“Con emozione profonda”. Intervista immaginaria a Nilde Iotti

“Con emozione profonda”. Intervista immaginaria a Nilde Iotti

Intervista immaginaria di Gioconda Fappiano

Sono andata nella vecchia sezione abbandonata del P.C.I., una delle tante in un paese del Sud dove una volta il Partito e la parrocchia erano i centri più importanti di aggregazione sociale. I Cento Anni dalla fondazione del più grande schieramento politico dei lavoratori mi ha riportato alla militanza, alla mia elezione a consigliere comunale d’opposizione, ad una storia prossima eppure già lontana. In uno dei faldoni che raccoglie la memoria di ciò che io e miei compagni eravamo trovo una foto. Napoli, 14 luglio 1990, sala dei Baroni del Maschio Angioino. È Mezzogiorno: ora parliamo noi. Nilde Iotti siede austera e tranquilla tra le altre parlamentari del suo partito.  Napoli, l’ultima tappa del Partito per la costruzione della costituente delle donne meridionali. Mi colpì un particolare della compagna Nilde: lo sguardo dolce e divertito rivolto ad un bambino che sgattaiolava sul pavimento della sala sfuggito dalle braccia di una giovane mamma. 

Ricordi belli, suppongo. La voce calma e sicura mi arriva alle spalle. Ho un sussulto mentre prende una sedia impolverata per accostarsi alla scrivania dove ho preso posto e su cui sono sparse foto e documenti. La guardo con curiosità e ammirazione insieme. La aspettavo da tanto per poterle parlare. Un colloquio intimo e disteso, tante le cose da chiederle. Leonilde Iotti è davanti a me.

Sono passati cento anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano e lei è stata testimone e protagonista delle tappe più importanti di questo grande movimento di uomini e donne. Cosa resta oggi del passato?

Intanto resta il contributo apportato alla stesura della nostra Costituzione, nata sulle macerie di una guerra e di una dittatura dolorose, che è l’espressione più grande dell’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo che ancora oggi vanno tutelati e difesi dall’oblio di quanti sono pronti a ignorarli non riconoscendoli in chi è diverso per razza, cultura, credo religioso. Il principio di eguaglianza è quello che a me sta particolarmente a cuore perché è la sanzione solenne, costituzionale, anche dell’ingresso delle donne nella vita politica, il senso del nostro essere cittadine alla pari con tutti gli altri cittadini. Per me questo è un punto fermo che fa della Costituzione italiana, ancora adesso, una Costituzione moderna. Il mio partito ha sempre sviluppato la propria lotta sul terreno della democrazia, in nome della difesa e dell’attuazione della Costituzione repubblicana. La democrazia italiana è nata da una vittoria di popolo, non da una sconfitta.

Togliatti, ai tempi della Costituente, ci mandava di sera nelle sezioni del Partito a spiegare gli articoli della Costituzione perché tutti la conoscessero per poter esercitare i diritti e i doveri del cittadino.

Diffondere il Vangelo della Costituzione credo sia ancora oggi importante perché molti dei prìncipi costituzionali rimangono solo sulla carta, come ad esempio quello della parità salariale. 

Non bisogna dimenticare il nodo cruciale del lavoro, che è fonte primaria della dignità della persona, e il tema della difesa delle lavoratrici e dei lavoratori che oggi sembra appannato da una visione fortemente liberista in un mondo globalizzato in cui emergono nuove disuguaglianze. Vede, non a caso è stato scritto nell’art. 1 della madre di tutte le nostre leggi che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e nell’articolo 4 che “La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. I diritti vanno estesi, non limitati o addirittura tagliati. Gli ideali vanno calati nella realtà.

Proprio sul terreno della difesa però delle classi lavoratrici il Partito Democratico, nel quale è confluito gran parte del popolo che si riconosceva nel PCI, ha perso pezzi importanti del suo elettorato. Qual è la sua opinione in merito?

Quando nel 1991 con la svolta della Bolognina nacque il Partito Democratico della Sinistra, fu assunto come simbolo del partito una quercia con alla base il simbolo del PCI. Volevamo indicare le radici forti, gli ideali a cui questo nuovo organismo si ispirava, la pratica politica basata sul confronto e il contatto con gli iscritti. Ciò che rimpiango del passato è il fatto che nel vecchio partito si discuteva con grande libertà di tante questioni senza temere le discussioni più accese perché prevaleva un forte spirito di unità. Adesso credo si sia più divisi ed è più difficile trovare sintesi ed unità nel dibattito interno. Inoltre si è corso dietro a modelli di comunicazione che hanno allontanato la base dai vertici politici facendola sentire esclusa dal dibattito o addirittura abbandonata a se stessa, non essendo sufficientemente chiari nell’azione politica. 

Fare politica significa soprattutto appassionarsi e trasmettere questa passione, poter dire che dall’inizio alla fine delle nostre battaglie, comunque ci siamo chiamati e qualunque forma abbia assunto la nostra parte politica, abbiamo servito lo Stato e agito per difendere i lavoratori, per garantire la libertà degli individui e la democrazia nel nostro Paese. 

Lei è stata la prima donna eletta come Presidente della Camera. Prima di lei questa carica era stata ricoperta da Pietro Ingrao e ancora prima da Sandro Pertini che è poi diventato Presidente della Repubblica. Nel suo primo discorso come Presidente della Camera lei esordì dicendo che “con emozione profonda” ringraziava gli onorevoli colleghi per la fiducia che le avevano dimostrato affidandole un compito così importante.

Vivevo con grandissimo coinvolgimento e quasi in modo emblematico quel momento, avvertendo in esso un significato profondo, che superava la mia persona e investiva milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si erano aperte la strada verso la loro emancipazione.

Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, ha sempre costituito un motivo di orgoglio della mia vita. Avvertivo inoltre la difficoltà di vivere e operare col Paese, per rispondere ai mille e drammatici problemi dell’economia e dei lavoratori, nelle fabbriche e nelle campagne, dei giovani, delle donne, della pubblica amministrazione, della scuola, della magistratura, delle forze armate e delle forze dell’ordine, dei pensionati. Il Parlamento, questo altissimo strumento di democrazia, che non può e non deve essere superato dai tempi- doveva e deve riuscire a guidare il processo di crescita diventando iniziativa, stimolo, confronto e incontro delle volontà politiche del Paese assolvendo in questo modo la sua altissima funzione di guida.

Attualmente l’Italia sta vivendo forse la crisi più grande che il Paese abbia mai conosciuto. La politica fatica a trovare la rotta per portare L’Italia fuori dal guado. Cosa pensa a questo proposito e quale consiglio darebbe a chi oggi si misura con l’attività parlamentare?

Il destino della nazione dipende dalla capacità della gente di organizzarsi e di agire collettivamente sotto la guida di una classe dirigente che deve sempre mostrare senso di responsabilità e senso dello Stato. Dalla pandemia mi auguro possa venire la costruzione di un sentimento di pace, di equità, solidarietà perché questo evento ci ha fatto riflettere sulle nostre vite fragili e interconnesse.

Non ci si salva da soli e in determinati momenti bisogna necessariamente mettere da parte gli individualismi.

Nei grandi momenti di crisi nel mio partito si era soliti accantonare gli interessi di parte per concorrere alla salvezza e al benessere dell’Italia. Voglio ad esempio ricordare quando nel 1976 nacque il cosiddetto “governo monocolore di solidarietà nazionale”, o governo della “non sfiducia”, grazie alla formula della non opposizione da parte del Pci di Enrico Berlinguer all’indomani di un grande successo delle forze di sinistra nelle amministrative dell’anno prima, tanto che il sorpasso del PCI ai danni della DC sembrava a portata di mano.  Ma si era nel pieno degli anni di piombo, in un anno di grave difficoltà politica e sociale e c’era in ballo la tenuta della democrazia e la difesa delle istituzioni. Per questo Berlinguer caldeggiò l’ipotesi della rinascita della coalizione antifascista e la creazione di un di un governo di “unità democratica” per fronteggiare il momento di crisi gravissima. A chi si misura oggi con l’attività politica vorrei ricordare che la Politica è l’arte più alta che si possa esercitare perché il fine è quello di organizzare una società in cui gli uomini possano vivere bene. Impegno, conoscenza e competenza sono fondamentali per chi vuole esercitare tale arte nobile che non può e non deve mai scadere nella volgarità. Vede, negli anni Novanta quando ci fu Tangentopoli secondo me il guasto più grave che venne prodotto fu quello di far ricadere sui cittadini il sospetto, anzi in quel caso la certezza, che non ci sia onestà in chi dirige lo Stato.

Cosa la spinse ad iscriversi al PCI e come ha fatto a coniugare la fedeltà all’ortodossia e la consapevolezza di quello che Togliatti chiamava “la via italiana al socialismo”?

L’avanzata italiana verso il socialismo, così come spiegò Togliatti nell’VIII Congresso del 1956 all’indomani dei dolorosi fatti d’Ungheria, doveva essere realizzata dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche politiche, nazionali e culturali di ciascun paese. In luogo di un lungo blocco monolitico di Stati socialisti doveva avvenire il riconoscimento del principio delle diverse vie di sviluppo del socialismo.

La presa del potere si sarebbe quindi dovuta sviluppare in Italia in forme democratiche non violente e valendosi dell’attività parlamentare per la realizzazione di riforme strutturali del sistema economico e sociale previste dalla Costituzione.

Questa ha sempre costituito per me una sintesi mirabile e il senso del mio agire politico e la strenua difesa del parlamentarismo. Per quanto riguarda poi la mia scelta di campo, i fatti dell’otto settembre del 1943- con l’armistizio di resa incondizionata agli Alleati che fece dell’Italia un Paese diviso, con al sud gli americani e al nord i tedeschi, mi fecero riflettere sul fatto che l’Italia rimaneva comunque un paese interamente occupato dagli stranieri, anche se gli Stati Uniti erano venuti per prestare aiuto. La nazione andava liberata e ricostruita per essere in grado di decidere del proprio destino politico.  Per questo mi avvicinai al PCI e partecipai alla Resistenza svolgendo all’inizio la funzione di staffetta porta-ordini e successivamente aderendo ai Gruppi di difesa della donna. Ricordo distintamente quando ascoltai per la prima volta a Radio Londra la voce gracchiante di Ercoli, il nome di battaglia di Togliatti, che annunciava la svolta di Salerno. Un Togliatti “totus politicus” quello della svolta di Salerno , come lo definì Benedetto Croce.

Di recente l’America, che è stata sempre esempio di democrazia, ha offerto uno spettacolo poco decoroso al mondo: l’assalto armato a Capitol Hill da parte di alcuni fanatici sostenitori di Trump che non accettano il responso delle urne con l’elezione del neo-presidente Biden. Che impressione le ha fatto tutto questo?

Tutto questo non onora la tradizione democratica di un grande Paese e soprattutto per me è inimmaginabile che un presidente, che è uomo delle istituzioni, possa favorire episodi così gravi che hanno il sapore di un colpo di stato. A questo proposito ricordo quando nel 1984 ci fu un aspro scontro in Italia sul costo del lavoro e sulla scala mobile e Craxi definì il parlamento “un parco buoi”. La replica del mondo politico e la mia, come presidente della camera, fu durissima e Berlinguer parlò di emergenza democratica. Le parole hanno un peso e bisogna sentire la responsabilità della parola. Mai avrei pensato di assistere ad uno spettacolo come quello che ha coinvolto il parlamento americano.

Di fronte al populismo dilagante bisogna ribadire con forza la dignità delle istituzioni, e questo spetta soprattutto agli uomini e alle donne che le rappresentano chiamati ad avere quei comportamenti esemplari che il ruolo richiede.

Sulle pareti di questa antica sezione del PCI come può vedere campeggia una sua foto piuttosto che quella di Palmiro Togliatti, suo compagno di vita oltre che il suo segretario politico. Spero che “il Migliore” non ne abbia a male.  La sua storia con Togliatti è stata molto contrastata dal suo partito che vedeva le ragioni della coerenza politica minacciate dal vostro sentimento. 

Negli anni in cui conobbi Togliatti e iniziò la nostra storia, c’era una cosa terribile nei partiti comunisti usciti da lunghi anni di clandestinità: la cultura del sospetto. Sul mio rapporto con “il Migliore” pesavano il sospetto e il clima dello scandalo in quanto compagna di vita del “capo” senza esserne la moglie. L’etica puritano-proletaria del partito rumoreggiava. Qualcuno mi accusò addirittura di essere una spia di De Gasperi. Lui di questo era addolorato ma riusciva ad infischiarsene e ad andare avanti. Il nostro era un legame troppo forte per poter tornare indietro. Ho sopportato con fermezza le molte diffidenze, a volte le umiliazioni cui sono stata sottoposta per questo amore. Una volta Giorgio Amendola, che pure si era schierato coraggiosamente a difesa della nostra relazione irregolare contro gli umori del partito, mi diede un consiglio irricevibile.  Mi disse: “Dovresti dedicarti di più a lui, lasciare il lavoro politico...”  Gli risposi: “Non credo che Togliatti potrebbe amare una Iotti casalinga". Per me la separazione tra i sessi era caduta sotto l’incalzare dei bombardamenti e con il mio compagno condividevo la passione per la politica alla quale non avrei mai rinunciato, neanche per il suo amore. 

Dalla vostra corrispondenza epistolare, emerge un Togliatti innamorato. È difficile pensare al capo del comunismo italiano che argomenta con lunghe, profonde osservazioni la superiorità dell’amore sulle maldicenze e che si inoltra sul terreno del linguaggio lirico.

Difficile ma vero. Una volta mi scrisse “sei come una striscia di sole in una stanza buia”. Quando ci conoscemmo nei corridoi di Montecitorio nel 1946 mi confessò di aver avvertito una vertigine davanti a un abisso, di aver seguito un impulso più forte della sua volontà.  Io ero sgomenta per questo mio sentimento per un uomo pubblico importante e sposato. La nostra storia venne alla luce del sole due anni dopo, nel 1948, quando durante l’attentato di cui Togliatti fu vittima mi venne naturale fargli da scudo. Il nostro amore clandestino aveva vissuto sino ad allora nascosto in un sottotetto di Botteghe Oscure.

Ho sempre protetto, coltivato e difeso il nostro legame e il nostro sentimento che ha sfidato la morale e la politica e si è inchinato solo davanti alla morte. 

In occasione del funerale di Togliatti questo amore contrastato venne finalmente riconosciuto dal partito che mi concesse di accompagnare il mio compagno nel suo ultimo viaggio, sotto gli occhi di tutti, per rinnovargli ancora la mia promessa d’amore.

Con profonda emozione scendo le scale della vecchia sezione del PCI di un paesino qualunque del Sud. La porta si chiude definitivamente alle mie spalle.

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