Una piccola-grande donna. Intervista immaginaria a Jo March

Una piccola-grande donna. Intervista immaginaria a Jo March

 Intervista immaginaria di Gioconda Fappiano

Piccole Donne. Mi siedo in platea e attendo che il film cominci. Ne ho visto diverse versioni, ma questa dicono sia particolarmente interessante.  Sono trascorsi buoni dieci minuti, quando una donna ossuta e tutta nervi arriva affannata e mi si siede accanto nella sala buia e attenta. Ha una Moleskine tra le mani e tra una sequenza e l’altra prende appunti accompagnandoli a cenni di approvazione o di reprimenda. Ogni tanto mi scopro a guardarla. Ha qualcosa di familiare. Soprattutto i capelli lunghi e l’aspetto informale dei vestiti mi ricordano qualcuno. E’ la copia sputata di Jo March, la stessa delle illustrazioni del libro che mi regalò mia madre quando avevo dieci anni. 

Mi scusi, ma lei somiglia incredibilmente a Jo March. 

E se le dicessi che sono proprio io?

E cosa ci fa Jo March in un cinema di provincia?

Guarda l’ennesima versione del romanzo dal quale sono nata. Quale migliore occasione per vedermi come mi vedono gli altri? Ti prego, dammi del tu.

E per me quale migliore occasione per parlarti? Lo sai, quando ero una bambina sei stata il mio idolo. Mia madre mi regalò Piccole Donne perché voleva diventassi una signorina perbene, come le tue sorelle. Non aveva fatto i conti Jo, la scrittrice- maschiaccio del romanzo che divenne il mio alter ego. 

Me lo hanno detto in tante, e anche in questa nuova versione cinematografica mi dipingono così. La verità non è proprio questa.

E qual è allora?

Io non ho mai voluto essere un maschio. Sono sempre stata orgogliosa della mia femminilità, anche se non ho un corpo accogliente e modi accattivanti come quelli di mia sorella Amy, né l’aspirazione assoluta al matrimonio come Meg o la timidezza e la tranquillità della mia amatissima Beth.   Ho pianto a dirotto quando ho tagliato i capelli per contribuire alla spese di viaggio di Marmee quando nostro padre rimase ferito nella guerra di secessione. Mi vedevo strana e brutta, come qualsiasi ragazza che vede andare via la cosa più bella che possiede. Essere inquieta e ribelle, avere un’indole indipendente non significa rinunciare ad essere donna. Ho sempre voluto essere donna, ma a modo mio, come pensavo fosse giusto per me. Il punto non è essere maschi o femmine. Il punto è essere liberi. Certo, quando ero più giovane mi piaceva provocare gli altri adottando pose maschili e sognando di fare qualcosa di eroico e meraviglioso tanto da non essere più dimenticata. Avrei voluto, ad esempio, stare in prima linea sul fronte, cosa che oramai fanno normalmente le donne che si arruolano. Ma inorridisco quando sento dire “ Sembra un uomo” se si parla di una donna che fa  attività considerate un tempo solo ad appannaggio degli uomini. Per me questa è vera ingiustizia  e discriminazione: pensare di dover rinunciare alla propria differenza.

Eppure ancora oggi le disparità di tipo sessuale non sono superate. Ai tuoi tempi si diceva che gli uomini dovessero lavorare e le donne sposarsi per denaro. Che il matrimonio fosse un affare economico lo aveva ribadito più volte anche zia March: “Sposata o morta”. 

“Cos’è una zitella? Una donna che è ricca e può permettersi di vivere come vuole”. Così ci diceva anche  zia March, che preferiva Amy a me, ma non ha esitato a lasciarmi in eredità la sua bellissima casa, forse pensando che non sarei mai riuscita a trovare marito per il mio caratteraccio. Zia March riconduceva un fatto culturale ad un fatto puramente economico. E non sbagliava del tutto. A ben vedere molti dei pregiudizi legati alle differenze di sesso, di razza e di religione sembrano scomparire di colpo se ti trovi di fronte una persona ricca e potente. Quasi sempre il discrimine vero è quello tra ricchezza e povertà. Poi vengono le ideologie, parola oramai desueta. Le donne oggi, come ieri, sono assolutamente capaci di prendere in mano il destino del mondo ma questo ha generato competizione negli uomini che ancora non sono culturalmente preparati alla condivisione del potere. Personalmente ho sempre voluto emanciparmi sia culturalmente che economicamente, ma è anche vero che sono cresciuta in una famiglia aperta ai cambiamenti, con dei genitori  che non hanno ostacolato noi ragazze sulla strada dell’autonomia, lasciandoci libere di seguire le nostre inclinazioni. Ognuna di noi sorelle March ha avuto tra le mani la chiave del suo castello in aria con la quale, ciascuna a suo modo, ha aperto la porta del futuro realizzando i propri obiettivi. 

Nessuna delle tue giovani lettrici però avrebbe mai pensato che ti saresti sposata. Ti rendi conto di aver tradito tante ragazze che si sono immedesimate nel tuo personaggio, nella tua essenza di donna libera? Perché hai sposato il professor Fritz Baher?

Potrei tranquillamente risponderti che il finale di Piccole Donne e Piccole donne crescono lo ha deciso May Alcott, l’autrice, e che pur ribellandomi e recalcitrando ho dovuto accettarlo in nome del finale lieto, e atteso dal pubblico del momento, in cui la donna o si sposa o muore, come abbiamo già detto. Adesso che sono anch’io una scrittrice affermata capisco il motivo che ha portato Louisa a questa scelta. Ma se invece ti rispondessi che ho scelto liberamente di sposarmi per amore? Perché per Jo March si vuole una forma cristallizzata? Ricordo molto bene quando Meg mi annunciò di volersi sposare e io feci di tutto per convincerla a non farlo. Il matrimonio mi sembrava la disgrazia più grande che potesse capitarle, ma lei, con molta calma mi disse: “Il fatto che voglia sposarmi non significa che il mio sogno sia inferiore al tuo”, riferendosi al mio desiderio di diventare una famosa scrittrice.  Non ho mai messo da parte la mia libertà, molte volte metto da parte la mia solitudine. L’esperienza, soprattutto quella del dolore, cambia le persone. Quando ho incontrato Fritz ero pronta ad amare, che è diverso dal voler essere amata, come mi era capito con Laurie, il mio Teddy. Poi, se proprio vogliamo dirla tutta la mia è stata una scelta alternativa, poco economicamente ispirata. Ho sposato un emigrato, dalle mani vuote ma dal cervello pieno, un uomo che non ha avuto paura di dirmi la verità su me stessa, bella o brutta che fosse, e che ha condiviso il mio sogno di fondare una scuola. Adesso la gestiamo insieme e l’aiuto di Fritz mi permette di conciliare il mio lavoro d’insegnate con quello di scrittrice. Adesso che finalmente sto girando l’Europa, ad esempio, sono tranquilla di aver lasciato la mia scuola di Plumfield in buone mani. Ho realizzato il progetto di un istituto sperimentale, anche per Piccoli Uomini, cosa che mio padre non è mai riuscito a realizzare.

Parliamo di Laurie, il tuo Teddy. Non hai mai pensato che fosse un ricco, viziato, pusillanime, smidollato narciso? 

Come siamo intransigenti! Non ho mai chiuso gli occhi davanti ai difetti di Teddy, anche se forse in parte costituiscono parte del suo fascino disarmante. Laurie è stato il più grande amore della mia giovinezza, compagno di giochi e di belle speranze. Il suo sogno è sempre stato quello di girare il mondo fino ad esserne sazio, di stabilirsi in Germania e di diventare un grande musicista. Ha sempre voluto aver a che fare poco con affari e denaro.  Di lui ho amato la fragilità, nascosta dietro la facciata del ragazzo ricco e viziato, l’uomo in cerca di continue conferme e rassicurazioni. Tra noi due sono sempre stata io la più forte. Come coppia non avrebbe funzionato: lui voleva una donna accogliente che si prendesse cura di lui; io invece volevo un uomo che mi tenesse testa. Inoltre siamo entrambi egocentrici e con la testa dura. Per questo l’ho mollato e sono fuggita a New York per cominciare la mia carriera. All’inizio non l’ha presa bene ed è andato a sollazzarsi in Europa, dove però ha incontrato mia sorella.  La scelta di Amy come moglie, arrivata come un fulmine a ciel sereno lasciandomi attonita e con un retrogusto amaro in bocca, alla fine si è rivelata una scelta vincente. Entrambi hanno ottenuto quello che volevano: Amy un matrimonio ricco, Teddy una moglie capace di accudirlo e di stargli un passo indietro.

Amy è sempre stata un po’ gelosa del tuo talento, al punto da bruciare il manoscritto del tuo primo romanzo, sentendosi sempre la seconda, eppure avete alla fine trovato una composizione nel vostro rapporto. Crescere porta spesso ad allontanarsi dai propri affetti, ed è questo quello che tu maggiormente temevi.

In un percorso di crescita c’è sempre qualcosa che dobbiamo lasciare indietro e nuovi carichi da assumere sulle spalle. Spesso questo risulta doloroso, per quanto necessario. Mio padre amava fare riferimento all’allegoria del viaggio del pellegrino che con il suo fardello sulle spalle ( pregi e difetti) passa dalla Città della Perdizione (ossia la cruda realtà) alla città Celeste, dove si raggiungono i propri obiettivi ed il completamento della maturazione.  Amy, diversissima da me, ha rinunciato al suo sogno di diventare pittrice perché priva di genialità, ma mi ha portato via Teddy che, nonostante tutto, continuo teneramente ad amare. Io invece ho dovuto mettere da parte il mio orgoglio ed ho imparato ad accettare quello che non posso cambiare. La perdita più devastante è stata quella di Beth, la migliore di tutte noi March. Ciò nonostante, nessuno potrà mai toglierci il piacere dei ricordi e l’affetto riposto negli angoli più nascosti del nostro cuore non ci abbandonerà mai. 

Lo sai che in tutto il mondo sono sorte librerie e case editrici che portano il suo nome?

Lo so bene e la cosa mi lusinga molto, ma ultimamente si legge troppo poco. Per questo ho deciso di prendermi un anno di libertà e di andare in giro con un Camper pieno di testi, talvolta dimenticati, da leggere in pubblico e distribuire gratuitamente. So bene che è una forma artigianale e fuori moda di diffusione del libro, ma niente fa più bene del contatto diretto con la gente.  I racconti letti e ascoltati durante l’infanzia sono quelli che hanno maggiormente sviluppato la mia fantasia e l’amore per scrittura. La cosa in sé poi mi diverte e mi fa sentire particolarmente libera. Mi sono sempre sentita un po’ nomade.

Dopo questa chiacchierata, io ho pensato invece  ad una cosa diversa. Mi piacerebbe realizzare una bambola, “ Jo March”, bella e solare come te, con un libro tra le mani,  intenta a leggere. Vorrei diventasse il simbolo della Consulta Femminile e della biblioteca del piccolo paese del Sud in cui abito. Ti farebbe piacere se con un gruppo di amiche riuscissimo in questo proposito?

Che idea originale! Finalmente una bambola che ama leggere. Un bel segnale per tante donne. Spero di trovarmi dalle vostre parti quando sarà pronta. Ne voglio assolutamente un prototipo. Magari  per l’occasione potrei venire dalle vostre parti con il mio camper pieno di libri a raccontarvi una delle mie storie.

Gioconda Fappiano


                                                                                                                    

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