L’8 agosto 2025 l’economista Dani Rodrik ha pubblicato su Project Syndicate l’articolo “Where Is Global Resistance to Trump?”. Rodrik non è un osservatore qualsiasi: professore di economia politica internazionale alla Harvard Kennedy School, già presidente dell’Associazione Economica Internazionale, è considerato tra le voci più lucide nel dibattito sulla globalizzazione, le sue fragilità e le possibili alternative. A novembre uscirà anche il suo nuovo libro Shared Prosperity in a Fractured World (Princeton University Press), dedicato proprio a una nuova economia più equa e sostenibile.
Nel suo pezzo, Rodrik parte da una constatazione netta: le politiche commerciali di Donald Trump – arbitrarie, punitive, spesso autolesioniste – hanno aperto una finestra di opportunità per il resto del mondo. Avrebbero potuto spingere Europa, Cina e altre potenze a definire un’agenda diversa, a immaginare un ordine globale capace di correggere gli squilibri e le disuguaglianze dell’iperglobalizzazione. Eppure, scrive, questa occasione è stata in gran parte mancata.
L’Unione Europea, pur essendo quasi pari agli Stati Uniti in termini di potere economico, ha preferito piegarsi: l’accordo di luglio con Trump lascia in piedi tariffe pesanti e vincola l’Europa a un volume enorme di importazioni energetiche dagli USA. La Cina, dal canto suo, ha risposto con durezza, ma senza offrire un modello alternativo di cooperazione globale. Le “potenze medie” hanno scelto la prudenza, salvo rare eccezioni come il Brasile di Lula, che ha difeso apertamente democrazia e sovranità anche a costo di subire tariffe punitive.
Il cuore dell’analisi di Rodrik è questo: se Trump riesce a imporre la sua agenda, non è solo per il peso degli Stati Uniti (oggi circa il 15% dell’economia mondiale), ma per l’incapacità – o la mancanza di volontà – delle altre grandi economie di unirsi, reagire e proporre un’alternativa credibile. La resistenza globale, insomma, non è impossibile: è che non si vede.
Leggendo Rodrik, mi colpisce come il suo discorso sia meno una critica a Trump – già ampiamente dibattuta – e più un atto d’accusa verso l’inerzia del resto del mondo. La sfida, oggi, non è solo contenere l’imperialismo economico americano, ma costruire una visione nuova, fondata su cooperazione, sostenibilità e giustizia sociale. Senza questa spinta, il vuoto continuerà a essere riempito da chi, con logiche di potere, detta le regole del gioco.