A cura di Antonella Vitelli, con le dichiarazioni di Pinuccio Fappiano, Luca Mercalli e Alfonso Pecoraro Scanio.
Nel 1872 gli Stati Uniti istituirono Yellowstone, il primo Parco Nazionale del mondo. Nacque dall’idea rivoluzionaria che un territorio potesse essere sottratto allo sfruttamento economico e consegnato intatto alle generazioni future.
Centocinquant’anni dopo, questa intuizione appare come un atto di resistenza culturale in un tempo che tende a consumare tutto, anche ciò che dovrebbe salvare.

Oggi, mentre la crisi climatica accelera, i parchi nazionali tornano al centro del dibattito globale come rifugi climatici attivi — spazi di equilibrio che regolano acqua, aria e temperatura, fondamentali per la sopravvivenza umana.
Come ricorda Luca Mercalli, climatologo e presidente della Società Meteorologica Italiana:
“Non possiamo fermare la crisi climatica senza spazi di natura integra, capaci di assorbire CO₂, regolare le acque e mantenere la biodiversità. I parchi sono la nostra assicurazione per il futuro.”
Eppure, le politiche ambientali di molti Paesi continuano a muoversi in direzione opposta. L’arretramento del Green Deal in Europa e le politiche negazioniste negli Stati Uniti mostrano quanto fragile sia la volontà di difendere il pianeta da logiche produttiviste a breve termine.
L’Italia è tra i Paesi con la maggiore densità di aree protette al mondo: 25 parchi nazionali, 134 parchi regionali e oltre 500 riserve naturali. Non è solo una questione di numeri, ma di identità ecologica diffusa. Ogni parco custodisce una forma di equilibrio ambientale e culturale diversa:
I parchi alpini, come il Gran Paradiso, lo Stelvio, le Dolomiti Bellunesi o la Val Grande, sono territori dominati dall’altitudine. Qui la natura si mostra aspra e potente: ghiacciai, pascoli d’alta quota e boschi di conifere ospitano specie simbolo come lo stambecco, il camoscio e l’aquila reale.
Scendendo lungo la dorsale appenninica si incontrano i parchi appenninici, dove la montagna si addolcisce e diventa luogo di equilibrio tra uomo e natura. Nei parchi d’Abruzzo, della Maiella, del Pollino, del Matese o dell’Appennino Tosco-Emiliano si alternano boschi di faggi, valli, borghi e pascoli, in un paesaggio che conserva la spiritualità e la cultura rurale dell’Italia interna.
Lungo le coste e nei mari si estendono i parchi costieri e insulari, come l’Arcipelago Toscano, La Maddalena, l’Asinara, le Cinque Terre o Pantelleria. Qui la biodiversità marina si intreccia con la storia dell’uomo: scogliere, praterie di posidonia, acque turchesi e villaggi sospesi sul mare raccontano il legame profondo tra natura e civiltà mediterranea.
Nelle regioni più aride e luminose si trovano i parchi mediterranei e steppici, come l’Alta Murgia, l’Aspromonte e il Gennargentu. Sono paesaggi di macchia profumata, uliveti, praterie e rocce calcaree, dove le specie si sono adattate a vivere in condizioni di scarsità d’acqua e di calore intenso.
Infine, l’Italia ospita anche parchi vulcanici e geologici, come il Vesuvio, Pantelleria e — in proposta ancora oggi i Campi Flegrei. In questi luoghi la terra è viva e in continua trasformazione: crateri, fumarole, lave e sorgenti termali ricordano la forza primordiale che ha modellato il nostro territorio.
“I parchi non sono un vincolo, ma una risorsa economica e culturale,” ricorda Alfonso Pecoraro Scanio, Presidente della Fondazione UniVerde ed ex Ministro dell’Ambiente.
Se si investe nel turismo sostenibile, nelle comunità energetiche, nella filiera corta, la tutela diventa sviluppo. Dobbiamo smettere di pensare all’ambiente come a un lusso, e riconoscerlo come infrastruttura di vita.
Ed è proprio in questa dichiarata prospettiva, quella che vede nella tutela un motore di sviluppo e non un ostacolo, che si inserisce la nascita del Parco Nazionale del Matese, l’ultimo istituito in Italia. Si estende tra Campania e Molise e protegge un’area di quasi 88.000 ettari: un territorio carsico, montano, ricco di laghi glaciali, faggete vetuste e borghi che sembrano usciti dal tempo. Un sistema ecologico complesso che richiama una domanda più ampia: come garantire che i parchi restino luoghi vivi e funzionanti, e non soltanto confini tracciati sulla carta? Una domanda che non riguarda solo l’Italia, ma il modo stesso in cui il mondo occidentale concepisce oggi la tutela ambientale.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema dei parchi nazionali, simbolo mondiale della conservazione, mostra segni di vulnerabilità. Mentre a Washington la chiusura del governo federale entrava nella sua prima settimana, i parchi si sono trovati in uno stato di incertezza: molti restano formalmente aperti, ma con servizi ridotti e personale insufficiente. Circa due terzi dei dipendenti del National Park Service sono stati sospesi, e le attività essenziali, come la sicurezza e il monitoraggio degli incendi, procedono a rilento. Un segnale che rivela quanto la tutela della natura resti subordinata alle contingenze politiche. In Italia, pur con le sue fragilità, il sistema dei parchi si fonda su una relazione viva con i territori e le comunità locali. Per questo, il messaggio di Mercalli acquista ancora più valore:
Non possiamo permetterci di delegare la tutela del territorio a logiche di emergenza o di bilancio. La natura non può aspettare che la burocrazia si rimetta in moto.
Ma perché questa visione non resti solo un ideale, serve una gestione concreta, capace di trasformare la tutela in opportunità. Un tema che non riguarda solo l’Italia: in tutto il mondo, la sopravvivenza dei parchi dipende dalla qualità della loro governance e dal grado di partecipazione delle comunità.
Come dimostra lo studio di Ferretti-Gallon, Griggs, Shrestha e Wang (National Parks Best Practices, 2021), pubblicato sull’International Journal of Geoheritage and Parks,
i parchi nazionali devono essere gestiti non come santuari isolati, ma come sistemi sociali dinamici in cui le persone sono parte dell’ecosistema che intendono proteggere.
Secondo gli autori, “l’inclusione degli attori locali genera legittimità e garantisce che le decisioni di conservazione abbiano un significato locale e una tenuta politica nel tempo.” In parole povere, non basta istituire un parco: occorre dotarlo di una governance reale e partecipata, capace di costruire fiducia e continuità tra cittadini e istituzioni.
Il modello auspicato è quello di un parco che coinvolge e ascolta, non un organismo calato dall’alto.
In questa direzione si muove anche la nuova Legge Regionale sulle Aree Protette, il Governo degli Enti di Gestione e i Programmi di Sviluppo dei Territori, recentemente approvata in Campania. La riforma, almeno sulla carta, introduce una governance più moderna e stabile, con risorse certe, piani pluriennali e maggiore autonomia gestionale per gli enti parco. L’obiettivo è superare la storica separazione tra tutela e sviluppo, trasformando le aree protette in motori di economia sostenibile e di partecipazione territoriale. Resta tuttavia aperta la sfida più delicata: garantire che l’efficienza amministrativa non si traduca in una perdita di voce per le comunità locali, sostituendo il dialogo con una gestione più tecnica e centralizzata.
Un esempio virtuoso di come la raccolta dati possa invece rafforzare — e non sostituire — la partecipazione è quello del Parco Nazionale del Gran Paradiso. In un progetto realizzato con Motion Analytica, il parco ha utilizzato il tracciamento delle reti mobili integrato con dati geolocalizzati per mappare i flussi e le presenze dei visitatori, ottenendo una fotografia dinamica del territorio. Grazie a queste informazioni, è stato possibile individuare i percorsi più battuti, i momenti di maggiore afflusso e le aree più vulnerabili, intervenendo con politiche di contenimento mirate, miglioramento dei servizi e strategie di fruizione sostenibile. Secondo i dati di Federparchi prima del 2020, i parchi italiani registravano circa 27 milioni di presenze turistiche annue, per un valore economico complessivo di oltre 5 miliardi di euro e più di 100.000 posti di lavoro generati lungo la filiera del turismo verde. Dopo il Covid, questa tendenza ha assunto una dimensione sociale nuova: la lunga clausura domestica ha trasformato la voglia di aria aperta in un vero e proprio fenomeno culturale. I mesi di maggio e giugno hanno registrato crescite importanti, e anche settembre e ottobre si annunciano positivi: migliaia di turisti dal Nord Europa scelgono i parchi italiani per il foliage autunnale e per la quiete delle alte quote.
"Un turismo, quello dei parchi, che deve essere orientato", come sottolinea Pinuccio Fappiano, ambientalista e divulgatore scientifico impegnato da anni nella tutela delle dinamiche ecologiche del Matese, a un principio semplice ma profondo: la protezione del territorio nasce dall’ascolto di ogni parte dell’ecosistema. Nelle sue ricerche, Fappiano ha esplorato l’“intelligenza naturale” di specie che sovente abitano i parchi come i cinghiali e i lupi, creature guidate da equilibri interni che sfuggono alle regole umane ma obbediscono a leggi antiche, perfettamente armoniche con l’ambiente che le ospita.
Il lupo non è un nemico dell’agricoltura, ma un alleato. È il più efficace bioregolatore del cinghiale: seleziona i soggetti deboli, regola la densità dei branchi e riduce i danni alle coltivazioni.
Per lui, la caccia non ristabilisce l’equilibrio, lo altera. “Abbiamo creduto di poter controllare la natura con la logica del prelievo,” dice, “ma la natura non funziona come un bilancio. Funziona come un organismo: se ne togli una parte vitale, il sistema reagisce amplificando lo squilibrio.” Nel Matese, dove il lupo è tornato stabilmente, questo equilibrio è tornato visibile. “Non c’è gestione più efficace della libertà della natura di fare il proprio lavoro. Il parco serve a questo: non a comandare sulla fauna, ma a lasciarla vivere secondo le sue regole. In esse c’è già tutto il senso dell’equilibrio.”
Ma un parco non esiste davvero se non è vissuto, difeso e raccontato da chi lo abita. Le leggi e le istituzioni non bastano: servono persone, associazioni, amministratori e giovani pronti a riconoscere in quei luoghi non solo un patrimonio naturale, ma una parte viva della propria identità collettiva.
“Un parco vive solo se vive la comunità che lo circonda: la partecipazione degli abitanti è il primo atto di tutela.” scrive Franco Pedrotti.

Coinvolgere le comunità locali significa trasformare la conservazione in cittadinanza attiva: far sì che la tutela non venga percepita come un vincolo, ma come una possibilità. Perché solo dove la popolazione sente il parco come “suo”, come un’estensione naturale della vita quotidiana, può nascere un equilibrio autentico tra uomo e ambiente. Un
banco di prova per il futuro delle aree interne italiane per ora nell’epoca del laissez-faire ambientale, in cui il profitto immediato detta ancora le priorità dei governi, un parco nazionale rappresenta un gesto controcorrente che afferma il valore della misura, del limite e della responsabilità. Nel tempo della fretta, il parco sceglie la lentezza; nel tempo della dispersione, ricorda che proteggere un ecosistema in fondo significa proteggere noi stessi e ciò che arriverà dopo.