. Non ha a che fare solo con il genere, ma riguarda anche la gerontocrazia, la classe sociale di appartenenza e le possibilità economiche di partenza di ciascun individuo. Quanto ha pesato su questo stato di cose il sistema economico vigente? Ma soprattutto l’Europa da dove bisognerebbe ripartire per non svuotare di significato l’azione politica?
Non a caso, credo, l’Unione Europea ha denominato questo piano straordinario Next Generation EU. E non a caso, direi, in Italia continuiamo a chiamarlo Recovery Fund. Ci manca totalmente la prospettiva di piantare oggi le basi per il futuro dei giovani di domani.
É necessario recuperare quanto prima lo spirito originario di questi fondi, delineando una strategia integrata in base alla visione che vogliamo avere del nostro paese.