"Sarà un anno migliore”. Parola di Leopardi. Giacomo!

"Sarà un anno migliore”. Parola di Leopardi. Giacomo!

Intervista immaginaria a Giacomo Leopardi di Gioconda Fappiano

Mi aggiro al primo piano della Biblioteca nazionale di Napoli in cerca della sala che ospita la sezione leopardiana ma ogni tentativo pare vada stranamente a vuoto. Tra i denti considero che questo 2020 è un anno terribile: mi ci sono volute settimane a causa della pandemia da Covid per avere il permesso di consultare i manoscritti del poeta recanatese. Un uomo di statura bassa, esile, dal colorito pallido stagliato su un viso dall’espressione dolce e vagamente malinconica mi sta seguendo già da un po’ mentre mi aggiro tra le stanze che sono deserte. Infine, con passo incerto, mi si avvicina per rivolgermi la parola. Indossa abiti che sanno di antico e un soprabito turchino cerca di nascondere una schiena curva e gobbosa.

Non si faccia il sangue amaro perché sta girando a vuoto. È un anno andato storto questo, ma le assicuro che gli anni difficili ci sono sempre stati.  Pensi che l’ultimo Natale della mia vita l’ho trascorso qui a Napoli, quando nel 1836 la città fu colpita dal colera e comunque non ho mai rinunciato al lato dolce della vita. Gelati, sorbetti, confetti e altre squisitezze partenopee mi hanno sempre accompagnato, anche nei momenti più difficili. Eppure si parlò di quasi trentamila vittime alla fine dell’epidemia. All'inizio il morbo fu accolto con il solito atteggiamento negazionista-minimalista e nei primi giorni i ricchi, per vie corruttive, nascosero i loro morti  e falsificarono le cause del decesso in modo da evitare le restrizioni di sanità pubblica che avevano vietato le sepolture nelle cappelle gentilizie e nei cimiteri delle chiese.
Quindi, coraggio e in alto i cuori!

Improvvisamente credo di avere le allucinazioni. Forse sarà l’ansia e la stanchezza che mi accompagnano già da un po’ ma penso di essere in presenza di uno spirito. Lo guardo meglio. È lui, Leopardi in persona, tale e quale a come lo avevo sempre visto e immaginato attraverso i libri. Fortunatamente ci sono due sedie nel disimpegno per l’accesso ad una sala della biblioteca. Io svengo quasi su una delle due sedute mentre il poeta si accomoda con grazia sull’altra, la schiena curva che avvicina il suo viso al mio.

Questa città mi riserva sempre delle sorprese. Il suo carattere esoterico mi conduce sempre verso incontri incredibili. Ma pensare di incontrare lei, Giacomo Leopardi, va’ al di là di ogni immaginazione. E per giunta alla fine dell’anno più leopardiano della mia vita.

Capisco. Ancora la storia del pessimismo di cui io sarei l’emblema letterario e filosofico per eccellenza! Le confesso, cara signora, di non essere troppo contento di essere stato etichettato in tal modo da studiosi e critici. Non era questo il mio intento, le assicuro.  Pensi che mi trasferii a Napoli dal mio amico Ranieri per il suo clima dolce e l’indole amabile e benevola dei suoi abitanti, la vitalità il vigore del suo popolo. Insomma, per la voglia di vita. Ritenendo di buon auspicio la mia gobba, molti napoletani solevano talvolta chiedermi dei numeri vincenti al lotto. Cosa che facevo volentieri divertendomi, talvolta consultandomi con Pasquale, un mio amico che faceva il cuoco. 

Forse la felicità non mi era destinata, ma non ho mai smesso di cercarla. Le sembra questo l’atteggiamento di un pessimista?

Però i manuali scolastici ci hanno sempre parlato della sua poesia come quella che meglio esprime la caduta delle illusioni, il dolore universale che attraversa l’uomo, la visione di una Natura matrigna.  Anche la dolcezza dei versi de “L’infinito” è segnata da una profonda lacerazione. Insomma, lei sarebbe il poeta contemplativo del dolore per eccellenza.

In tutta sincerità confesso di aver trasferito spesso nelle mie opere la tristezza e il rammarico dovuta al mio vissuto personale, che è talmente conosciuto che non sto qui a soffermarmi oltre. Ma da qui a farne un sistema filosofico fondato sul pessimismo ce ne vuole! A questo proposito, ho letto da più parti che quando nel 1824 composi a Recanati il nucleo più consistente delle Operette morali avvenne in me una specie di svolta nella concezione della natura, tanto da apparire questa la principale colpevole dell’infelicità umana. È quello che la critica ha definito l’approdo del pessimismo storico -che reputava l’uomo e la ragione colpevoli dell’umana infelicità- al pessimismo cosmico, categorie che non ho mai espressamente citato nei miei scritti e che probabilmente sono state inventate ad uso scolastico. Insomma dal 1824 in poi la natura per me avrebbe coinciso con un’immagine matrigna, violenta, aggressiva, dominatrice, distruttiva.

Io vorrei dire invece che nelle mie opere- dallo Zibaldone, ai Canti alle Operette Morali-  descrivo sempre una natura pulsante, legata al ritmo delle stagioni, di distruzione e rinascita, di una vita imperfetta in cui il desiderio si accende e probabilmente non sarà appagato dal piacere, ma ci rende vivi anche nel dolore. Un desiderio aperto, perché apre alla vita.

La ragione certo ci aiuta a tenere i piedi per terra, è capace di svelare le contraddizioni del reale, ci rende consapevoli della nostra condizione e ci libera dalle false credenze, dalla risibile superbia di chi si crede misura e fine dell’universo, e anche dall’umiliazione di chi implora una pietà che ci è necessariamente negata, dandoci la dignità della consapevolezza.

Sono un convinto materialista. L’uomo è corporeità e singolarità del vivente in rapporto con gli altri viventi.

Lei comunque lamenta il fatto che l’uomo ha conosciuto la felicità solo nel passato perché vicino alla natura in un’antica età dell’oro. Il presente è per lei una specie di valle di lacrime in cui la civiltà non vuole ciò che è naturale.

La civiltà è spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo. La civiltà, progredendo, scorpora, astrae, si fonda sull’anonimato, il conformismo, le ideologie. La massa” è una parola moderna leggiadrissima che elimina l’unicità di ogni essere umano. E invece, le ripeto, la natura vivente è lì con la sua singolarità pulsante e desiderante, pur in rapporto con l’universo. Il desiderio nasce e muore con l’uomo, è il suo respiro. Ciò che è naturale è caduto nell’oblio. Mi chiedo come farete voi moderni, pronti a credere nel significato salvifico del progresso, a recuperare il rapporto con la natura che, a quanto sembra, avete già notevolmente compromesso.

Credo vi farebbe un gran bene praticare la poesia, una poesia prossima alla natura, come quella degli antichi.

Al momento quello che più spaventa è l’inizio del nuovo anno, considerati i disastri di quello passato. Le confesso che provo un certo timore anche nel fare gli auguri.

Qualsiasi disgrazia, il giorno dopo non è che storia antica. Ha letto il mio “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”?  

Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.

Le auguro comunque di essere come una ginestra, capace di vivere e rinascere in terreni aridi e ostili   con un’esplosione di fiori gialli dal profumo assai intenso. Affronti con coraggio l’anno che verrà e scommetta ancora sulla solidale compagnia degli umani che, per quanto imperfetti, possono aiutarla nel percorso della fatica della vita. Insieme il nuovo anno sarà di certo migliore.

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