Le tariffe commerciali decise dal presidente Donald Trump, giudicate da molti analisti come sconsiderate e controproducenti, hanno offerto al resto del mondo un’occasione rara: quella di ridefinire le proprie priorità e presentarsi come alternativa credibile a un ordine globale sempre più instabile. Eppure, osserva l’economista Dani Rodrik, le reazioni di Europa, Cina e delle cosiddette “potenze medie” sono state deboli e frammentarie.
Secondo Rodrik, l’Unione Europea ha perso l’opportunità di esercitare una leadership autentica. Nonostante la sua forza economica, paragonabile a quella degli Stati Uniti, Bruxelles ha preferito piegarsi alle pressioni americane, accettando un accordo commerciale che mantiene tariffe penalizzanti sull’acciaio e l’alluminio e impegna l’Europa a massicce importazioni di energia statunitense. Una scelta che, più che rafforzare l’UE, ne ha messo in luce i limiti strutturali come unione politica incompiuta.
La Cina ha reagito con fermezza sul piano commerciale, imponendo tariffe di ritorsione e limitando le esportazioni di minerali strategici. Tuttavia, spiega Rodrik, non è riuscita a proporre un modello alternativo di governance economica globale: i suoi squilibri interni – dal surplus commerciale all’eccesso di risparmi – restano irrisolti e ne limitano la credibilità come leader di un nuovo ordine internazionale.
Le cosiddette “potenze medie” hanno preferito non esporsi, negoziando silenziosamente con Trump per ridurre i danni alle proprie economie. Un’eccezione significativa è rappresentata dal Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva, che ha difeso apertamente la sovranità e le istituzioni democratiche del suo paese, nonostante tariffe punitive e attacchi personali. Il suo atteggiamento, sottolinea Rodrik, si distingue come raro esempio di leadership coraggiosa.
In India, invece, le élite politiche ed economiche sembrano più interessate a trovare compromessi con Trump che a contestarne l’approccio. Ma, avverte Rodrik, accomodare una politica che si avvicina a una forma di imperialismo economico significa legittimarla, con gravi rischi per il futuro.
La tesi centrale dell’articolo è chiara: l’America di Trump controlla oggi circa il 15% dell’economia mondiale (in termini di potere d’acquisto). È irrealistico pensare che una quota così limitata possa continuare a dettare le regole a tutti gli altri. Eppure, se le grandi economie non sapranno unirsi e proporre un quadro alternativo – fatto di cooperazione, sostenibilità e nuove regole – il vuoto sarà colmato proprio da quell’imperialismo economico che molti dichiarano di voler evitare.
Come conclude Rodrik, la resistenza globale non manca di strumenti, ma di volontà politica e visione. Finché le potenze mondiali continueranno a dividersi o a piegarsi, la Casa Bianca di Trump avrà gioco facile nel imporre le proprie regole.