A cura di Antonella Vitelli
Nella Pianura Padana si concentra la più alta densità di allevamenti intensivi d’Italia. Secondo i dati del Sistema Informativo Veterinario, si contano oltre 150.000 strutture galline di questo tipo nel Paese, la maggior parte delle quali localizzate tra Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte. In queste regioni, il modello di allevamento industriale si traduce in una produzione ad altissima intensità: migliaia di animali confinati in capannoni, cicli produttivi rapidi, uso diffuso di mangimi, farmaci e antibiotici, e grandi quantità di liquami. A inizio giugno 2025, il gruppo locale di Greenpeace ha segnalato con preoccupazione la costruzione di un nuovo maxi-allevamento avicolo ad Arborio, in provincia di Vercelli. Il progetto prevede l’allevamento intensivo di 275.000 galline ovaiole, in una struttura che, secondo gli attivisti, sarà tra le più grandi del Piemonte. L’insediamento sorge in un’area agricola di pregio, nota per la produzione del riso di Baraggia DOP, e ha sollevato interrogativi sia ambientali che sanitari.

La protesta
“Non è solo una questione etica, è un problema ambientale e sanitario”, scrivono gli attivisti del gruppo locale.
E spiegano: i reflui degli allevamenti contengono alti livelli di azoto, fosforo e residui di metalli pesanti, farmaci, antibiotici. Sostanze che, se disperse nell’ambiente, possono contaminare le falde e le risaie, danneggiare un ecosistema fragile, e alterare il paesaggio sonoro e olfattivo della zona. Sì, perché oltre ai rischi invisibili ci sono quelli percepibili a occhio nudo – e a naso pieno. L’aria, attorno agli allevamenti intensivi, sa di letame e decomposizione. Il suolo si impoverisce, le acque si intorbidano, il valore delle case cala. “E intanto – denuncia Greenpeace – le galline vivranno in condizioni di sofferenza estrema, ammassate in gabbie senza spazio, con il rischio sempre attuale di focolai di influenza aviaria”.Una storia già vistaIl caso di Arborio non è isolato. Nel 2012, le telecamere di Striscia la Notizia mostrarono le condizioni scioccanti all’interno di un allevamento avicolo a Olgiate Olona. Lì, come ad Arborio oggi, si tentò di costruire un maxi-impianto industriale. Le proteste fermarono il progetto, ma ci vollero sette anni e un pronunciamento del Quirinale. Oggi, nuove autorizzazioni emergono in silenzio. Eppure, i numeri parlano chiaro: il 90% delle emissioni di ammoniaca in Italia arriva dal settore zootecnico, e oltre l’80% si concentra in quattro regioni.
Le conseguenze?
Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, il particolato fine (PM2,5) che ne deriva ha causato quasi 47.000 morti premature nel nostro Paese solo nel 2021.A confermare questi dati, uno studio del progetto INHALE – promosso da Bocconi, CMCC e Legambiente – ha mostrato che fino al 25% dell’inquinamento da PM in Lombardia è attribuibile proprio alle emissioni degli allevamenti. Non è l’industria a uccidere di più.
Non è il traffico. È il sistema con cui alleviamo gli animali. Un sistema sostenuto, peraltro, da fondi pubblici: circa due terzi dei finanziamenti agricoli europei finiscono nelle tasche delle grandi aziende zootecniche. E mentre i piccoli allevatori chiudono (320.000 aziende scomparse tra il 2004 e il 2016), i grandi impianti crescono, divorando terreno, acqua e risorse. Secondo la FAO, un ettaro coltivato a legumi produce dieci volte le proteine di uno destinato a mangime animale. Ma i numeri non bastano a fermare il sistema. Serve una scelta politica.
Una legge che aspetta
Da oltre un anno, giace in Parlamento una proposta di legge – la n. 1760 – firmata da Greenpeace, WWF, ISDE, Terra! e Lipu. Prevede una moratoria sull’apertura di nuovi allevamenti intensivi, un fondo per la riconversione agroecologica, e incentivi per chi vuole produrre cibo sano, locale, rispettoso degli animali e dell’ambiente.
Ma la proposta resta ferma. E intanto, come ad Arborio, gli allevamenti continuano a crescere. Intanto, negli spazi ciechi delle stalle, milioni di animali vivono vite senza luce. I polli da carne crescono in meno di 50 giorni, le ossa non reggono il peso e il dolore è cronico. I pesci d’allevamento, stipati in gabbie, vengono macinati vivi per diventare cibo per altri pesci. Viene da chiedersi se il modello zootecnico intensivo attualmente in espansione sia davvero compatibile con gli obiettivi di sostenibilità ambientale, tutela della salute pubblica e benessere animale che sempre più spesso vengono invocati nel dibattito pubblico.Un sistema che avvelena l’aria, svuota le campagne, ammazza in silenzio. Un sistema che premia chi produce tanto, e non chi produce bene.
Che mette al centro il profitto, e non la salute, l’etica, la sostenibilità. Forse è tempo di guardare negli occhi il futuro e dire basta.
Perché è vero: siamo ciò che mangiamo. Ma forse, prima ancora, siamo ciò che scegliamo di ignorare.