Intervista di Gioconda Fappiano, Roma, 24 marzo 2021
Gramsci, Antonio Gramsci. Uno degli autori più studiati, come dimostra la bibliografia gramsciana internazionale, in diverse discipline e in tutte le aree linguistiche per la vastità dei suoi interessi. Le sue categorie storico-politiche paiono ancora attuali, capaci di afferrare i fenomeni apparentemente più inediti della nostra epoca. A cento anni dalla fondazione del Pci torniamo a parlarne con Francesco Giasi, Direttore della Fondazione che porta il suo nome e che a lui è dedicata.
Dottor Giasi, la Fondazione Gramsci, di cui è il direttore, ha come fine l’arricchimento critico della tradizione del patrimonio ideale della sinistra e promuove studi e ricerche sull’opera e il pensiero di Antonio Gramsci. Chi si rivolge oggi a questo patrimonio ideale e chi fruisce dei servizi messi a disposizione dalla vostra Fondazione?
La Fondazione Gramsci è un istituto culturale che opera sia nell’ambito della valorizzazione dei beni culturali sia in quello della ricerca scientifica. Come istituto di conservazione mette a disposizione il proprio patrimonio documentale secondo regole analoghe a quelle che garantiscono l’accesso alle biblioteche e agli archivi pubblici. Come istituto di ricerca promuove attività lungo alcune principali direttrici: lo studio del pensiero di Gramsci, la storia del socialismo e del comunismo, la storia internazionale del Novecento. Nata nel 1950 allo scopo di valorizzare l’eredità letteraria di Gramsci, la Fondazione ha acquisito e ordinato nel corso degli anni l’ingente patrimonio di documenti prodotti dal Partito comunista italiano. Assieme alle carte dei dirigenti del Pci, sono stati acquisiti via via archivi di personalità del mondo della cultura italiana. Contestualmente, è stata arricchita anche la biblioteca che conserva oggi poco meno di 200 mila volumi tra libri e collezioni di periodici. Si tratta quindi di un patrimonio ideale e materiale, da tutelare e valorizzare costantemente. Allo stesso tempo, la Fondazione realizza progetti di ricerca, organizza convegni di studi, conferenze, mostre, corsi di formazione anche in collaborazione con università e istituzioni culturali sia italiane che straniere. La sala studio è quotidianamente frequentata da studiosi – studenti e ricercatori - che si occupano per varie finalità di storia del Novecento.
Il pensiero di Gramsci trascende l’orizzonte storico-politico del suo tempo. Secondo lei, perché c’è stata negli ultimi decenni, una vera e propria crescita esponenziale dell’interesse per Gramsci?
L’interesse verso il pensiero di Gramsci non è un fatto recente. Gramsci è un autore postumo che non ci ha lasciato opere compiute. La sua prima fortuna ebbe carattere nazionale. L’edizione dei suoi scritti del carcere contribuì nell’immediato dopoguerra al rinnovamento della cultura italiana. Mentre il volume delle Lettere dal carcere ebbe una grande e immediata fortuna nel più largo pubblico, gli appunti e le note raccolti nei Quaderni del carcere influenzarono la cultura filosofica e politica, la storiografia, la critica letteraria, la pedagogia. Gramsci fu una vera rivelazione per il mondo intellettuale italiano. Dalla loro prima apparizione, gli scritti carcerari non hanno mai smesso di suscitare interesse e di sollecitare riflessioni sulla politica e sulla storia. Egli fu senz’altro tra gli interpreti più originali e creativi di Marx, tra coloro che non cristallizzarono il marxismo in formule e che badarono alla complessità e al nesso tra i fenomeni economici, sociali, culturali ed etico-politici. I suoi scritti sono apparsi un antidoto alla dogmatizzazione del marxismo grazie alla maniera spregiudicata di trattare temi e problemi che egli considerava di volta in volta rilevanti per ricostruire e interpretare il passato e per intendere la storia corrente. Ci ha lasciato un insieme di appunti, più o meno estesi, per libri e saggi da scrivere, in cui prevalgono gli interrogativi e le indicazioni sulle ricerche da svolgere e da portare a compimento. La fortuna internazionale di Gramsci data dagli anni Ottanta ed è stata negli ultimi tre decenni senz’altro crescente. Si sono susseguiti studi, traduzioni e usi spesso disinvolti. La bibliografia gramsciana internazionale dimostra ampiamente che Gramsci è un autore studiato nell’ambito delle più diverse discipline e in tutte le aree linguistiche. Le ragioni della sua fortuna sono molteplici. Intanto, la vastità dei suoi interessi e la connessione tra una miriade di temi ed alcune domande fondamentali sui caratteri della modernità. Le sue categorie storico-politiche paiono in grado di afferrare fenomeni della nostra epoca; molte delle sue preoccupazioni sono ancora nostre preoccupazioni. Egli fu un pensatore politico e a preoccupazioni di carattere politico vanno ricondotte tutte le sue riflessioni.
Quest’anno il Partito comunista italiano compie cento anni. Quali eventi la sua Fondazione ha preparato per l’occasione e quali forze politiche di sinistra sono chiamate a partecipare?
Sono trascorsi cento anni dalla fondazione del Partito comunista italiano, ma questo partito non c’è più da trent’anni. Nato nel 1921, è stato sciolto nel 1991, settant’anni dopo. Non c’è quindi altra possibilità che fare i conti con questa ricorrenza sollecitando ricerche e riflessioni in chiave storica. Non si tratta di un anniversario che richiede festeggiamenti, ma di un’occasione per ripercorrere un lungo periodo della storia nazionale e mondiale. Nell’autunno dello scorso anno, qualche mese prima della ricorrenza, abbiamo organizzato un convegno in tre giornate chiamando più di trenta studiosi, per lo più della generazione più giovane, a rileggere e reinterpretare momenti della storia del Pci. Le relazioni presentate al convegno, intitolato Il comunismo italiano nella storia del Novecento, diverranno altrettanti capitoli di un libro che verrà pubblicato entro quest’anno. Abbiamo deciso di prestare la massima attenzione alle fonti sollecitando la raccolta e l’ordinamento degli archivi regionali, provinciali, comunali conservati in vari istituti. Abbiamo così dato vita a un portale delle fonti per la storia del Partito comunista italiano già accessibile al pubblico (www.archivipci.it), che verrà costantemente incrementato con oggetti digitali e strumenti di ricerca: inventari, edizioni integrali di giornali e riviste, opuscoli, documenti a stampa, materiali audiovisivi. I libri di storia e di memorie sul Pci stanno riempendo le vetrine e gli scaffali delle librerie italiane; segno che la storia del Pci desta ancora un vivo interesse e che il centenario della nascita sta suscitando un dibattito pubblico assai vivace. Non stiamo ignorando questi contributi e, se pur selettivamente e nelle condizioni dettate dall’emergenza sanitaria, ci stiamo preoccupando di promuovere dialoghi attorno alle pubblicazioni che ci paiono più significative e innovative, o comunque in grado di sollecitare una discussione interessante su fatti e protagonisti. In autunno, infine, pubblicheremo un volume di fotografie: circa duecento foto scattate tra il 1921 il 1991, raccolte come in un album.
La Fondazione Gramsci, tra le altre raccolte archivistiche, ospita un imponente archivio fotografico del PCI. Se dovesse scegliere una foto rappresentativa del Partito e della sua storia quale sceglierebbe?
L’archivio fotografico della Fondazione Gramsci costituisce soltanto una piccola parte del patrimonio fotografico che ha come soggetto il Partito comunista italiano. L’immagine fotografica è mutata considerevolmente nel corso degli anni. Ridotto alla clandestinità sin dai primi anni di vita, sino al 1945 il Pci ha prodotto pochissime immagini di sé. Fino alla caduta del fascismo le immagini più significative sono senz’altro le foto segnaletiche che si trovano nei fascicoli del casellario politico, scattate dopo l’arresto o utili a individuare i ricercati. A queste si possono aggiungere le fotografie dai luoghi di confino, inviate ai parenti, o quelle che ritraggono gli esuli in Francia, Belgio, Russia, Stati Uniti e America Latina e i combattenti in Spagna durante la guerra civile. Soltanto all’indomani della Liberazione la fotografia diventa rilevante nella rappresentazione e nell’auto rappresentazione del Pci. Dalle prime sfilate dei partigiani nelle città liberate, alle piazze affollate durante i comizi e le frequenti mobilitazioni nel corso delle lotte o delle feste. Le fotografie ci restituiscono un soggetto collettivo, le moltitudini insieme ai volti dei singoli, varie generazioni che hanno partecipato con entusiasmo alla vita politica e civile italiana dall’immediato dopoguerra in avanti. Ci mostrano l’Italia che cambia profondamente, decennio dopo decennio. C’è solo l’imbarazzo della scelta nello scorrere le sequenze di immagini che ritraggono quelli che Gramsci chiama “momenti di vita intensamente collettiva” o manifestazioni di giubilo o di dolore, come i funerali di Togliatti e Berlinguer. Non saprei decidermi tra le foto che ci restituiscono un momento particolarmente significativo e scelgo il ritratto più noto di Gramsci, rielaborato graficamente in mille modi. Il volto di Gramsci ha accompagnato l’intera storia del Pci dalla fondazione al suo scioglimento. Durante la dittatura fascista, una sua foto scattata a Mosca nel 1922 venne frequentemente esposta in occasione delle manifestazioni dei fuorusciti e stampata sui giornali antifascisti. Nel dopoguerra, comparve quel ritratto divenuto ben presto una specie di icona. Quando Togliatti annunciava l’imminente pubblicazione delle Lettere e dei Quaderni del carcere quell’immagine già campeggiava nei primi congressi, all’interno delle sezioni e nei cortei. È una fotografia presente nella vita del Pci sino ai suoi ultimi giorni, che rappresenta nel miglior modo ciò che gli sopravvive.
Oggi si registra diffidenza, rifiuto o indifferenza verso la politica. Antonio Gramsci diceva che “l’indifferenza è il peso morto della Storia” eppure agisce potentemente in essa. Come si possono avvicinare di nuovo le persone e soprattutto i giovani alla politica?
La scomparsa dei partiti organizzati di massa ha significato la fine di esperienze collettive che hanno caratterizzato la storia del Novecento. Dopo la seconda guerra mondiale, più generazioni di donne e di uomini si sono ritrovate a impegnarsi in organizzazioni che garantivano la partecipazione e la discussione. I partiti si candidavano a rappresentare interessi generali e a soddisfare bisogni e aspirazioni. Il loro carattere popolare scaturiva dall’essere soggetti collettivi in grado di prospettare una società migliore. Non è possibile alcun ritorno al passato, ma non è detto che il partito politico – democratico e organizzato – sia uno strumento ormai inservibile e che non lo si possa rigenerare. C’è voglia di partecipare, di intervenire, di contare, ma intanto non stiamo lavorando abbastanza per dar vita a forme nuove di partecipazione alla vita politica. Non ho dubbi sul fatto che i partiti – e non riesco a immaginare altri soggetti – per riacquistare credibilità debbano innanzitutto badare all’inclusione e alla partecipazione attiva proponendosi come soggetti coerenti e trasparenti.
“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Come commenta questo pensiero di Gramsci?
So bene che questo aforisma ha avuto molta fortuna, ma Gramsci si è espresso con altre parole:
La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Gramsci si riferiva alla “crisi di autorità” che si manifesta quando la classe dominante ha perduto il consenso ed è perciò soltanto dominante e non più dirigente. In pratica, le crisi si verificano quando il vecchio è morente, ma è ancora in grado di sopravvivere in quanto il nuovo non è capace di soppiantarlo. Se questo “interregno” dura a lungo, non c’è da attribuire colpe al vecchio che non vuol morire o al nuovo che non sa nascere. Certo è che coloro che lottano per il nuovo sono ancora incapaci di dar forma a una civiltà che sostituisca la vecchia.