Enrico Maria Troisi e Gioconda Fappiano hanno reinventato il mito di Medea attraverso la letteratura. In questo lavoro narrativo, si rifanno alla tradizione letteraria e teatrale che ha reinterpretato la figura di Medea nel corso dei secoli. Partendo da autori classici come Euripide, Seneca e Ovidio, passano attraverso le riletture dell'Ottocento e del Novecento per arrivare a una visione più contemporanea. Questo testo offre una rilettura innovativa di un mito classico, esplorando temi di giustizia, libertà, e la costruzione della verità nel contesto della tragedia di Medea.
di Enrico Maria Troisi e Gioconda Fappiano
Ricreare Il mito è un gioco narrativo proprio della letteratura. La letteratura attualizza, riscrive, ri-contestualizza il mito di Medea sfruttando l’enorme potenziale metamorfico della sua vicenda. Euripide, per esempio, sceglie per Medea il prototipo di madre assassina pienamente cosciente e lucida, Seneca sottolinea la potenza esoterica della maga della Colchide, Ovidio si sofferma sul passaggio da donna amante a donna furente, ed infine gli autori dell‘Ottocento e del Novecento valorizzano la sua condizione di straniera. A seconda delle esigenze, la storia di Medea e degli Argonauti si presta dunque ad essere ri-narrata in diverse varianti.
Il breve testo che proponiamo si ispira alla versione di Christa Wolf. che col romanzo “Medea: Voci” (Stimmen) pubblicato negli anni 90, imprime alla storia una violenta torsione. Wolf si chiedeva: “Possibile che una guaritrice e esperta di magia, che doveva essere emersa da antichissimi sostrati mitici, da epoche in cui i figli erano il bene supremo di una tribù e in cui le madri venivano tenute in gran stima proprio per la loro capacità di generare e proteggere la stirpe” sopprimesse i suoi stessi figli perchè non più moglie e quindi, secondo tradizione, non più “vera”, riconoscibile madre? Possibile che Medea, madre “culturale” a tutto tondo trovi “naturale” liberarsi dei suoi stessi figli allo scopo di soddisfare il suo bisogno di vendetta? Quindi con il supporto di studiose dell’area antica, la Wolf trova sostegno alle sue intuizioni e approfondisce le “fonti antecedenti Euripide” per dare corpo ad una Medea positiva. La Medea di Wolf non è una madre assassina ma una vittima sacrificale perfetta su cui convogliare la violenza di una società confusa ed in bilico. La nostra versione regala a Medea una ulteriore possibilità con la complicità di Euripide e del coup de théâtre da lui escogitato: la purificazione attraverso l’arte e la catarsi dell’anima attraverso il racconto, e pur ribadendo la conquista da parte della donna della piena autonomia dalla tradizione, che la vuole marginale e succube, e dal capriccio degli Dei, che ne segnano il destino, le offre la possibilità di un ulteriore riscatto morale, quello dall’astio, dalla rabbia e dall’unica via d’uscita, la maledizione, che la Wolf le assegna. Medea era libera dagli uomini e dagli dèi ma non dalla rabbia e dal dolore. E se il bene equivale alla libertà, ed il male ad assenza di libertà, il sacrificio della Principessa della Colchide in nome della giustizia, dell’amore verso i figli e dell’autonomia (umana e spiccatamente “di genere”) sarebbe risultato dunque inutile senza un riscatto morale.
Sullo sfondo resta comunque il significato profondo della tragedia, che e’ la consapevolezza del confine su cui si fronteggiano il destino, e l‘impulso della ragione a rivendicare la propria autonomia.
Teatro Antico di Taormina, al tramonto. Va in scena Medea, di Euripide. È il punto più alto della tragedia (quinto episodio): Medea si interroga sulla scelta di uccidere i figli. Dell’intero oikos resta la camera da letto, illuminata debolmente. I colori sono terrei, rugginosi. Nello spazio extrascenico si intravede un lavabo; a destra, più avanti, un talamo modesto, sfatto; da un lato si apre un salone dove insistono il Coro, il precettore Aio e la nutrice. Tre ragazzini si rincorrono in silenzio alle spalle della donna, che è lì che si dimena, al centro della scena. Indossa un abito scuro lacero, nessuna traccia della principessa barbara della Colchide, piuttosto una strega. Inizialmente si muove a scatti, come una bestia braccata, curva, circospetta, china quasi a quattro zampe.
Medea -Donne di Corinto, sono uscita dal palazzo perché non abbiate nulla da rimproverarmi; colui che era tutto per me si è rivelato un uomo infame, il mio sposo. Fra tutti quanti hanno anima e ragione noi donne siamo le creature più infelici, piene di paura, vili di fronte alla vista del ferro, ma quando veniamo offese nel nostro letto, non c'è altra mente che sia più sanguinaria. La mia situazione è disperata. Ma non è finita qui, credetemi. Molte vie di morte mi si aprono, ma non so ancora quale seguirò amiche mie. Forse …ucciderò i miei figli e nessuno me lo impedirà, dopo avere annientato la casa di Giasone me ne andrò da questa terra. Medea…dimentica i tuoi figli almeno in questo breve giorno: poi li potrai piangere. Anche se li ucciderai, infatti, li hai molto amati: ma io sono una donna disgraziata. Oh creature mie, voi avete una città e una casa ove, dopo avermi lasciato, abiterete in eterno mentre io andrò da sola in un'altra terra prima di aver di voi goduto, avervi visti felici, aver celebrato le vostre nozze innalzando le fiaccole . Ora che ho visto lo sguardo dei miei figli la mia mano non vacillerà. So bene quanto male sto per fare ma la passione domina sopra il mio volere. Ed ora chiamatemi pure leonessa se....(pausa)
Appena ha preso la decisione di uccidere i suoi tre figli, la donna si placa, si raddrizza, avanza, zoppicante come la sua moralità, l’espressione ora impassibile ora stravolta. Ma poi si interrompe, un sorriso sbieco, una espressione perplessa, una posa eretta, congelata. Una eclisse: sembra non ricordare il testo. Resta a lungo così, in silenzio. Il Coro e gli attori che interpretano Aio e la nutrice, si guardano perplessi. I ragazzi si fermano, si tengono per mano in silenzio; si alza lentamente un brusio dal pubblico. Medea raggiunge il proscenio e lo percorre avanti e dietro più volte, lenta, circospetta, lo sguardo rivolto al pubblico delle prime file. È in cerca di qualcuno. Certo! Medea è ora un personaggio in cerca del suo autore, Euripide, finchè non lo scorge. Euripide è lì, a suo agio, seduto in quarta fila, defilato perché non ama apparire e preferisce assistere alle sue opere come se fossero frutto dell’ingegno d’altri. Egli, come un dio, ama separarsi dalla sua creatura e lasciarla libera di agire. Medea lo sa e ne ha quasi timore, ma l’inattesa fortuna di poter sfuggire ai rigori del copione si trasforma nell’ impulso potente, non meditato, di pronunciare a voce alta il suo nome. Euripide non sembra sorpreso, anzi sorride.
Medea - Euripide, Signore. Guardami! Mi conosci? Mi riconosci? Sono Medea, non Elettra o Elena. Medea. Voglio dirti una cosa: non li ammazzo. Non ammazzo Tessalo, Alcimene, e Tisandro. No. Sei sorpreso? Non l’ho fatto prima, e non lo farò adesso. Scordatelo! Scordatevelo tutti voi. E ora sono qui a raccontarvi una storia diversa, piccola e infelice, dimenticata da tutti ma non da te, Euripide.
Euripide sembra annuire con un piccolo cenno del capo; la gente si sporge dalla fila per volgere lo sguardo ora a lui ora alla donna ferma sul proscenio.
Medea - Euripide, che hai fatto? Tu che condannavi le montature dei sofisti, che con la loro arte negavano all’uomo i suoi veri valori per assoggettare chiunque fosse più debole di intelletto, tu che odiavi la falsa severità di Atene la cui giustizia era solo uno strumento di cieca sopraffazione. Tu che non credevi nei capricci degli dei. Ma soprattutto tu che ti opponevi alla “pochezza” di noi donne, assoggettate e disprezzate. Tu, proprio tu, armi la mia mano contro i miei figli perché così si compia la mia vendetta di donna, cui il tradimento di un empio ha negato per sempre l’incontro con Eros e Dioniso? No, signore, no. Chi t’ha pagato per cambiare la mia storia?
Euripide non sorride più
Medea - Sei un uomo, Euripide, vero? Cosa dicono gli uomini, Euripide? Che non hanno colpe, vero? Che sono gli dei che li scaraventano nelle loro disgraziate imprese? Sai che c’è? Che il fragore del macello e del sangue, ed il lamento dei vinti per mano degli uomini, non provocheranno mai loro abbastanza dolore,
abbastanza disperazione! Ovunque sulla Terra.
Euripide a quel punto la interrompe - Medea, vai al punto!
Medea - Signore, gli uomini hanno addestrato noi a disperarci. Qualcuna dovrà pur portare il lutto…Euripide, Signore! Siamo sacrificabili perché portatrici di un nuovo mondo, lontano dalle vostre smanie di potere e dal vizio della guerra, vero? Ed anche a me è toccata questa stessa sorte. Eccomi, la pago per tutti!
Euripide - Cosa vuol dire “la pago per tutti”?
Medea - Aspetta, che te lo spiego ( si accovaccia a gambe incrociate). Ma vieni qui da me, accanto a me. Signore…
Euripide, fingendo imbarazzo, non può far altro che raggiungere Medea sul proscenio. Ora è in piedi che la osserva e l’ascolta guardandola dall’alto in basso fintamente severo.
Medea ( Rivolgendosi agli spettatori) - Vi racconto una storia, o vuoi raccontarla tu, Euripide? I miei figli, miei e di Giasone, furono uccisi per mano dei Corinzi. Tu lo sai bene, perché in cambio di 15 talenti ti proposero di redimere dalla loro colpa quella gentaglia, pubblicamente, accusando me della loro morte.
Euripide - (fingendosi sorpreso) Non capisco cosa vuoi dire…
Medea - Sai come funzionano le cose a Corinto…Ah no, aspetta, aspetta. Come si disse? Li avevo inconsapevolmente soppressi io i miei figli, vero? Ma questo non bastava, era ancora poco per escludere le responsabilità di Creonte il re, o del popolo di Corinto per questo atto orribile. No! I talenti servivano a farti scrivere che dovevo essere io, Medea, a farlo, e non per qualche strana pazzia. No! Ero pienamente consapevole di tale gesto, ero capace di intendere e di volere, perfettamente lucida, e divorata dalla gelosia e dal sesso coniugale negato. Volevo vendicarmi di Giasone per il suo matrimonio con Glauce, la figlia di Creonte.
Euripide (bonario) - Non te lo ricordi? Su di te giravano tanti racconti. Avevi già assassinato tuo fratello Apsirto, ai tempi in cui Giasone ti aveva portato via dalla Colchide. Dopo aver ucciso Creonte, sei poi scappata da Corinto lasciando i tuoi ragazzi nel santuario dove li credevi al sicuro, ma i Corinzi li hanno raggiunti ed uccisi. Anzi no, c’è un’altra versione dei fatti: hai ucciso involontariamente i fanciulli seppellendoli nel tempio di Era, durante la fuga, per donare loro l’immortalità. Cosa preferisci, la follia o la stupidità? Non t'è andata meglio con la mia storia? Farti reagire al tradimento di Giasone è un atto atroce, ma fiero al tempo stesso, che rivendica il tuo diritto assoluto ad esser donna, libera di creare e di distruggere per conto di te stessa invece che del capriccio degli dei.
Medea - No Euripide, SIGNORE! Io non ho alcuna colpa e dimostrerò a tutti la mia innocenza. Non sono né stupida, né pazza e nemmeno un’assassina. Non ho ucciso alcuno, ne Apsirto, né Creonte né Glauce, o Ifinoe, o addirittura Creonte, né tantomeno Tessalo e Alcimene, né Tisandro. N-E-S-S-S-U-N-O! La racconto a loro (rivolta al pubblico) la vera storia, quella verità che, pagandoti, ti hanno convinto a seppellire.
Ho lasciato la Colchide dopo aver scoperto che il potere di mio padre Aete, si fondava su un delitto. Aete, infatti, avrebbe potuto salvarsi dall’antico rito di morte e rinascita soltanto cedendo per un giorno il trono ad un giovine che si sarebbe
sacrificato al suo posto. Mio padre cedette così il regno al suo stesso figlio, mio
fratello Apsirto, per un solo giorno al termine del quale, però, venne ucciso e fatto
a pezzi di fronte al silenzio del nostro stesso padre, il re!, che sbarazzatosi così del
suo unico rivale, si sarebbe assicurato il regno per tanti altri anni a venire.
Non ho ucciso io mio fratello, chiaro? E se ho raccolto dal mare le sue membra
disperse l’ho fatto soltanto per rinfacciare a mio padre il suo delitto, e fare in modo
che lui impietrisse dall‘orrore e dal rimorso.
Le mani di mio padre erano imbrattate di sangue ed il suo potere si alimentava di un delitto.
Persi la fede negli dèi e l’amore verso mio padre, e decisi di fuggire accanto a Giasone, il greco giunto in Colchide per rubare il vello d’oro ma non ero innamorata di lui, anzi. Ero consapevole di non avere altra scelta, sapevo di aver scelto il male minore…Orrore e sangue nella Colchide! Sì, dovevo andar via di lì in qualsiasi modo piuttosto che accettare quella orribile violenza e sottostare a questo e ad altri soprusi..
Non ho alcuna colpa della fine di mio fratello; ciò che mi era rimasto attaccato addosso era invece la sfiducia negli dèi e nelle tradizioni incarnate da quel mostro di mio padre: gli uni non esistono le altre sono pericolose. Entrambe non sono altro che un’invenzione, la più cinica e banale che si possa concepire, per sgravarsi da ogni colpa e sottrarsi ad ogni responsabilità
Il male minore…? No. Mi ero illusa. Fuggire dalla Colchide con Giasone non era affatto il male minore. A Corinto ho visto di peggio! Ifinoe, primogenita di Creonte e di Merope, era stata sacrificata per ordine del padre che, temendo di perdere il regno se la principessa fosse andata in sposa ad uno straniero, l’aveva fatta segretamente uccidere e seppellire nei sotterranei del palazzo. Non ti rivelerò come l’ho scoperto, ma la morte di Ifinoe, sorella di Glauce la quale sarebbe andata in sposa a Giasone al posto mio, segnò per sempre la mia rovina.
Non dovevo parlare, non dovevo fiatare, mentre su di me venivano convogliati tutti i sospetti.
Per evitare infatti che “il segreto di Corinto” venisse divulgato, e per convogliare
invece su di me i sospetti e l‘odio dei Corinzi, un tale Acamante, primo astronomo di Creonte, mi diffamò con l‘accusa dell‘assassinio di mio fratello e non ci mise molto ad attribuirmi la soppressione di Ifinoe e l’arrivo dell’ondata di peste che s’era abbattuta su Corinto….
Anche il popolo mi odiò, all’istante.
Gli esseri umani vogliono convincersi che la loro sfortuna, i loro errori, i fallimenti di una intera comunità vengano da un unico responsabile, di cui ci si può facilmente sbarazzare, ed ecco che proprio io, Medea, una donna, venivo scelta come vittima da eliminare.
Fui accompagnata fuori dalla città passando attraverso la porta maestra, fra due ali di folla che mi urlava contro e mi sputava addosso.
Sono scampata alla morte, ma mi è toccata una sorte peggiore: l‘esilio e l‘allontanamento da quei figli che verranno poi uccisi dai Corinzi nel tempio di Era.
Io sono un Capro Espiatorio, Euripide. Signore, io sono stata sacrificata e data in pasto alla storia in nome della salvezza dello Stato, io sono stata condannata ad un ricordo orribile ogni volta che si pronuncia il mio nome. Medea! Il male più grande del mare.
Euripide si siede allora accanto a lei, le accarezza il capo e le prende la mano. Il pubblico, sorpreso dal colpo di scena, si avvede dell’intesa fra i due.
Euripide – (indicando a Medea il teatro con un’ampia apertura della braccia.) Gli
uomini a teatro guardano e ascoltano tutto ciò che è terrore e splendore, tutto ciò
che è vero, per glorificare la vita e non mentire più a se stessi. Scendono nei loro
abissi interiori governati da forze oscure e dovrebbero riemergere da questo viaggio con l’anima liberata compiendo un grande rito di purificazione collettiva, anelando al bene. Eppure questo non accade e si ripetono sempre gli stessi errori. Medea, per quale ragione abbiamo sempre bisogno di vittime, io non so dirti. Forse tu, proprio tu saprai darmi una risposta. Perché?
Medea – Tu, Euripide, chiedi risposte a Medea. Vuoi che ti ripeta ciò che sai?
Ebbene…ti rispondo con una domanda: perché vengono sacrificati singoli individui come pure interi popoli, oppure razze?
Euripide - (rivolto al pubblico) Medea sì, è vero, sei un capro espiatorio, la vittima
casuale di un linciaggio necessario, sulla quale si scarica la violenza collettiva
accumulata in seno alla comunità. La violenza che nasce a partire dai conflitti
all’interno di una società corrotta e in bilico. E’ contagiosa, generalizzata, la
violenza, e tutti la imitano ad un certo punto. La comunità di Corinto, condannata
alla guerra, alle differenze di classe, alla povertà ed infine alla peste a causa della
corruzione del Re, per proteggersi dalla sua stessa violenza, aveva sete del sacrificio di una vittima a lei esterna, una straniera, in modo da unire i cuori e stabilire l‘ordine.
Medea - E perché è toccato a me “unire i cuori e ristabilire l’ordine”?
Euripide - Sono tre le ragioni, a tutti chiare ormai, che hanno fatto sì che venissi
designata tu. La prima era appunto la crisi profonda di Corinto e della sua
comunità; la seconda erano le accuse confezionate da Alcamante nei tuoi
confronti, cioè che eri già incline all’assassinio per aver soppresso tuo fratello, per
le quali non era necessario trovare prove di colpevolezza in quanto bastava la sola
convinzione unanime ad incastrarti; la terza ed ultima condizione, infine, era il
fatto che tu appartenessi ad una categoria di persone facilmente esposte alla
persecuzione.
Medea - Cioè?
Euripide - In quanto donna e barbara, straniera, eri debole e vulnerabile; su di te era impresso lo stigma, benché falso, della morte di Apsirto; eri una maga capace di tutto per vendicarti di Giasone, e la tua persecuzione, per la città di Corinto, in cui corruzione e menzogna predominavano, non aveva alcuna importanza. Era il minimo che potessi subire. Eri perfetta
Medea - Dimentichi una cosa: avevo fiducia nel senso di umanità dei Corinzi e della loro apparente smisurata fede nella ragione. Mi sono messa nelle loro mani. A che pro tanto ottimismo?
Euripide – Si, anche questo, ingenua Medea. O forse soprattutto questo…Sai allora dov’è la tragedia?
Medea - Si…Lo so. E so cosa vuoi dire…
(Euripide si alza e tende la mano a Medea, che si tira su restandogli accanto accanto a lui. Lui continua a tenerla per mano e parla rivolto al pubblico) –
Fra il bene e l’utile, hai scelto il bene mia nobile Medea, ma ciò ti ha portato al
dolore ed all’oblio. Eppure avevi scelto di essere libera, libera dalla fede
assoluta negli uomini e negli dèi, libera dall’asservimento, dall’irrazionalità e
dall’obbedienza.Ma finora non ti eri liberata dalla schiavitù dell‘odio e del
rancore, ed eri stata condannata al silenzio più amaro e alla maledizione, figli
della tua estrema solitudine.
Da oggi sei libera…D’ora in poi non avrai più paure, né attese, né odio né
rancore, Medea. Essere liberi significa scegliere il bene più grande per sé e
per gli altri. Il male è di per sé il frutto avvelenato di una mancanza,
soprattutto della carenza d’ amore.
D’ora in poi non avrai più paure, né attese, né odio né rancore, Medea. Essere liberi significa scegliere il bene più grande per sé e per gli altri. Il male è di per sé è il frutto avvelenato di una mancanza, soprattutto della carenza d’ amore.
Oggi hai avuta restituita la voce, la tua voce. Adesso puoi gridarlo: NUNC MEDEA SUM! ADESSO SONO MEDEA! Questa sono io!
Una società i cui valori sono saldi, e forti sono le radici di umanità e di
cultura, non c‘è bisogno di vittime, né il sacrificio ha più ragione di esistere. Il
fuoco sapiente della conoscenza non ha paura della verità e della libertà, sua
compagna. Ma per ciascuno di voi, di noi, ci sarà sempre da combattere.
Il confine tra la violenza irrazionale che chiamiamo destino e l‘impulso della
ragione alla conquista della propria autonomia si contenderanno sempre il
campo, come è stato raccontato nella tua storia, Medea.
Medea- Questa è la nostra tragedia, Euripide, Signore….E’ questa “la
Tragedia”…..
Euripide e Medea lasciano il proscenio, scendono fra gli spettatori, e si
allontanano. Dopo un lungo ed imbarazzante silenzio, esplode un caldo, commosso e lunghissimo applauso.
Fonti
- Euripide da Salamina: Μήδεια, 431 A.C.
- M.Rubino, C.Degregori, “Medea. Voci di Christa Wolf” ,Medea Contemporanea, Genova, 2000
- Marianna Pugliese, “La riscrittura del mito di Medea in tre scrittrici contemporanee. Toni Morrison, Liz Lochhead e Christa Wolf “, 2011
- Gabriella Giudici: “Réné Girard, Il capro espiatorio”