Milano, 11 Aprile 2019, Intervista di Silvia Sardi
Incontro Giuseppe Palmisano a Porta Romana, Milano: un posto dove ha deciso di stare in questo periodo della vita. La settimana è quella della design week, ma tutto questo non centra nulla.
L’occasione è ghiotta: Iosonopipo per me è un grandissimo artista contemporaneo. Non è solo un fotografo. Giuseppe è eclettico, anche se lui non si definirebbe in maniera così definitiva. Ha fatto molte cose, da giovanissimo ha approcciato il teatro, poi la musica e poi è arrivato a un’arte performativa, che si finalizza in fotografia, ma dietro alla quale risiede la sincronicità: a lui piace far accadere le cose, sa cosa vuole e come farlo realizzare.
Sei diventato famoso per svariati tuoi scatti, ma i più famosi restano le opere collettive: Vuoto e Vuoto 2. Ora stai lavorando a un nuovo progetto, quale?
Una cosa nuova: ho messo tutto in mano a voi, per vedere cosa succede. Per questa volta, sarete voi a decidere il luogo e a partecipare spontaneamente. Con Il Vostro Vuoto continua la messa in scena di questo mio modo di vedere la cosa, ovvero di fare arte per creare esperienza e relazione, che con Vuoto e Vuoto 2 è stato mettere in scena il mio vuoto: questa volta vorrei riportare il vostro vuoto. È una cosa che si sta creando, vedremo.
Questo nuovo progetto partecipato: come funziona?
Voi (il pubblico, le persone) dovrete trovare il posto dove realizzare lo scatto. Me lo potete segnalare entro il 25 aprile: ovviamente si dovrà proporre un luogo dove sia possibile realizzare la performance, non basta un’idea di location. Dopodiché io mi occuperò esclusivamente di dare appuntamento al 25 giugno con un evento Facebook dove ci saranno le indicazioni della performance che avverrà nel posto scelto da voi, con i partecipanti che deciderete di essere.Mi potete scrivere direttamente sul mio profilo Instagram, se lo seguite, o via mail (contatti sul sito).
Ci sono vincoli, come per le precedenti performance-fotografiche?
No, assolutamente no: ho tolto il vincolo ad esempio del "non avere tatuaggi" (scelta che avevo fatto a suo tempo perché: i tatuaggi raccontano qualcosa che quindi "contestualizza", c'è un racconto – e la cosa che non era in linea con la mia idea di far vedere invece la sospensione, la non-collocazione temporale). Anzi questa volta la chiamata si apre non solo a tutte le donne, ma a chi si sente donna. Vi chiedo di presentarvi auto-munite di collant colorati a vostro piacimento.
Come scegli le location, come le trovi?
Non le scelgo: sono case di amici, situazione che si presentano e che si prestano. Anche la posa stessa della modella, avviene simultaneamente in quel contesto. Se guardi le mie immagini hanno un un unico piano: non c’è una particolare prospettiva per cui si possa cogliere qualcosa “dietro”: accade tutto lì di fronte.
Nelle tue opere c'è sempre un colore che spicca: quanto c'entra l'uso del collant, come lo hai deciso?
Certamente perché il nudo femminile è un tema precluso online, che sfocia subito nell’erotismo, per cui era un po’ scomodo tenerlo – e poi un corpo davvero nudo racconta molte più cose, oltre che se stesso; non è una cosa "neutra", ha una connotazione e io non ho affatto un'intenzione narrativa, non vorrei portare un racconto, uno svolgimento: voglio portare una questione che è lì, sospesa temporalmente, qualcosa che non ha un inizio o una fine, ma che è. Il collant riduce l’erotico e porta il colore. È una soluzione che è stata sintetizzata da cose che ho visto, certamente come spesso dicono, ma anche di altro, seppur io l’abbia metabolizzato successivamente.
Che macchina fotografica usi?
Non ho una macchina fotografica. L’ho avuta per il primo periodo, ma a un certo punto ho intuito che non era più il momento. È cambiato il mio modo di percepire il mezzo, che per me è davvero relativo – o meglio: per quello che devo fare io. Scelgo a seconda della situazione che ho davanti e a come la voglio vedere: il mio lavoro consiste nel ritrovare il modo di realizzare quella visione.
Quanto assurdo, quanto ironia c'è?
Sì, è vero: è un approccio che forse deriva dalla clownerie, che in un primissimo tempo del mio periodo del teatro ho fatto e che sicuramente fa parte di me: una gestualità dell’assurdo, dell’interpretazione dei movimenti e delle pose in concomitanza con ambientazioni "standard" convenzionali come un divano, una stanza, una strada. L’approccio performativo è alla base e di sicuro, a sostegno di questo atteggiamento, c'è improvvisazione e l'ironia di poter ribaltare le aspettative – dinamica tipica invece nella del racconto, quando ti aspetti la continuità di una storia.
Io osservo che cosa succede: da quando ho una visione di un'immagine, mentre capisco come far accadere di poterla rappresentare, fino a quando la fermo con lo scatto fotografico, che ne rappresenta in effetti il punto di arrivo. L'opera è arrivare a quel momento.
Giuseppe è in viaggio, immerso nella voglia di poter rispondere alla chiamata, decisamente collegata alla vita e al flusso delle cose che accadono mentre accadono.