Intervista di Antonella Vitelli, Torino, 3 ottobre 2019
Prima di pubblicare questa intervista ad Emanuele Enria ho provato a capire strutturalmente cosa "tagliare", quale contenuto fosse ridondante e quale concetto andasse rimodulato. Mi spiego meglio: l'intervista che leggerete, perché la leggerete tutta, rappresenta una violazione di tutte quelle che sono le regole che i giornalisti usano per affascinare il lettore. Brevità, rapidità, semplicità, da autentici pasdaran del mordi e fuggi. Per questa intervista ad Emanuele Enria non è stato possibile, non ho autorizzato me stessa ad applicare la tagliola. Le parole, i concetti, le definizioni seguono l'un l'altra in modo talmente sano ed equilibrato che ti sembra abominevole pensare al verbo "tagliare".
Quanto è sacra l'attenzione? Di cosa si occupa un "performer che esplora interazioni" e qual è l'eidos del Metodo Feldenkrais®? Da queste domande sono venuti fuori spunti ben al di là delle classificazioni. Il racconto di Emanuele segue una narrazione realmente intensa in cui ancora una volta il lettore è chiamato ad abiurare i limiti imposti a se stesso.
Consapevolezza di sé, libertà, movimento e ascolto. Emanuele in cosa consiste il metodo Feldenkrais?
Buongiorno, innanzitutto. E felice di iniziare questa conversazione attraverso un buon caffè in una caffetteria torinese del Centro.
L’approccio al movimento, al sentire, al percepire, persino al pensare che Moshe Feldenkrais è stato in grado di sviluppare attraverso il metodo Feldenkrais nasce dalla sua stessa capacità di
avere trasformato l’intera esperienza di vita in una pratica continua.
Quello che dovremmo, in fondo, tutti fare! In un ambito completamente diverso, mi vengono in mente i monaci medievali, al come sono stati capaci di realizzare attraverso determinate pratiche un approccio al sentire dentro un sapere, non a caso tradotto dalla stessa parola sapere: Sapiens dictus a sapore, il sapiente è così chiamato da sapore (Isidoro di Siviglia, libro X, 240). Credo che nulla lo esprima meglio del canto gregoriano: un’esperienza collettiva e sensoriale di una pratica, quella del cantare, accordandosi reciprocamente attraverso l’ascolto, la sensazione e il posizionamento del corpo nello spazio. A cui si aggiunge la trasmissione reciproca dentro la meravigliosa variabilità delle voci.
In questo, risiede una fiducia smisurata nel fatto di poter imparare ascoltando, sperimentando, percependo!
Così come ci è arrivato, in ambito filosofico, e da quel momento nulla sarà più come prima, il filosofo Nietzsche: tra i suoi appunti filologici, che potremmo tranquillamente chiamare fisiologici, troviamo questa nota che indica una strada: la parola greca sophós, saggio, etimologicamente appartiene alla famiglia di gustare, sapiens, il gustante, saphës, percepibile al gusto…
Sono partito da lontano per provare a rendere più chiaro quello che è il cuore dell’approccio delle pratiche Feldenkrais: imparare a gustare il movimento, a percepirne la sensazione.
Il mondo contemporaneo, nella sua frenesia, ci ha così poco abituati a farlo.
Il movimento è diventato una sorta di scossa elettrica continua, indecifrata, che subiamo.
O che agiamo come riempitivo o compensazione di qualcos’altro. Purtroppo senza accorgerci che, giorno dopo giorno, questo modo di subire i movimenti e i rumori prodotti (anche entrare in un bar e dover ascoltare la musica a tutto volume, cosa sempre più frequente purtroppo), inibisce la soglia di attenzione e percezione fino dentro le fibre muscolari: che significa fin dentro il nostro sistema nervoso e cervello!!
Mi viene in mente una di quelle illuminanti osservazioni di Marshall McLuhan, forse il più grande interprete della società della comunicazione: prendete l’esempio della luce elettrica, ci dice. Essa è informazione allo stato puro. E’ un medium senza messaggio, a meno che…
Ecco la questione!
A meno che quella scossa elettrica, la stessa che evoca proprio le connessioni nervose dentro il nostro cervello, le sinapsi, a meno che questa trasmissione non diventi più armoniosa, sensibile, ascoltata e non solo subita.
Prima di fare lezioni di danza o di una pratica Feldenkrais, mi capita sovente di fare un piccolo test: chiedo ai partecipanti di sollevare un braccio. Mi sorprende sempre quello che vedo!
E’ incredibile come nella maggioranza dei casi il movimento avvenga di scatto, arrivi subito al punto finale saltando parte del disegno della traiettoria.
In più arriva in alto portandosi dietro una quantità di sforzo muscolare molto più alto del necessario. E stiamo parlando di un piccolo gesto. Immaginate dunque cosa succede dentro gesti più ampi.
Ecco un altro dettaglio meraviglioso dell’approccio alle pratiche di movimento nel Feldenkrais: arrivare a sentire dove inizia il movimento, perché è lì dove ci giochiamo tutto, dentro la corteccia premotoria del cervello. Quando, mentre stiamo per agire, il nostro cervello deve mandare le informazioni in tempo reale per fare eseguire il movimento. Ma vi rendete conto di quale cosa meravigliosa sia tutto questo? E’ come un architetto che in continuazione disegna e modifica quel che sta per accadere. E’ il momento più raffinato dentro l’elaborazione del movimento: il piccolo che diventerà grande, l’invisibile visibile. E’ come gettare una pietra dentro uno stagno e vedere quei cerchi concentrici che si formano attorno al punto in cui è caduta nell’acqua: il più piccolo crea il successivo, e ancora e ancora. Leggere il movimento ed eseguirlo è questo atto magico di connessione tra pensiero, sensazione, sentimento e azione.
Ti posso fare un altro esempio un po’ “goloso”?
Dimmi pure.
Pensiamo a un buon bicchiere di vino rosso. Ognuno ci evochi dentro il produttore che maggiormente ama. A questo punto, immaginate se, per poter gustare questo vino che so buonissimo, o, ancor di più, se volessi scoprire se quel vino che ho nel bicchiere manifesta qualità organolettiche degne di nota, non fossi più capace di berne un sorso per assaggiarlo, ma avessi bisogno di trangugiarlo tutto subito.
Quante informazioni percettive e sensoriali perderei se facessi così? Per questo il nostro modo di muoverci riguarda tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana.
Perché questo è il paradosso del modo con cui noi utilizziamo il nostro corpo e il nostro movimento. Come un vinaccio, non degno di ascolto. E pochissime volte come un buon vino.
Ma il buon vino, anche la capacità di riconoscerlo, va coltivato! Un grandissimo critico d’arte con cui ho avuto la fortuna di interagire negli anni in cui collaboravo al Festival des musiques sacrées du monde a Fez, in Marocco, sto parlando di Jean Clair, proprio un paio di anni fa è passato dal Salone del libro di Torino in occasione di una presentazione, lanciando un forte ammonimento. Vi siete forse dimenticati, ha detto, da dove viene la parola cultura? All’origine, lo stesso termine latino significava “coltivare” e “abitare”.
La cultura è il potere di abitare il mondo, di rendere il mondo abitabile.
Nel caso di Feldenkrais, il fil rouge di tutto questo grande viaggio è stato proprio accorgersi che il movimento è sempre rivelatore di tutte queste informazioni. Non solo dell’azione finalizzata a quello che sto facendo, tipo: corro per fare 15 km. Cammino per andare in ufficio, oppure prendo la macchina. Vado in palestra.
Il tutto sempre commisurato a un’apparente misurazione.
Nelle pratiche Feldenkrais mi interessa piuttosto il come la eseguo, come la sento, quale è l’immagine del movimento che ne ho. Un aspetto fondamentale, questo. L’immagine del movimento. Che implica l’immagine del mio corpo, perché dentro il corpo convergono tutti questi elementi.
La cosiddetta plasticità del cervello che oggi, finalmente, le neuroscienze stanno dimostrando, è stata una delle strabilianti intuizioni di Feldenkrais. Quando si è accorto che se il cervello non ha chiara l’immagine del movimento che sta usando, e del proprio corpo, la usa in maniera profondamente inefficiente.
Significa che non è libero di imparare dal movimento, di usarlo e modificarlo a suo piacimento: di diventare più veloce, più lento, di interromperlo, cambiarlo, modificarlo senza rimanere bloccato dentro lo sforzo. O dentro l’emozione.
Da questa intuizione, per chi pratica, accadono quelli che sembrano dei veri e propri miracoli: si scopre che anche facendo poco in termini di sforzo, magicamente sentiamo parti del nostro corpo in maniera più chiara, così come percepiamo il nostro rapporto nello spazio e determinate qualità in maniera completamente diverse. Il risultato è anche un movimento più armonioso, più integrato di tutte le parti.
Feldenkrais chiama la relazione tra il corpo, il “dentro” che lo costituisce nella struttura e nelle connessioni (scheletro, muscolatura, tessuti, pelle,sistema nervoso/cervello), e il “fuori” che lo circonda, la self-image, l’immagine di sé, sostenendo che tutto il nostro comportamento viene determinato da essa.
Che cosa intende con questa parola? Affidiamoci direttamente alle sue parole, e poi mi permetterò di raccontarti come la vivo dentro il mio percorso di performer e di ricerca. “Direi”, ci dice Feldenkrais “che è un’immagine del corpo: cioè, la forma e la relazione tra le parti del corpo, che significa i rapporti spaziali e temporali così come le sensazioni cinestetiche.
In tutto ciò sono compresi i sentimenti, le emozioni e i pensieri; tutti questi aspetti formano un tutto integrato”. Secondo la sua visione, i nostri abituali schemi neuromotori sono fusi con le nostre abitudini emotive e mentali: “Atteggiamento corporeo e movimento, emozione e pensiero sono solo aspetti e funzioni diverse di una stessa realtà: il sistema nervoso non fa che eseguire, proprio attraverso il movimento, le distinzioni che portano a preferenze o scelte per determinate azioni o modelli di comportamento”.
Ecco in cosa consistono le pratiche di movimento, che chiamiamo CAM, ovvero di consapevolezza attraverso il movimento. Durano 1 ora ciascuna e, a seconda di quella in cui capitate, potreste trovarvi immersi dentro capriole, camminate, rotazioni, torsioni, fino a movimenti minuscoli. In particolare, come il corpo utilizza il proprio peso, dove prende dal terreno la spinta del movimento e come sviluppa in maniera funzionale quelle distinzioni necessarie per eseguire il movimento nel modo più efficace e privo di sforzo.
A questo punto, non posso che invitare chiunque leggerà questa nostra chiacchierata a provare una pratica, anche perché è proprio il momento giusto. Dal 7 al 13 ottobre ci sarà la settimana porte aperte in Piemonte.
Per me è una pratica di vita. Non riesco più a separare quello che è tecnicamente Feldenkrais da quello che non lo è. Ed è, a mio avviso, il senso profondo di questo approccio. Non solo del Feldenkrais, ovviamente. Per questo le chiamiamo pratiche e non esercizi. Non esiste la ripetizione, non esiste un numero di volte giusto o sbagliato. Visto e sentito da dentro, il nostro corpo è una continua scoperta, mai scontata: basta provare a percepire la nostra bocca: ci avete mai provato al di fuori della funzione già specifica di masticare, o parlare? E’ come entrare dentro una grotta ed esplorarla.
Un tema che ho potuto indagare attraverso un laboratorio/performance con la Fondazione Sandretto, uno degli spazi d’arte contemporanea più innovativi e aperti, dal titolo: La voce delle sirene. Muovendoci, consapevolmente e inconsapevolmente, ci disegniamo nello spazio. Siamo un paesaggio da percorrere continuamente. E’ un invito a rimanere dentro questo stato di attenzione ed esplorazione continua, tra ciò che è dentro e fuori di noi: qui si gioca la partita più bella e complessa.
Regaliamoci, per chi ci legge, il sublime monologo di Agrado nel film Tutto su Mia Madre di Pedro Almodovar, e che finisce con queste parole:
Bene, quello che stavo dicendo, è che costa molto essere autentica Signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchie. Perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stessa.
Da quello che dici appare una pratica anche molto ancestrale, naturale nell'uomo, nonostante si provi a soffocarla nella cerchia delle cose quotidiane a cui non pensare. Immagino che si rivolga tranquillamente a tutti! O no?
Lasciami dire che è davvero utilizzabile da chiunque, a cominciare dai bambini, di cui vorrei parlarti più in specifico, fino ad ogni età della vita e condizione fisica.
Ti sembrerà forse strano sentirlo dire, ma il più grande beneficio è innanzitutto continuare a stimolare il nostro cervello.
C’è un’espressione che usava anche Luciano Berio nelle sue celebri lezioni d’orchestra, che amo molto: Pensare con il corpo e sentire con il cervello. L’ho anche assunta a titolo di un progetto che sto portando avanti con le Biblioteche.
D’altronde, il movimento del corpo nello spazio è sempre una sorta di scrittura non solo esterna, ma anche interna: il come registriamo il movimento dentro il sistema nervoso assomiglia a una vera e propria mappatura, al corso di un fiume con i suoi rivoli, le sue diramature. Ogni forma di apprendimento attraverso il movimento riprende questa scrittura, modificandola e riscrivendola. Apprendere, dunque, nel suo senso più generale, è acquisire nuove risposte agli stimoli che ci arrivano.
Si diventa pienamente consapevoli di un movimento quando se ne può cambiare l’intensità, la velocità, il ritmo e l’intonazione. E allora diventiamo davvero liberi di costruire e decostruire il movimento.
Dopodiché, si tratta di non “banalizzare” mai un problema o rendere pigro il modo di risolverlo. A chi anche si presenta a una pratica con la semplice esigenza di risolvere un mal di schiena, cerco di rispondere talvolta attingendo da quei deliziosi libri editi da Corraini, dedicati agli storici designer della Alessi. Uno dei suoi storici designer, Richard Sapper, notava che l'osservare l'anatomia dei corpi aiuti continuamente a capire come la natura risolva problemi naturali complessi. Partendo proprio da un mal di schiena, allora, nulla è più vero di quel che dice Richard Sapper, se lo contestualizziamo dentro lo scheletro umano. Per esempio al come il piede trasmette la spinta che attinge dal suolo fino dentro la colonna vertebrale. A quel punto iniziamo a poter accorgerci di come viene orchestrato il movimento.
Felicemente sintetizzabile nella forma, nelle forme, di quei cavatappi della Alessi che così armoniosamente e creativamente utilizzano la spinta e la rotazione dentro una forma. Dentro il nostro corpo è in gioco il camminare, il ruotare, il salire, il scendere e tutte le espansioni dentro lo spazio tra orizzontale e verticale. Possiamo scoprire magicamente che non è la forza ma, proprio questa organicità della colonna che, se ben sorretta dagli appoggi, può liberarsi con la stessa facilità di un cavatappi.
Ora, immaginate un appendiabito sopra il quale disponete i vostri vestiti. Se li ponete sopra con calma e attenzione, l’appendiabito non penderà né da una parte, né dall’altra, ma rimarrà l’asse portante dei vostri vestiti. Se stress, poca attenzione, fretta, sforzo indurranno ad appoggiarli in maniera disordinata, l’appendiabito incomincerà a inclinarsi di lato. Lo scheletro, nel nostro corpo, assurge proprio al ruolo di “appendiabito”, ovvero di asse portante sopra il quale sono disposte le nostre fibre e fasce muscolari.
Un generale miglioramento nell’uso dello scheletro ci permette di beneficiare dell’intero spettro di movimenti: impariamo a prendere la spinta dalla terra attraverso i piedi, a trasmetterla al bacino, che è il vero punto di congiunzione tra le forze di terra e il peso dall’alto del nostro corpo, a gestire la precisione del movimento e della direzione dentro la cassa toracica.
Grande attenzione viene data alle direzioni nello spazio, alla velocità e alla lentezza come tempi di risposta con cui interagire; imparando a non utilizzare la ripetizione come obiettivo delle pratiche, ma un ascolto più fine delle sensazioni del movimento e del continuo riadattamento che fa il nostro sistema nervoso, dunque il cervello, del tono e della posizione. Inoltre, si sperimentano diversi appoggi, inclusi quelli a “quattro zampe”, per rendere forte ed efficiente la spinta, la discesa, la prontezza nella risalita e il lavoro di risveglio del bacino e della muscolatura della schiena.
Parli di “tocco come arte sociale, come atto conoscitivo”. Toccare. Ed essere toccati. Ci spieghi meglio?
Guarda, è un tema gigantesco che purtroppo abbiamo sotto gli occhi anche nella sua accezione negativa. Pensa alla paura di essere toccati, avvicinati dallo straniero che abita il nostro quotidiano, così miseramente alimentata da quest’ultimo anno e mezzo di Governo. Già nella mostra Equilibrium a cui ho partecipato, mi sono permesso di iniziare ad affrontare il tema partendo da un elemento dentro la società, che ne sta tremendamente condizionando ogni aspetto: la paura.
Elias Canetti, nel suo straordinario libro sulla formazione dei gruppi e delle masse e sul loro rapporto con il potere, evidenziava come “l’uomo tema più di ogni altra cosa d’essere toccato dall’ignoto”: su questa paura non solo costruisce le proprie abitudini, la propria casa, il proprio ufficio, riempie di luci la propria città, nel costante timore di essere toccato da ciò che non conosce; ma è, quella paura di essere toccati, di trovarci troppo vicino o lontano, di esseri invasi o travolti, il meccanismo costitutivo tra massa e potere. Fa’ venire la pelle d’oca a rileggerlo oggi, perché sembra così attuale.
Poi, però, se lo guardiamo dall’altra sponda, quella del bicchiere mezzo pieno, il ruolo del tocco è sconfinato.
E’ un atto conoscitivo, esplorativo, emotivo. Definisce continuamente possibilità di incontro, di scambio.
Quasi tutte le attività che sto portando avanti in questo momento hanno nel tocco e nella connessione l’elemento portante, che io trovo folgorante: così è nel tango, che pratico e insegno, così come nelle arti marziali, in particolare in questa costola dell’aikido che si chiama Kinomichi. Dove il contatto e la connessione hanno un ruolo fondamentale. In più, anche il Feldenkrais ha una parte che usa il tocco e si chiama Functional Integration (Integrazione, diciamo in italiano). Anzi, è stato proprio attraverso il tocco che Feldenkrais si è reso conto che poteva entrare in comunicazione con il cervello e il sistema nervoso dell’altra persona, riuscendo così a convalidare le sue intuizioni.
Ma prima di continuare, ti devo raccontare cosa mi è successo proprio oggi che ci parliamo. Avevo la mia annuale visita di controllo dei nei. E’ sempre un momento che mi ricorda un po’ la visita per la leva militare, e cosi la prendo sul ridere. Quando arriva il tuo turno, ti trovi infatti a doverti mettere in mutande per farti esaminare, steso su un lettino, dalla testa ai piedi, davanti e dietro. La visita non è durata più di 5 minuti e, per fortuna, era tutto a posto. Ma, nonostante l’enorme rispetto che nutro per i medici e il lavoro che svolgono, in quei 5 minuti di visita mi sono sentito mosso e sballottato come se fossi una pietra. Il come mi veniva girata la testa, sollevato un braccio, mi faceva sentire un grande sacco di patate. Ebbene, ho pensato proprio al tocco in quei momenti. Perché è così importante il tocco ed ha, spero, sempre di più nei prossimi anni un potenziale di utilizzo e miglioramento di benessere generale nei confronti delle persone?
Perché il tocco, per riprendere ancora un aspetto trattato nel catalogo della mostra Equilibrium rende la persona, tanto quella che tocca che quella che viene toccata, più consapevole dei propri schemi di movimento.
Perché è proprio il tocco della mano a migliorare la percezione in entrambe le parti: evocando una risposta neurosenso-motoria, aumentando la consapevolezza del corpo e dell’immagine di sé, ampliando gli schemi motori, affinando la sensazione e l’organizzazione nel campo gravitazionale, inibendo i movimenti parassiti che limitano la possibilità di movimenti volontari liberi.
Nel Feldenkrais, come nel Kinomichi/Aikido e nel tango, il tocco e la connessione sono usate moltissimo, con un’efficacia straordinaria. Ancora una volta, non posso che invitare chi ci legge a venire a sperimentarne i benefici. Ed, in questo, sogno di potere sempre di più attivare dei workshop di scambio con la categoria di medici ed infermieri, degli insegnanti, di chi ricopre un ruolo pubblico.
Nei tuoi scritti citi anche l’autobiografia dello stilista Salvatore Ferragamo. Qual è il nesso tra Ferragamo e la Feldenkrais?
Guarda, Salvatore Ferragamo è stato una figura straordinaria. Appartiene a quella categoria di artisti artigiani, come li chiamava René Guenon, studioso di mistica e storia del pensiero.
Attraverso la sua artigianalità, che si è tradotta in scarpe meravigliose, ha sviluppato un modo di sentire la materia e il contatto con la materia degni di un iniziato.
E’ quel tipo di artigianalità degli Stradivari e di molte altri nomi in grado di trasformare completamente un materiale nel suo utilizzo. Nel caso di Ferragamo, è successo con le scarpe.
Invito chiunque passa da Firenze ad andare a visitare il Museo Ferragamo per rendersi conto di cosa siano le sue scarpe e la sua figura. Ebbene, questi artisti artigiani hanno la capacità di creare qualcosa in cui forma e funzione, per dirla con una definizione che appartiene in maniera trasversale a biologi, designer, architetti, fisici, raggiunge il massimo del risultato: bellezza, comodità, risveglio del sentire in chi li usa. Quasi un miracolo. E’ come se indossando le sue scarpe si venisse toccati nella maniera in cui ti ho appena raccontato. Ti fanno persino stare meglio da un punto di vista fisico e biologico. Un aspetto, questo, che merita una seria riflessione sul come usare gli oggetti e le cose che ci stanno intorno. Inclusi i vestiti che indossiamo o le scarpe.
In più, le sue scarpe nascevano da una profonda conoscenza anatomica del piede e del corpo umano. Prendeva appunti su ogni sua cliente, ne annotava la correlazione tra la forma del piede, il modo di muoversi e la personalità. Per farlo, toccava i loro piedi. Esistono foto meravigliose di lui che tocca i piedi delle sue clienti. E, dopo averli toccati, ne annotava tratti di personalità. Lui che fu il calzolaio di Marylin, Audrey Hepburn, Gloria Swanson e tante altre dive del cinema. Insomma, si prestava molto a un dialogo con il Feldenkrais per una mostra dedicata al camminare, dunque anche ai piedi, e all’Equilibrio.
Benjamin diceva Ogni ordine è un atto di equilibrio di estrema precarietà. Per te che cos'è l’equilibrio?
Tutto è nato da una mia grande passione. Fin da piccolo, ho sempre adorato i caffé. Torino, poi, ne è ricca. Ma quelli di tutto il mondo. Sono sempre stati il mio luogo privilegiato in cui sedermi per osservare . Infatti, appena arrivo in un’altra città o luogo, la prima cosa che mi fa sentire a casa è trovare il bar giusto dove sedermi a osservare le persone, i loro gesti, i loro modi di fare, di muoversi. Ne sono così affascinato che ho preso così tanti appunti, schizzi, dettagli.
A un certo punto della mia vita, mi sono trovato tra le mani un libriccino di Honoré de Balzac poco conosciuto rispetto ai suoi grandi capolavori, ma per me folgorante: si intitola Teoria del camminare, ed è un libro incompiuto. Sono appunti di qualcosa di simile a quello che stavo facendo io, ma con dentro un’intuizione enorme. Siamo a fine Ottocento, momento cruciale in cui la nascita della fotografia sta disintegrando il ruolo fino ad allora assunto dalla pittura; stanno nascendo le grandi metropoli che stravolgono, a loro volta, gli spazi e le abitudini percettive delle persone. In più, proprio la fotografia anticipa con le sue evoluzioni, si pensi al cronofotografo di Étienne Jules Marey fino all’arrivo del cinema, la realizzazione di quello che sembrava il sogno impossibile degli esseri umani: poter filmare il movimento, poterlo osservare più da vicino dell’occhio umano.
Balzac, in questo libro, anticipa un’intuizione molto feldenkraisiana: vi rendete conto, scriveva in quelle pagine, che tra poco tempo si potrà arrivare ad eleggere a scienza l’osservazione del modo con cui le persone si muovono e camminano?
Perché dentro quei dettagli si potrà estrarre tutto ciò che serve sapere.
E’ l’epoca del flaneur, di Baudelaire, dell’uomo della folla di Poe. E ognuna di queste figure passa attraverso questo gesto del camminatore urbano, il flaneur, che succhia sensazioni da ciò che gli sta intorno.
Ma c’è ancora di più. Bisogna davvero provare a immedesimarsi in quell’epoca storica, sopratutto dentro una città come Londra, o Parigi. Entrambe hanno segnato la mia adolescenza. Di Londra mi affascinava e terrorizzava quel suo essere una città mondo: dentro le sue dimensioni, il mio corpo abituato a dimensioni urbane medie, si sentiva come risucchiato, trasportato da quella sua velocità elettrica, così ben rappresentata dalla sua metropolitana. Ancora oggi, che ho l’occasione di viverla andando a trovare mia sorella Gaia che vi abita, bastano due giorni di Londra perché tutto si dilati: le mie pupille, i pori della schiena, i punti di contatto. Persino la durata di ogni giornata. E’ come essere immerso dentro una bolla più grande che ti carezza, ti schiaffeggia, ti spinge, ti aggredisce, ti seduce. C’è un margine sottile tra spirito di sopravvivenza per arrivare dove vorresti e spirito di fascinazione che a Londra riconosco come fortissimo.
Mi sono sempre immaginato cosa dovessero provare quei poveri contadini o semplici abitanti di cittadine dell’Inghilterra che per necessità, si trovarono costretti ad emigrare verso Londra a fine Ottocento. E pensate alle donne, poi. Trovarsi di colpo e per la prima volta immersi a camminare dentro la metropoli che non ti giudicava come nei luoghi da cui provenivi, ma seguiva un’energia diversa, elettrizzante.
Un momento di passaggio, dunque, quello tra Otto e Novecento, che segna fino ai giorni nostri la nascita di nuovi Equilibri: visuali, sociali, sociali. Ognuno dei quali si rappresenta attraverso modi nuovi di muoversi e camminare. Da qui è arrivata naturale, dato anche il carattere del suo fondatore, l’idea di proporre un progetto mostra dal titolo Equilibrium.
L’equilibrio è una pratica, come quella del funambolo, non a caso simbolo di una delle figure immagini della mostra.
Però, in quanto pratica, non si è esaurita dentro quella mostra. E’ un percorso continuo di ricerca e ascolto che porto avanti, condivido, esploro attraverso diverse angolature. E che riguarda la ricerca di equilibrio dentro ognuno di noi.
C’è un concetto interessante nei tuoi scritti che è quello di “Imparare a imparare” e si collega ai bambini. Come si muovono i bambini e cos’ha in più il loro movimento rispetto a quello degli adulti? C’è qualcosa che ci toglie crescere?
Per chi passa da Barcellona, al Museo Picasso trovate scritta sul muro, in una delle sale, una celebre frase di Pablo Picasso: Ci ho messo un’intera vita per imparare a dipingere come un bambino. Sembra una divertita provocazione, ma invece è di un’intelligenza estrema. Che racconta proprio di un processo a cui è arrivato il pittore: imparare da tutto, dal come tocco il foglio e quello che mi sta intorno, dalle forme, dagli scarti, dal caso. Senza più il bisogno alcuno di essere didascalico. Poter giocare con quella magia creatrice che hanno i bambini davanti al mondo. Picasso ci è riuscito e con questa riflessione ne traduce una consapevolezza totale raggiunta.
Il punto fondamentale è aver ben chiaro come impara un bambino. Non solo perché è tenero e dolce osservare i bambini, ma per come imparano esplorando, per come costruiscono le loro connessioni in quel momento privilegiato di esplorazione del proprio stesso corpo che ancora non conoscono. Pensa solo al viaggio del loro primo anno di vita, insieme ai primi 9 mesi dentro la pancia della mamma, fino ad arrivare in piedi e fare i primi passi. Ognuno dei movimenti che usa, fin dalla nascita, sono movimenti esplorativi per imparare da quel che sta facendo.
E’ uno stato di grazia che ogni artista sogna, poter rimanere dentro questo stato esplorativo.
Ogni bambino riproduce e condensa magicamente su di sé, nel suo evolversi, le stesse fasi di evoluzione della specie: dall’ambiente liquido in cui si trovava nel feto, al suo primo rapporto con la gravità quando viene al mondo, come successe alle prime creature anfibie che passarono dall’acqua alla terra ferma, adattando il proprio corpo a nuove funzioni. Rotola su di sé facendosi portare a pancia in su e in giù dal movimento della testa. Si espande nello spazio strisciando, gattonando, arriva su quattro zampe quasi come un scimmia e quando ha sviluppato i movimenti dei centri superiori, testa, collo, bacino, anche, i suoi piedi saranno allora pronti a farlo salire in piedi.
A quel punto, e questo è il grande paradosso sociale che mi affascina incredibilmente, avrà già barattato questo immenso bacino esperienziale per circoscriverlo alla tradizione sociale che gli sta intorno.
Scoprendo che molti di quei movimenti, come leccare, annusare, strisciare, gattonare, rotolare, esplorare non gli sono più concessi. Persino la produzione sonora di quel periodo, la lallazione, meraviglioso giocare coi suoni, con l’origine stessa del suono, e scoperta dell’uso dei muscoli della laringe, se ne andrà gradualmente diventando una delle tante lingue del mondo che ciascuno di noi parla.
Quello che mi interessa è riuscire a mantenere vivo anche negli adulti, e con i bambini di ogni età, questo stato di esplorazione. Cogliere in questa fase, quella del bambino nei primi anni di vita, il processo di massima esplorazione connettiva tra il movimento e il suo stesso imparare dal movimento. E rimettere le persone adulte nella condizione di re-imparare in quella forma. Decostruendo i movimenti in un’infinità di pratiche di consapevolezza del movimento, usate da danzatori, sportivi, teatranti, musicisti, ma anche dalle persone più “normali”, per ripercorrere quelle fasi in cui impariamo a muoverci. Fondamento di quello che oggi viene classificato come apprendimento organico o anche educazione somatica.
Il 19 ottobre, nel magico spazio dell’associazione culturale Pratici e Vaporosi, in Via Donizzetti 13 a Torino, gestita da Giuliana Pititu e altre persone, terrò proprio un laboratorio Feldenkrais per bambini dai 3 ai 6 anni, a cui sono invitati a partecipare i loro genitori. Un modo per entrare in concreto dentro queste pratiche di movimento attraverso i bambini e non solo. Chiunque ci legge e ha bambini di quell’età è super invitato!!
In questo momento a cosa stai lavorando?
Come ti dicevo, dal 7 al 13 ottobre ci sarà la settimana porte aperte del Feldenkrais in Piemonte. Un’occasione fantastica per venire a sperimentare in tutti i luoghi in cui si terranno le pratiche.
Su questo sito trovate anche tutti i luoghi.
C’è anche un progetto a cui tengo moltissimo, le pratiche di danza Dance Well fatte insieme alla Lavanderia a Vapore di Collegno, il centro di ricerca per la danza contemporanea. Nascono da un’altra pura magia: fare danzare insieme danzatori, coreografi, persone che non danzano abitualmente o lo fanno sporadicamente, e persone che hanno il Parkinson. Ogni classe di danza, generalmente si tengono al sabato mattina, diventa un momento creativo, di gioia e di benessere. Ed è straordinariamente inclusivo. Il che significa che chiunque lo desideri può venire a danzare. Non mi resta che invitare chi ci legge a venire a danzare!!
Qui trovate più informazioni sul progetto e le date delle classi Dance Well
Quanto a me, io sono anche un performer che esplora interazioni, soprattutto con l’arte visuale e dentro la performance, per cui ci sono diversi progetti e ricerche in corso che mi portano in giro per l’Italia e fuori. Con il tango, ad esempio, sono un po’ nomade e dipende dai contesti. La prossima settimana, condurrò un workshop all’interno dei training delle nazioni Unite a Ginevra, dal titolo: breaking the rules. Come usare la danza e il movimento per sperimentare i cambiamenti sociali in corso. Userò la metafora del tango, è un approccio che ho già sperimentato con loro in alcune situazioni.
Un saluto a tutti e vi aspetto a praticare!