Intervista a due voci a cinquant’anni dalla sentenza emessa dal tribunale di Benevento con il giudice Alfonso Bosco e con il prof. Daniele Butturini di Gioconda Fappiano
Lo scandalo è stato un elemento chiave della sua esistenza. Come lui stesso disse in un’intervista, avrebbe potuto scrivere un libro bianco sui suoi rapporti con la giustizia italiana, sulle accuse, sulle requisitorie e le arringhe dei pubblici ministeri, le sentenze di cui furono oggetto le sue opere.
Vogliamo ricordare però Pier Paolo Pasolini, a cento anni dalla sua nascita, attraverso una sentenza del Tribunale di Benevento che esattamente 50 anni fa lo assolse in un processo in cui sedeva sul banco degli imputati “I racconti di Canterbury”, film che valse al regista l’Orso d’oro al festival di Berlino. Il film venne proiettato per la prima volta il 2 settembre 1972 nella città sannita, ma con il divieto ai minori di 18 anni, viste le molte scene forti di cui è permeato. Dopo tre giorni arrivarono le prime denunce per oscenità, ma il tribunale beneventano (le denunce scattarono nella città dove si tenne la "prima") non riscontrò i reati contestati.
Ne parliamo a distanza di cinquant’anni con il giudice dottore Alfonso Bosco che, assieme a Bruno Rotili e al presidente ed estensore dottore Daniele Cusani, diede corpo all’ assoluzione de “I Racconti di Canterbury” consacrandolo ad opera d’arte. Inoltre proponiamo il commento di Daniele Butturini, professore associato di Diritto Costituzionale all’Università di Verona, giurista e appassionato di Pier Paolo Pasolini.
La società degli anni Settanta sembrava spaccata tra coloro che non intendevano arretrare d’un passo sul terreno della difesa del pudore e della morale pubblica, come ad esempio la Chiesa, e coloro che all’opposto sembravano cavalcare la “rivoluzione culturale” partita nel 1968. Quanto tutto questo pesò nel processo a I racconti di Canterbury di Pasolini e qual era il clima politico e culturale che si respirava a Benevento?
Alfonso Bosco: La città di Benevento e la sua provincia sono state sempre caratterizzate dalla presenza, nella popolazione, di un profondo e diffuso sentimento religioso, che certamente trova il suo principale fondamento anche nella tradizione storica della città, appartenuta per circa otto secoli al dominio pontificio, che da tempo remoto è stata sede arcivescovile con vasta giurisdizione territoriale e che vanta di aver espresso tre Papi, molti Cardinali ed alti prelati, oltre ad aver ospitato alcuni monasteri ed un Seminario. Non stupisce, pertanto, che tale situazione sia rimasta immutata anche dopo le vicende politiche e sociali del 1968, come dimostra anche l’atteggiamento assunto dagli elettori sanniti in occasione del Referendum del 1973, abrogativo della legge Fortuna-Baslini del 1970, che introduceva il divorzio nella legislazione italiana, allorquando nella provincia di Benevento prevalse il voto favorevole all’abrogazione.
Non ritengo, però, che tale sentimento abbia influito sulle vicende del processo instaurato per la proiezione del film “I racconti di Canterbury”. Va precisato che contro il film furono presentate 9 denunzie in varie città italiane (oltre Benevento, Firenze, Mantova, Frosinone, Viterbo, Venezia , Latina ….), oltre a vari esposti generici e dubbiosi, e nessuna di essi partì da un cittadino della provincia di Benevento. Il processo fu attivato a seguito di una denunzia presentata alla Procura della Repubblica di Benevento da un cittadino napoletano, che peraltro precisava che il suo pudore non era stato offeso dal film.
Daniele Butturini: La domanda richiede innanzitutto di collocare l’opera cinematografica I racconti di Canterbury all’interno non solo della cornice artistica, quanto anche della temperie politico-culturale che caratterizzò la società italiana a cavaliere degli anni Settanta. In un contesto di rapida trasformazione della società da prevalentemente agraria a industriale, manifestazioni artistiche e movimenti politici si trovava collocati in una polarità: da un lato, l’influenza della Chiesa cattolica romana, professata dalla stragrande maggioranza della popolazione, che premeva per la protezione del “buon costume”, bene giuridico interpretato come protezione del pudore sessuale; dall’altro, si dava una mobilitazione culturale e sociale tesa alla liberazione della morale sessuale come portato antropologico e sociale della rivolta del 1968. Proprio tale temperie è essenziale per la comprensione dell’opera di Pasolini. L’opera cinematografica esalta l’elemento vitale di una sessualità che è liberatoria proprio perché repressa da un potere politico-clericale. Proprio l’elemento repressivo è ritenuto da Pasolini fattore di emancipazione autentica di una sessualità vissuta con felicità e genuinità: la sessualità ha, per così dire, “carica liberatoria e sincera” nella misura in cu operi come momento rivoluzionario, come condotta che mette a nudo l’ipocrisia e la violenza di un potere repressivo. Nel film, pertanto, emerge l’inclinazione dell’essere umano a manifestare con tutti i suoi mezzi la materialità della propria natura ed essenza, indipendentemente da obblighi superiori, siano politici o spirituali. Questa è la vera e autentica liberazione per Pasolini.
Nel contempo, tale opera è anche momento di critica ei confronti di alcuni effettivi involutivi della rivolta del 68. Al fine di comprendere tali aspetti è necessario rinviare all’intervento, pubblicato postumo, che Pasolini avrebbe dovuto esporre in una conferenza organizzata dal partito radicale nel novembre del 1975.
Per l’autore, gli effetti involutivi della rivolta del 1968 avrebbero potuto decretare la vittoria di una logica consumistica, la quale rende «immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione «creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili». Pasolini mette in guardia la società da una sessualità che invece può venire manipolata da un potere che converte la carnalità in impresa. L’opera “Salò”, uscita postuma, rappresenta proprio la manifestazione della sessualità come bruttezza in quanto obbligazione imposta da un potere mercificante.
“I racconti di Canterbury” riflettono su di una rivoluzione sessuale che è alterità assoluta tanto nei confronti di un potere e di una classe dominante reazionari, quanto di un edonismo che faccia trionfare il conformismo «attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili».
Per quanto concerne il clima giuridico, in quegli anni Pasolini fu costretto a difendere la propria opera artistica in molteplici processi tesi a valutarne i contenuti religiosi tramite la lente del diritto. Si pensi, su tutti al decreto di sequestro del film “La ricotta”, adottato nel 1972 per vilipendio della religione dello Stato, in cui Pasolini fu accusato di avere dileggiato la figura di Cristo e i valori religiosi nella rappresentazione di una Passione attraverso i seguenti espedienti estetici: la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore quali un twist. La vicenda giudiziaria de “La ricotta” è emblematica della concezione giurisprudenziale del tempo. Da un lato, infatti, la magistratura non ritenne il film per sé vilipendioso della religione cattolica. Anzi: i giudici ritennero che la morte in croce di un sottoproletario, Stracci, avesse un significato religioso e che l’accostamento delle sofferenze del protagonista alla morte di Cristo non costituisse vilipendio. Né la trama in sé del film, né le scelte estetiche del regista né il messaggio sociale dell’opera furono in discussione. Tuttavia, la sentenza pose l’accento sull’articolazione e sul registro della trama dai quali risulterebbe una visione di scherno e dileggio verso i simboli e le manifestazioni essenziali della religione cattolica. Citiamo uno dei passaggi essenziali della motivazione della sentenza: «allo spettatore non sfugge davvero la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci che mangia, i suoi famigliari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame e del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (il «Dies irae»): mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata, come purtroppo accadrà invece ogni qual volta il regista tratterà le parti veramente sacre del film, ogni qual volta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cristiana». I giudici nei punti successivi della motivazione stigmatizzano giuridicamente la proposta del film accusata di essere contraria al patrimonio valoriale della religione dello Stato. L’autore dolosamente, secondo i giudici, mette in scena una alternativa antitetica alla tradizione della religione: «Pasolini, proprio per servire, illustrare ed evidenziare la religiosità del racconto di Stracci e quindi la propria concezione della religiosità, ha voluto immotivatamente aggredire una entità, artatamente presentata come del tutto antitetica al proprio sentimento di religiosità e cioè la fede cattolica». Emerge da ciò una concezione giurisdizionale tesa a valutare un’opera estetica facendo riferimento al registro comico utilizzato nel quale la religione viene derisa. La sentenza sul caso “La ricotta” ricorre ad un vaglio interno sul registro narrativo dell’opera.
Possiamo, pertanto, dire che invece la sentenza del Tribunale di Benevento ha rappresentato indubitabilmente una svolta nel giudizio giuridico sulle opere estetiche.
“I racconti di Canterbury “fanno parte della cosiddetta “Trilogia della vita” – insieme al Decameron (1971) e Il fiore delle Mille e una notte (174) -, trilogia pervasa dalla necessità della rappresentazione dei corpi e soprattutto dal simbolismo sessuale. Per questo motivo il film passò per la cruna degli articoli 528 (quello relativo al comune senso del pudore) e 529 (il film in questione era un’opera d’arte?). Quanto pesò nella sentenza il rapporto tra la bellezza dell’opera d’arte e la sua bontà?
Alfonso Bosco: Come è precisato espressamente nella motivazione della sentenza, il giudizio demandato al giudice dagli artt.528 e 529 C.P. non riguarda né la bellezza dell’opera d’arte, né la sua bontà, né che l’opera sia un capolavoro. Il giudizio, secondo un concetto elaborato dalla giurisprudenza in materia, proprio con riferimento agli spettacoli cinematografici, deve invece riguardare innanzi tutto un elemento estrinseco, quale la validità artistica dell’opera, valutabile con riguardo “al soggetto, alla sceneggiatura, alla direzione artistica, alla recitazione, alla musica, alla fotografia, all’acutezza dei particolari, alla presentazione degli ambienti”; ma deve riguardare anche un elemento intrinseco, quale il contenuto concettuale del film, “il contenuto di intuizione universale”, “la fiamma ideale che suscita per l’elevatezza dell’aspirazione mistica, cui conduce”. Solo la presenza, opportunamente verificata, di tali elementi concomitanti denota la sussistenza dell’opera d’arte, che vale ad escludere l’illiceità penale di scene ed oggetti, che altrimenti sarebbero “osceni e scurrili” (e quindi meritevoli di sanzione penale).
Daniele Butturini: La risposta al quesito richiede una premessa in punto di diritto costituzionale. Se, infatti, l’art. 21 Cost. prevede limiti per quelle manifestazioni del pensiero che si scontrano con il buon costume, l’art. 33 non menziona alcun limite espresso quando proclama la piena libertà di arte e scienza. Nell’art. 33 Cost. non vi è alcun riferimento esplicito a tale limite. Ciò implica, da un punto di vista rigidamente formale, che l’espressione artistica sia esentata dal rispetto del buon costume. L’art. 528 del codice penale sanziona le opere cinematografiche che abbiano carattere di oscenità. Come noto, il bene giuridico protetto consiste nella moralità pubblica intesa come coscienza etica di un popolo in riferimento alla sfera sessuale, ovvero il modo collettivo di intendere ciò che è bene da ciò che è male nell’ambito sessuale e nel buon costume inteso come il modo di vivere di una comunità in adesione alle regole sociali in tema di morale, decenza e abitudini attinenti alle manifestazioni sessuali. La disposizione però va letta in relazione all’art. 529, comma 2 del codice penale, il quale stabilisce, chiarendo il punto in discussione, che «non si considera oscena l'opera d’arte o di scienza salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto».
La sentenza del Tribunale di Benevento, pertanto, si inserisce nel suddetto quadro normativo e si concentra su un giudizio estrinseco in ordine alla natura artistica dell’opera, senza entrare nel merito e nella forma della trama scelta dall’autore.
L’opera d’arte non è nel contenuto limitabile dal buon costume. In questo senso possiamo dire che la sentenza del Tribunale di Benevento pone una interpretazione giuridica del rapporto tra arte e oscenità assai importante per valutare la sfera di estensione della libertà all’espressione artistica. Gli argomenti del Tribunale di Benevento sono simili a quelli che la magistratura ha utilizzato rispetto ad un’altra cinematografica di Pasolini, il film “Teorema” del 1968, accusato di oscenità in quanto raffigurante scene con chiari riferimenti ad atti sessuali (anche di tipo omosessuale), e caratterizzato nei contenuti da una critica radicale della società borghese del tempo. Il Tribunale sul caso Teorema ritenne il film opera d’arte. Il limite dell’ordine pubblico non venne ritenuto valido in quanto se si ritenesse per ordine pubblico, la protezione dell’insieme dei valori e l’ordinamento di una comunità statale, questo non potrebbe applicarsi all’arte, la quale spesso intende contestare l’ordine vigente.
Escluso il limite del buon costume e anche quello dell’ordine pubblico, sembrerebbe che l’arte possa godere della massima libertà. Esistono peraltro delle misure legittime che possono essere prese in previsione della tutela dei minori. I minorenni vanno considerati una categoria speciale di cittadini, caratterizzati da una maggiore sensibilità e immaturità nel recepire quelle informazioni e quei contenuti che hanno bisogno di un’esperienza maggiore per capirne le sfumature e i risvolti. Per tutelare i giovani e i più piccoli si è giunti all’adozione di norme legislative speciali che limitano la pubblicazione di materiale che inciti ad atti di violenza o che ledano il senso del pudore, e che proteggano la normale evoluzione e formazione libera della personalità psicologica dei soggetti.
L’arte, in quanto tale, non ricorre a strumenti che possano istigare a commettere delitti o atti di violenza. L’arte ha tra i fini quelli di scuotere, scandalizzare e provocare, nel tentativo di dare una nuova visione alle cose e ai fenomeni della società, visione differente o alternativa rispetto alla comune percezione della società. La sentenza del Tribunale di Benevento a nostro parere si pone in continuità con il quadro della interpretazione costituzionale della libertà dell’arte di cui all’art. 33 Cost. Basti pensare che i giudici rispetto al merito delle scene per valutarne la scurrilità e/o la oscenità hanno escluso di poter «stabilire se lo spettacolo avesse potuto raggiungere lo stesso risultato con un diverso procedimento». I giudici hanno riconosciuto il carattere artistico all’opera. Infatti, le scene del film, anche quelle ritenute particolarmente oscene in sé e per sé, «vanno integrate in un più ampio contesto, essendo le componenti di tutto un procedimento narrativo, caratteristico dell'opera cinematografica, la quale ha un suo ritmo e un suo procedere, strettamente influenzati dalle possibilità - vastissime - del mezzo espressivo». Il riconoscimento del valore artistico pertanto ne esclude l’oscenità, in stretta applicazione del dettato dell’art. 529 codice penale. Inoltre, vi è una considerazione ulteriore che i giudici di Benevento operano ad abundantiam. La validità artistica è corroborata dal fatto di perseguire scopi di natura etica, dal momento che il film “I racconti di Canterbury” meritoriamente suscita nello spettatore considerazioni sulla condizione umana. Non solo; i giudici pongono l’accento sul fatto che il film mira ad un modello di società sia individualmente sia collettivamente migliore. In tale ottica l’oscenità in sé e per sé di alcune scene risulta essere esclusivamente un contenuto meramente strumentale agli scopi poc’anzi menzionati. La sentenza del Tribunale di Benevento pertanto pare riconoscere una armonica conseguenzialità fra norme giuridiche: il testo dell’art. 529 codice penale viene letto, senz’altro, alla luce della libertà dell’arte, priva del limite del buon costume, di cui all’art. 33 Cost., ma anche, implicitamente, alla luce della funzione dell’art. 21 Cost. secondo cui la libertà di manifestazione del pensiero e il pluralismo delle espressioni delle idee sono presupposti essenziali della critica e delle proposte di trasformazione della società. Dalla sentenza del Tribunale di Benevento è implicita una interpretazione volta a dare alle libertà di espressione del pensiero, di cui agli artt. 21 e 33 Cost., il ruolo di strumenti indispensabili per rendere effettivo il principio pluralistico-conflittuale che consiste nella garanzia del diritto di diffondere i contenuti della propria cultura, della propria visione del mondo, della propria concezione di società e di bene comune nel senso della libertà del dissenso delle minoranze portatrici di alterità nei confronti di un potere dominante. Da un punto di vista giuridico-costituzionale i diritti poc’anzi richiamati si innestano in un ordinamento giuridico non omogeneo, segnato dal profondo contrasto in società fra gruppi politici e sociali. Potremmo dire che i diritti sono riconosciuti e garantiti proprio perché l’ordinamento giuridico non è omogeneo, visti i contrasti che in società emergono fra le varie visioni del mondo. Il riconoscimento delle libertà, di pensiero e dell’arte, comporta la protezione delle espressioni del singolo e delle minoranze verso lo Stato e anche contro lo Stato.
Il Tribunale di Benevento si domandò anche se il significato fondamentale del film potesse essere capito dallo spettatore medio. Ci spiegate l’utilità di questa disamina?
Alfonso Bosco: La valutazione, da parte del Tribunale, del se il significato fondamentale del film potesse essere capito dallo spettatore medio, era necessaria in relazione alla previsione dell’art.529 C.P.. Ai fini della norma penale la qualificazione di osceno è ricollegata “agli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”. Ebbene, per stabilire “il comune sentimento” andava fatto riferimento (anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali emersi in altri processi simili) al sentimento medio dei cittadini in un determinato momento storico, tenendo conto anche dell’evoluzione dei costumi e dell’elevazione del livello culturale medio della collettività (cosiddetto criterio storico-evolutivo).
Daniele Butturini: La centralità che la sentenza attribuisce al parametro rappresentato dallo spettatore medio implica una serie di riflessioni. I giudici sul punto specifico parlano proprio del cittadino medio adulto, maggiore di anni 18, in quanto dotato di ordinario potere critico e di autocontrollo.
La sentenza poi effettua una considerazione sociologica, dal momento che ritiene che le caratteristiche dello spettatore medio sussistano in forza delle seguenti condizioni del tempo: sempre maggiore diffusione delle fonti di cultura, elevazione del limite della scuola d'obbligo e maggiore accesso al dibattito pubblico da parte delle persone. Si può dire che lo spettatore medio sia il prodotto del pluralismo delle offerte culturali e informative della società ed anche dei servizi culturali e informativi che la Repubblica deve, in termini di condizioni, di assicurare. Lo spettatore medio, dotato di un ordinario senso critico, è a sua volta titolare di diritti esigibili nei confronti della Repubblica, consistenti nella pretesa a ricevere contenuti culturali e, soprattutto, a non essere impedito o ostacolato nella fruizione dei contenuti stessi. La garanzia di uno spazio pubblico nel quale le libertà delle manifestazioni del pensiero e dell’arte siano concretizzate e non compresse è la garanzia che uno spettatore con senso critico emerga. Inoltre, sul lato dell’arte, si deve ricordare che le manifestazioni estetiche non possono certo essere destinate esclusivamente alle nicchie degli specialisti. Anche in ragione di ciò il parametro dello spettatore medio assume rilevanza.
Nella sentenza d’assoluzione del tribunale di Benevento, oltre all’approfondimento giuridico sui capi d’imputazione, si scrivono delle bellissime pagine di apprezzamento sul valore artistico dell’opera cinematografica esaminata (sulla fotografia, il commento musicale, “per il contenuto d’intuizione universale, per l’elevatezza dell’ispirazione mistica a cui conduce […])”. Nello scritto la parola giuridica dialoga continuamente con la parola letteraria. Secondo voi, quanto è importante la narrazione ai fini della verità processuale?
Alfonso Bosco: L’analisi del film sotto il profilo artistico fu determinante ai fini della decisione, come prevede l’art.529 del codice penale. Nella motivazione della sentenza si dice chiaramente che il film contiene “oscenità e scurrilità”, ma che esse sono “soverchiate largamente” dal “significato fondamentale del film”, il quale contiene indubbi e rilevanti pregi artistici, tali da poter essere giudicato “opera d’arte”. Il dialogo tra il linguaggio giuridico e quello letterario (e non solo letterario, ma anche di altre manifestazioni artistiche) è previsto e voluto dal legislatore penale, che richiede al giudice un rilevante sforzo di immedesimazione nelle varie realtà culturali coinvolte nel giudizio, al fine di realizzare un contemperamento di beni giuridici ugualmente previsti e tutelati dalla nostra Costituzione: la libertà dell’arte (art.33) e il divieto di spettacoli contrari al buon costume (art.21).
Daniele Butturini: La narrazione è essenziale nel processo. Il processo è la valutazione del fatto materiale all’interno di una attività logico-argomentativa di sussunzione. Il processo e la sentenza sono i momenti nei quali la norma giuridica viene interpretata alla luce del fatto. Si potrebbe dire così: la regola di diritto entra nel fatto e la regola di diritto nella interpretazione e valutazione del fatto porta con sé una prescrittività che lambisce anche i terreni dell’etica sociale e delle trasformazioni culturali attraverso l’attività di interpretazione. Il fatto attraverso l’interpretazione della norma si trasforma, per l’appunto, in narrazione che è l’attività argomentativa finalizzata a ricostruire una conoscenza veritiera del fatto rilevante per la decisione. Il processo è un momento in cui una verità, quella processuale, viene ad essere rivelata ed è, conseguentemente, narrazione di un fatto controverso che può avere ed ha avuto varie narrazioni. La sentenza è la narrazione decisiva, pur nella sua parzialità, che afferma il diritto. In tale senso la narrazione letteraria e non solo è indubbiamente un mezzo argomentativo importante per valutare la natura di opera artistica del film.
A distanza di cinquant’anni da questa sentenza, ne cambiereste qualcosa?
Alfonso Bosco: Credo che, anche a distanza di cinquanta anni, la sentenza mantenga ancora una sua validità ed attualità, ancor più se si considerano i mutamenti avvenuti nel tempo nella sensibilità collettiva, oggi certamente molto più tollerante rispetto ai concetti di oscenità e di pudore.
La enorme diffusione dei mezzi informatici avvenuta negli ultimi anni ha poi contribuito a sviluppare il senso critico degli spettatori e a produrre meccanismi di valutazione, di difesa e di controllo sociale di tutte le manifestazioni artistiche (o presunte tali), consentendo in tal modo una più moderna consapevolezza e sensibilità, anche a livello individuale, del sentimento del pudore.
Daniele Butturini: Ritengo che la sentenza a distanza di qualche decennio conservi una apprezzabile validità e attualità, tenendo conto della evoluzione culturale che il corpo sociale ha maturato. In tale senso, si evidenzia l’evoluzione che la nozione di buon costume ha subito nel corso del periodo storico successivo alla sentenza in oggetto. Si pensi al fatto che la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2000 ha ‘consacrato’ tale evoluzione nell’affermare che il buon costume, limite della libertà di pensiero ai sensi dell’art. 21 comma 6, vada inteso non solo come ciò «che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione». Secondo tale accezione il buon costume, mantenendo sempre la natura di bene comune non contaminabile da esigenze di conservazione del potere, non deve più declinarsi in protezione di un pudore sessuale di cui è portatrice una certa religione ma in rispetto della dignità umana, che è il principio costitutivo di un patrimonio comune di valore proprio dell’attuale società pluralista e multiconfessionale. In realtà, la sentenza commentata pare particolarmente innovativa nelle argomentazioni anche alla luce delle trasformazioni culturali successive che il diritto, nella interpretazione della clausola generale del buon costume, ha recepito. Pensiamo che si possa dire che la sentenza del Tribunale di Benevento abbia concorso a precorrere le evoluzioni di cui sopra.