Professor Pompeo Della Posta

Gli sconfitti e i vincenti della globalizzazione economica

Intervista di Antonella Vitelli, Pisa, aprile 2019

Globalizzazione? Chi ha vinto e chi ha perso? L'ho chiesto al Professor Pompeo Della Posta, Professore associato di Economia Politica all’Università di Pisa e autore del libro  THE ECONOMICS OF GLOBALIZATION edito da Edizioni ETS

Professore quando inizia la globalizzazione economica?

    Il primo periodo storico nel quale l’integrazione commerciale ha cominciato a produrre convergenza dei prezzi (è questo l’indicatore chiave che viene di solito considerato al fine di datare l’inizio della globalizzazione economica) è la seconda metà del 1800, e in particolare si prende come data simbolica il 1869, quando fu aperto il canale di Suez, grazie al quale il collegamento navale fra Europa e Asia divenne più diretto, accorciando significativamente i tempi di percorrenza.

    La globalizzazione economica però non riguarda solo l’integrazione commerciale, ma anche quella dei fattori della produzione, vale a dire il lavoro e il capitale.

    Anche da questo punto di vista, quel periodo fu caratterizzato da enormi migrazioni volontarie e non episodiche (il 10% della popolazione mondiale viveva in un paese diverso da quello di nascita, a fronte del 3,4% che caratterizza i nostri giorni), e da ingenti movimenti di capitale (che dall’Europa, per esempio, si muovevano verso l’America per finanziarne lo sviluppo).

    Si può tornare indietro?

    La storia ci dice che è senz’altro possibile cambiare direzione.

    Basti pensare a quello che accadde nel periodo fra le due guerre mondiali. La prima fase della globalizzazione economica, quella che ebbe luogo fra la fine del 1800 e i primi del 1900 - il periodo del Liberty e della Belle Époque le cui testimonianze e la cui architettura ritroviamo ancora in tante città italiane ed europee - fu seguita da una chiusura economica catastrofica, caratterizzata dal grido di “America First” di allora. Quelle spinte protezionistiche si concretizzarono nelle barriere tariffarie alzate dagli americani contro le esportazioni europee e nelle svalutazioni competitive fra i paesi. Come è andata a finire lo sappiamo: è arrivata la II Guerra Mondiale.

    Ci sono punti di forza e di debolezza nella globalizzazione economica?

    Se vogliamo essere sintetici, si può dire che il punto di forza è dato dalle opportunità che apre e quello di debolezza è dato dal fatto che, come in ogni altra situazione, se uno dei due giocatori è palesemente più forte o potente, ottiene più di quello che davvero meriterebbe, a danno dell’altro. La teoria economica dice, tuttavia, che la maggiore torta che risulterebbe dalla globalizzazione economica produrrebbe benefici tali da permettere comunque ai vincenti di conseguire guadagni più che sufficienti a compensare i perdenti. Ma in pratica questo non succede e il funzionamento automatico del mercato non garantisce, per esempio, che chi perde un lavoro quando è in là con gli anni lo ritrovi, tantomeno in un settore più produttivo.

    Non bisogna dimenticare, però, che molte minacce allo status quo (il processo che Schumpeter definiva, per sottolinearne gli aspetti positivi, come portatore di una “distruzione creatrice”) vengono dalla tecnologia, piuttosto che dalla globalizzazione. E mi riferisco ad intelligenza artificiale, automazione, economia digitale, che aprono scenari affascinanti e inquietanti allo stesso tempo.

    A chi ha fatto bene e a chi ha fatto male la globalizzazione?

    In teoria la globalizzazione dovrebbe fare bene a tutti, dovrebbe essere come la marea degli oceani, che quando arriva solleva tutte le barche, le piccole e le grandi, o come un “bel cestino di ciliegie” da cui ognuno può attingere liberamente.

    “Ma se davvero la globalizzazione è un cestino di ciliegie - come si domandava anni fa Dani Rodrik, un noto economista di Harvard - allora perché ci sono tanti musi lunghi intorno alla tavola?”. La verità è che nei paesi sviluppati, evidentemente, ci sono stati dei perdenti, se ci ritroviamo con la Brexit, l’elezione di Trump e i movimenti populisti in Europa e nel mondo (ma tutto questo può anche avere ragioni extra-economiche: non ci dimentichiamo, infatti, che la globalizzazione economica si riferisce anche alla mobilità del lavoro, quindi anche alla questione dei migranti, con tutte le problematiche di natura sociale, culturale e religiosa che si porta dietro).

    Nei paesi sviluppati, i primi ad avere avuto difficoltà sono stati i lavoratori del settore manifatturiero, ma poi è stata la volta della classe media, frustrata anche dal forte aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza. E alcuni paesi in via di sviluppo sono rimasti ai margini, schiacciati da una competizione impari con il mondo sviluppato. Altri paesi più grandi, come la Cina e l’India, invece, ne hanno indubbiamente beneficiato.

    Come si inserisce in questo contesto la volontà di alcuni paesi, USA di Trump in primis, di ritornare a politiche protezioniste?

    I perdenti hanno votato alle ultime elezioni politiche americane, contro chi, a loro modo di vedere, aveva la responsabilità del peggioramento della loro condizione o poteva rassicurarli nei loro timori. Il paradosso è che, votando a favore di personaggi come Trump, hanno avuto sì soddisfazione nel vedere limitata l’immigrazione, tacitando così le proprie paure (fondate o meno che fossero), ma hanno anche favorito la reintroduzione di misure di liberalizzazione dei mercati finanziari, contro le quali, solo pochi anni prima, quegli stessi perdenti si erano scagliati. E resta tutto da vedere quale sarebbe il saldo netto se politiche protezionistiche fossero davvero introdotte nel mercato dei beni, visto che nel commercio internazionale si è in due a giocare, e non è pensabile che un paese si veda imporre dei dazi commerciali senza imporli a sua volta. Questo è il noto problema del “dilemma del prigioniero”, secondo il quale, in assenza di cooperazione, si finisce in un equilibrio peggiore rispetto a quello ottenibile in caso di cooperazione.

    Quali sono stati gli effetti più immediati della globalizzazione sui paesi in via di sviluppo?

    Ci sono stati paesi che sono stati grandemente beneficiati, come dicevo prima. In Cina e India, per esempio, la probabilità di nascere poveri è fortemente diminuita nel tempo, anche se in termini assoluti il numero dei poveri nel mondo è sempre molto elevato e prossimo al miliardo di persone (ma rispetto a una popolazione mondiale crescente).

    Naturalmente la stessa cosa è accaduta prima di loro ai paesi del Sud est asiatico, seguendo lo schema degli stormi di oche volanti (lying geese): per primo si è sviluppato il Giappone, poi i paesi di nuova industrializzazione -  Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan – poi i paesi che compongono l’ASEAN, fra cui Tailandia, Malesia, Indonesia – e infine paesi più indietro nel processo di sviluppo come il Vietnam o le Filippine (e come la stessa Cina fino a prima del suo sviluppo).

    Altri paesi ancora oggi meno sviluppati, invece, ne sono rimasti fuori, e mi riferisco ai paesi africani in primo luogo o a molti paesi dell’America Latina o dell’Est asiatico e questo allora – mi rendo conto che possa sembrare una conclusione paradossale agli occhi di molti - porta a domandarsi se il problema per questi paesi sia stato davvero la globalizzazione o non sia stato piuttosto la sua mancanza, come sostengono molti economisti.

    Quando si parla di globalizzazione economica e paesi emergenti viene in mente subito la relazione Cina/Africa. Cosa sta facendo Pechino? Si sta riscrivendo una nuova modalità di fare colonialismo?

    Beh, è innegabile che la politica della Belt and Road Initiative, la Nuova via della Seta, come diciamo comunemente per capire di che si tratta, possa avere connotati neocoloniali.

    E’ altrettanto innegabile che la Cina abbia i suoi interessi a perseguire una politica di apertura verso i paesi africani. Ma mi domando se preferiremmo che la Cina restasse chiusa in se stessa, pronunciando frasi del tipo “China First”.

    E se temiamo che i programmi di aiuti ai paesi africani attuati dalla Cina mirino in realtà a controllarne le risorse, perché allora quegli aiuti, di cui i paesi africani hanno comunque bisogno, non concorrono a fornirli anche l’Europa o gli Stati Uniti? Fra l’altro tali politiche potrebbero portare benefici alle nostre economiche per le ricadute occupazionali che avrebbero, oltre che contribuire a mitigare il fenomeno migratorio.

    Quanto è importante la dimensione politica, nazionale o transnazionale, nella regolamentazione delle storture che naturalmente porta con sé la globalizzazione?

    Importantissima. Non si deve pensare alla globalizzazione come a qualcosa a cui “non c’è alternativa”.

    Eera questo il famoso slogan di Margareth Thatcher - There Is No Alternative - sintetizzato dall’acronimo TINA. Un paese come la Cina, per esempio, ha governato la globalizzazione. L’ha seguita solo con le modalità che riteneva appropriate. Ha adottato una globalizzazione selettiva. Per esempio, non ha accettato di liberalizzare il movimento dei capitali a breve termine, che rischiava solo di aumentare la instabilità finanziaria, ignorando le indicazioni che provenivano dal “consenso di Washington” propagato dal Fondo Monetario Internazionale. E così facendo si è tenuta al riparo dalla crisi finanziaria globale.

    Ha accolto gli investimenti esteri, ma solo se nelle partnership deteneva la maggioranza, in modo da massimizzare i benefici per la propria economia e migliorare le proprie prospettive di crescita future.

    Ma anche per i paesi sviluppati occidentali la regolamentazione e guida della globalizzazione è evidentemente necessaria, per evitare che gli eccessi da essa prodotti portino ad una sua brusca interruzione, così come accadde fra le due guerre mondiali, come ho già ricordato prima.


    Qual è per lei la "globalizzazione che funziona" per dirla con Stiglitz

    E’ quella di John Lennon, quella che emerge dalla sua canzone Imagine, dove si parla di un mondo che non ha stati ma solo l’umanità, consapevole che il destino di ognuno è legato a quello di tutti gli altri.

    Globalizzazione sì, ma “illuminata”, come mi ha suggerito di definirla un mio collega, nella quale si può anche concordare di limitare questo o quell’aspetto delle globalizzazione, ma non lo si fa in maniera unilaterale, bensì concordata, in un gioco di empatia e di considerazione degli interessi reciproci.

    E non è buonismo da quattro soldi questo, ma realismo. I proclami del tipo “America First” non promettono nulla di buono e rischiano anzi di portarci a sbattere verso un passato nel quale non vorremmo più trovarci.

    Pompeo Della Posta 
    Pompeo Della Posta (PhD, MA) è professore associato di Economia Politica all’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca si concentrano principalmente sull’economia monetaria internazionale, l’euro, l’economia europea e l’economia della globalizzazione. Ha pubblicato una settantina di lavori distribuiti in riviste scientifiche internazionali e nazionali, libri (The Economics of Globalization: An Introduction, ETS e L’integrazione monetaria in Europa: origini, crisi, istituzioni e teorie economiche, Pisa University Press), curatele di libri, capitoli in volumi. Ha insegnato in diverse occasioni in Canada, Cina e Regno Unito e tenuto seminari in molte università e centri di ricerca esteri (in Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Russia, India e altri paesi). E’ il presidente eletto per il 2019 della International Trade and Finance Association, una associazione di economisti internazionali provenienti da una trentina di paesi nel mondo ed è direttore della rivista scientifica Scienza e Pace / Science and Peace.



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