Intervista di Silvia Sardi, Torino, novembre 2019
Le sue foto, sature e statiche, mi hanno catturato nella sovraffolata Paratissima: già esposto a Palazzo Reale di Milano (premio Arte), all’Arsenale di Venezia (Arte Laguna Prize) e a 2 Photofestival di Milano, il progetto Incomunic-abili parla del contesto famigliare.
La tua estetica iper-satura presente negli scatti del progetto “Incomunic-abili” urla forte la denuncia del messaggio che vi è all’interno: come e quando hai deciso che l’estetica sarebbe stato il richiamato d’attenzione (in maniera quasi pop, molto vivace) sul racconto che di fatto, per contrasto, è molto “cupo”, buio, ovvero l’incomunicabilità?
Aggiungere un’ambientazione cupa al messaggio insito nelle mie fotografie sarebbe stato ridondante, un inutile eccesso che avrebbe snaturato sia il messaggio, che comunque non ha una sola chiave di lettura ma dipende dal vissuto di ciascun osservatore, sia l’estetica della rappresentazione. A questo riguardo sono sempre stato ispirato più dal cinema che da altri fotografi ed in particolar modo da registi come, ad esempio, Pedro Almodovar e Wes Anderson, con le loro rappresentazioni coloratissime e surreali, anche quando il tema trattato non è per nulla leggero. Inoltre la leggerezza è un potente mezzo per attrarre verso temi che leggeri non sono. Calvino nelle sue Lezioni Americane, parlando del raccontare, ci insegna l’importanza della “leggerezza” e dato che anche la fotografia, oltre a rappresentare, può anche raccontare, mi è sembrato naturale muovermi in questa direzione.
Perché, dal tuo punto di vista, i rapporti a lungo termine sono i più logori e sono incapaci di rinnovarsi? Per noia, per abitudine? È inevitabile?
Non penso che i rapporti a lungo termine siano per natura incapaci di rinnovarsi. Se li alimentiamo continuamente si rinnovano e si possono prolungare senza limite.
Le scene che rappresento mettono in mostra i momenti dove questo non accade.
Non è assolutamente detto che i soggetti che ho fotografato non abbiano di norma una vita serena, ma a chiunque capita di avere dei momenti o periodi in cui la comunicazione viene a mancare per i più vari motivi.
Il gioco sta nel tradurre il particolare in universale, ossia nel rappresentare piccole situazioni che possono essere anche specchio di situazioni più complesse, in modo da far viaggiare la fantasia dell’osservatore e creare empatia e immedesimazione. Sapere che una situazione è vissuta da più persone come noi ci piò anche far sentire meno soli.
Nei tuoi scatti si vede la ri-costruzione di un set definito al dettaglio: questa attenzione fa parte del messaggio che vuoi restituire? In che modo?
L’attenta costruzione del set non fa parte del messaggio ma del mezzo per farlo arrivare. I set sono le reali abitazioni dei soggetti ritratti, depurate e alleggerite di ciò che può distrarre dall’idea che a grandi linee voglio trasmettere e spesso con l’aggiunta di particolari che astraggono la scena dalla quotidianità.
La rappresentazione del rapporto di famigliarità denuncia estraneità, assenteismo: è un avvertimento sociale, collettivo, di come siamo “portati” a vivere? Perché?
La vita frenetica di oggi limita sempre più le relazioni vere (mentre quelle virtuali crescono) e la famiglia, essendo un ambiente di convivenza quasi forzata, può generare spesso desiderio di estraniazione o non destare più alcun interesse, come se avessimo già spremuto tutto da quella situazione che, appunto come dicevo prima, non alimentata da nuovi stimoli fa cadere anche la più elementare forma di comunicazione.
Il momento del caffè insieme è il pretesto e il paradosso per la rappresentazione di queste situazioni.
Non posso salire sul piedistallo di chi vuol lanciare avvertimenti, ma portare una piccola parte del mio vissuto, di ciò che ho osservato e mi ha incuriosito fin da bambino, avendo constatato essere un tema che, prima o poi, coinvolge tutti. La fotografia è sempre lo specchio di chi la fa, qualsiasi sia l’argomento trattato.
Come scegli i soggetti del progetto “Incomunic-abili”? Fai un casting o sono conoscenti e/o i così detti “amici-di-amici”? Ci sono state delle candidature spontanee?
Il progetto “Incomunic-abili” nasce da esperienze familiari, dall’osservazione e da racconti di persone che già conoscevo. Successivamente ho esteso la ricerca anche ad “amici degli amici” e a candidature spontanee comunque nate da persone che già conoscevano il mio lavoro.
Essendo un progetto che in molti casi svela piccoli scenari sconosciuti all’esterno della coppia o della famiglia,
è importante che io parli con loro del progetto in maniera esaustiva, sdrammatizzandolo, condividendo con loro le mie esperienze al riguardo (difficile fare un ritratto se non si dà qualcosa in cambio) e solo allora rompere il ghiaccio chiedendo dei loro momenti di incomunicabilità domestica.
Il logorio della “vita moderna” e la straziante incomunicabilità dei rapporti logori è notabile anche fuori dalle mura domestiche: ci hai pensato, ti interessa visualizzare questi rapporti anche in giro o non fa parte del progetto?
Fa già parte del progetto l’estensione futura dei set al di fuori delle mura domestiche ma sempre rimanendo all’interno della coppia o della famiglia. L’ambizione è mostrare quanti più momenti possibili di rottura della comunicazione in modo che chiunque possa trovare immedesimazione in una o più di queste scene e riflettere sulle proprie esperienze mosso dalla chiave dell’ironia o del surreale espressi dalle mie fotografie.
Le tue stampe come sono acquistabili? In originale e in copia, su che circuiti?
Al momento non ho una galleria di riferimento. Le mie opere sono in tiratura limitata e numerata, il formato più grande 100 x 70 cm con una tiratura di 5 esemplari e piccolo formato 35 x 50 cm (solitamente esposto nelle mostre) in tiratura di 20 esemplari. Gli interessati possono contattarmi tramite il sito www.ivanbignamifoto.com, il profilo instagram @ivanbignamifoto o la pagina facebook.com/ivanbignamifoto