“Memorie di una famiglia di guantai”: il Rione Sanità di Napoli e la sua Rivoluzione industriale.

“Memorie di una famiglia di guantai”: il Rione Sanità di Napoli e la sua Rivoluzione industriale.

Intervista ad Antonio Caiafa di Gioconda Fappiano

Napoli, tra l'Ottocento e il Novecento, è stata la capitale indiscussa dell'artigianato guantaio. In quegli anni, la città era un fiorente centro di attività manifatturiere, dove l'artigianato aveva raggiunto livelli di eccellenza ineguagliabili. Sebbene molte delle tradizioni artigianali siano andate perdute col tempo, l'arte della fabbricazione dei guanti di pelle è sopravvissuta, mantenendo viva una tradizione che ha fatto guadagnare a Napoli il titolo di “Capitale Mondiale del guanto”, un primato che detiene tutt'oggi.

La produzione di guanti in pelle a Napoli è conosciuta sin dal XVIII secolo, ma è all'inizio del secolo successivo che questa industria decolla realmente. La presenza della Corte Borbonica nella città, allora capitale del Regno delle Due Sicilie, ha giocato un ruolo cruciale nel promuovere a livello mondiale questo prodotto, già apprezzato per la sua bellezza e qualità. I nobili e i dignitari di corte richiedevano guanti di altissima fattura, contribuendo così a diffondere la fama dei guantai napoletani ben oltre i confini del regno.

La maestria dei guantai napoletani si riflette nella finezza di una pelle che, attraverso trattamenti e lavorazioni specifiche, diventa un'estensione naturale della pelle di chi la indossa. Il risultato è un guanto dalla morbidezza straordinaria, che offre la libertà di movimento e la consapevolezza di possedere un pezzo unico, frutto di un'artigianalità estrema e dell'utilizzo di materiali naturali. La storia dell'artigianato guantaio resta quindi una storia di dedizione e amore che merita di essere raccontata. Un punto di partenza importante del romanzo "Memorie di una famiglia di guantai”, edito da Edizione libreria Dante & Descartes,  di Antonio Caiafa.

Caiafa è un sociologo, un filmaker e Fondatore del blog Rione Sanità. Ha girato diversi documentari e cortometraggi, tra cui Mani di pelle, film che descrive il complesso lavoro dei guantai napoletani. Ha partecipato a diversi festival Internazionali sui diritti umani. Nel testo Memorie di una famiglia di guantai, suo primo romanzo, Caiafa attraversando le memorie della sua famiglia, racconta proprio la storia sorprendente e quasi sconosciuta dei guantai di Napoli.  Dall’annuario fascista degli anni Trenta già si evidenzia che solo alla "Sanità" erano state recensite più di cento famiglie e aziende che producevano guanti. Questo significa che migliaia di persone lavoravano in quel settore, un artigianato per la maggior parte svolto “in nero”, dando vita ad una rivoluzione industriale che vide i guantai e le cucitrici napoletani in competizione solo con quelli francesi.  Negli anni seguenti Mario Valentino aprì un opificio di lusso in via Fontanelle e i “cazunari” napoletani negli anni Settanta, anticipando i tempi, inventarono la raccolta differenziata e il riciclaggio. Poi il terremoto dell’Ottanta e il declino di questa straordinaria stagione economica. Una narrazione fluida e accattivante compone gli episodi di questo libro di cui oggi parliamo con l’autore.

Antonio, la necessità di raccontare una storia della sua famiglia e di una Napoli produttiva e fuori dagli stereotipi - quella dei grandi guantai famosi in tutto il mondo - da dove è arrivata?

Nel 2004 discussi la mia tesi di laurea sulle famiglie guantaie napoletane. Sapevo dell’enorme quantità di lavoratrici che gestivano quest’attività, ma non avevo idea del ruolo e della straordinaria capacità produttiva generata nel Ventesimo Secolo. Le informazioni a riguardo erano scarse, se non inesistenti e dovetti procedere partendo dalle conoscenze della mia famiglia. Mia mamma era guantaia, cucitrice Strock e Piquet, mentre sua zia era una vera maestra “imprenditrice”. L’altra constatazione che mi aveva stimolato a scrivere il romanzo era (è) stata l’enorme etichetta sociale che aveva (ha) sempre contraddistinto Napoli e in particolare il rione Sanità. Il mondo era (è) pieno di stereotipi, ma quelli di questa città avevano (hanno) una particolarità più drammatica: ci credevano tutti, napoletani compresi, senza possibilità di smentita.  

Nei cinque chilometri quadrati che costituivano la vallata del Rione Sanità era nato, soprattutto nel dopoguerra, un distretto industriale destinato a dare avvio ad una rivoluzione senza precedenti. Guantai e calzolai lavoravano a stretto contatto con il mondo della moda. Perché ad un certo punto questa storia magnifica è caduta nell’oblio?

No, in verità era sempre stata nell’oscurità o peggio nell’indifferenza. Questa domanda percorre un po’ tutto il libro senza mai avere una risposta esaustiva.

Per le classi dirigenti e per la borghesia napoletana, soprattutto se pensiamo che stiamo parlando del periodo del boom economico, aver ignorato che ogni anno si esportavano milioni di paia di guanti negli Stati uniti, Inghilterra, Francia, Germania e che l’80% di questa produzione veniva fatta a Napoli, era stato un fallimento sia sotto il profilo economico che politico. Ignorare che guantai partenopei erano tra i più bravi del mondo, con le premesse di cui sopra, equivaleva ad una specie di sconfitta senza precedenti. Questa domanda per ora resta sospesa nell’incertezza.  

Il lavoro atipico secondo lei perché ha quasi sempre accompagnato la storia partenopea?

La ringrazio di questa domanda perché era stata contestata la mia risposta in una precedente discussione. Uno studioso napoletano aveva ipotizzato che l’irregolarità e la bravura degli artigiani, in particolare dei lavoratori della pelle, era dovuta prevalentemente alla soddisfazione delle esigenze di un'aristocrazia potente e di ordini religiosi ricchissimi.

Nel romanzo, provocatoriamente, attribuisco al “lavoro nero” i meriti della eccellente qualità dei guanti napoletani. Nella discussione con lo studioso citavo il libro “Napoli d’oro e di stracci”, di Mario Borrelli. L’autore, parlando dei lavoratori napoletani, e riferendosi alle dominazioni passate, affermava: Un napoletano, premesso che lavori in proprio, sgobberà per sé e per la propria famiglia l’intera giornata, e metà della notte; ma se lavora per il profitto altrui, allora è un altro paio di maniche. 

Naturalmente anche questa era una esagerazione, non si potevano conoscere tutti i napoletani; nel caso dei guantai, invece, si poteva ipotizzare che, visto che era un lavoro prevalentemente familiare, l’autonomia e la libertà di gestirsi aumentava la passione e soprattutto l’organizzazione. 

Alla Sanità, quartiere in cui lei è nato, negli anni Sessanta sorge una sezione del PCI e comincia un percorso di consapevolezza dei propri diritti da parte dei tanti lavoratori del quartiere. Uno dei capitoli più poetici del suo romanzo riguarda “lo sciopero delle candele”. Vuole parlarcene?

Anche questo sciopero non lo ricordava quasi più nessuno. È stato grazie alle interviste che avevo realizzato sul campo che ero venuto a conoscenza di questo evento molto importante.

Il quartiere Sanità dopo la Seconda Guerra Mondiale era un rione rosso, e la cosiddetta “arte di arrangiarsi” era mitologia purtroppo santificata. Quando me lo raccontarono, mi dissero testuali parole: “Dalla via Fontanelle vedevo nu sacco ‘e gente scennere a piedi per raggiungere il centro. Nun avevo mai visto na cosa del genere.

Erano gli operai di Mario Valentino e delle altre piccole e medio fabbriche che circondavano il quartiere. Si chiedeva pari dignità anche in virtù del fatto che la Valentino aveva tutti i lavoratori a contratto. In qualche modo la bravura dei tagliatori e delle cucitrici aveva innescato un senso di appartenenza reciproca fatta di solidarietà e di capacità. Mi dissero ancora: ‘e femmene se mettevano ‘o punton’o vico che volantini mano… La terza Municipalità aveva la sezione del partito comunista più grande di tutta Napoli. 

I “cazunari” negli anni Settanta a Napoli inventano la raccolta differenziata, come lei racconta nel romanzo. In questo caso la creatività napoletana nell’arte d’arrangiarsi ha anticipato di molto i tempi. Nell’attuale momento storico, pensa che Napoli sia ancora un serbatoio di originalità in campo economico?

Chiariamo subito un punto, già anticipato: la creatività dei napoletani era una cosa, l’arte di arrangiarsi un’altra, che non aveva niente a che vedere con questi lavoratori. Ci si arrangiava durante un conflitto, qui invece si parlava di lavoratori altamente professionali, e l’invenzione (inventare un ricamo, o il modo di applicare i tacchi alle scarpe), era pari alla loro bravura. Per i cazunari bisognerebbe affrontare un discorso a parte, perché la loro era una vera e propria missione, un vero e proprio stile di vita. Adattare, riciclare, trasformare una camicia inutilizzabile in una borsa era, ripeto, uno stile di vita virtuoso. Anche per questo lavoro non c’erano fonti né la storia li aveva riconosciuti.

Nel romanzo si parla anche di contrabbando, attività che costituiva una specie di ammortizzatore sociale di fronte alla perdita di lavoro. E un bambino, vendendo sigarette ad un semaforo, riceve da una prostituta delle lezioni di vita…

Negli anni subito dopo il terremoto, Napoli era costretta a gestire una economia di “guerra” e le conseguenze maggiori le subirono le famiglie degli operai. Al semaforo non si vendevano solo le sigarette: c’erano i venditori di fazzolettini, di accendini e giocattoli. La prostituta nel romanzo era una specie di eroina raccontata dalla letteratura degli afro americani. Lo sfogo di una donna costretta a mendicare, a vendere il corpo per riacquistare la sua dignità; le differenziazioni di genere - uomo/donna o di bianco/nero della pelle o di povero/ricco - erano la normale logica del potere; non avendo la possibilità o la soluzione per abbattere la sopraffazione, la prostituta ridicolizzava l’atto e il suo dominatore. In questo modo sopravviveva. 

Il sapere e la competenza delle donne della sua famiglia, e di molte altre di cui lei racconta, ha contribuito notevolmente alla crescita civile della sua città. Qual è il lascito più importante che le hanno lasciato. 

Nel quartiere molti combattevano la povertà imitando la borghesia: per non apparire poveri, vestivano con giacca e cravatta. Mio padre era uno di questi. Così come forse l’avrebbe studiato Ernesto De Martino, lo scuorno non ti faceva sentire “dentro l’esistenza”; la forza era tutta nella famiglia e nella solidarietà. Questi lavoratori sapevano forgiare il presente con il passato, inventando la prestanza per resistere. Attraverso le loro partecipazioni e la loro fatica, avevano lasciato un sapere eccezionale, privo di ogni retorica e di ogni presappochismo. Tutto questo era oro ridotto in cenere. 

La brava gente mischiata con la cattiva gente. Nella Sanità non potevano esserci lavoratori, non potevano esserci persone perbene. Morivano le ragioni di un popolo perché a “scriverle” erano i “diseredati” della città. Quanto è ancora vero quello che ha scritto? 

Era (È) vero e drammatico anche se, con l’avvento del turismo di massa, le rappresentazioni sociali della città e del quartiere erano cambiate a suo favore. Credo che l’illusione di un riscatto, anche se non capivo cosa gli abitanti di Napoli dovevano riscattare, avesse posto un limite da superare; così mentre tutti si aspettavano magnificenze, arrivavano gli sfratti e gli aumenti degli affitti, le speculazioni edilizie e i b&b, le paghe più basse d’Europa.

 

Per precisare meglio la sua domanda, i diseredati ancora non facevano storia, ancora non potevano scriverla né parteciparvi. Per legittimare tutto ciò era necessario mettere tutti sullo stesso piano, erano l’unico e forse il modo più scientifico di trattare la questione “civiltà”.   

Torna al blog