Così Trump rischia di affondare il dollaro

Così Trump rischia di affondare il dollaro

CAMBRIDGE – Mentre la guerra tariffaria lanciata da Donald Trump entra nel vivo, l'attenzione degli investitori globali si sposta su un nuovo, controverso progetto: il cosiddetto "Mar-a-Lago Accord", ideato da Stephen Miran, presidente del Consiglio dei consulenti economici. L'obiettivo? Coordinarsi con i principali partner commerciali degli Stati Uniti per indebolire il dollaro e, così, ridurre il deficit delle partite correnti.

Alla base del piano c'è l'idea che il ruolo di valuta di riserva mondiale sia un "onere", che favorirebbe la deindustrializzazione americana. Secondo Miran, la forte domanda internazionale di dollari apprezzerebbe la valuta, rendendo le merci statunitensi meno competitive e favorendo la delocalizzazione.

C'è del vero in questa analisi? In parte sì.

Come spiega l'economista Kenneth Rogoff dell'Università di Harvard, l'afflusso di capitali stranieri negli USA alimenta la domanda interna e, di conseguenza, il rafforzamento del dollaro. Ma Miran dimentica dettagli fondamentali: l'acquisto di titoli del Tesoro da parte di banche centrali asiatiche, ad esempio, non implica necessariamente squilibri commerciali permanenti.

Un dato storico lo dimostra chiaramente: tra gli anni '60 e '70, nonostante il dollaro fosse già la principale valuta globale, gli Stati Uniti registravano surplus commerciali. Analogamente, la sterlina britannica, regina della finanza mondiale per tutto il XIX secolo, coesisteva con costanti eccedenze di conto corrente.

Come sottolinea Rogoff, il deficit delle partite correnti va letto attraverso il rapporto tra risparmio e investimenti interni. Nel 2024, il deficit fiscale americano ha raggiunto il 6,4% del PIL, ben superiore al deficit delle partite correnti (inferiore al 4%). Quindi, il problema non è tanto il dollaro forte, quanto la sproporzione tra spesa pubblica e risparmio.

Raddrizzare i conti pubblici sarebbe una soluzione più efficace che lanciare guerre tariffarie. Ma riformare la politica fiscale è molto meno spettacolare – e politicamente rischioso – che ingaggiare battaglie commerciali ad alto profilo.

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